Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10016 del 27/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2010, (ud. 09/02/2010, dep. 27/04/2010), n.10016

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA N FABRIZI

11, presso lo studio dell’avvocato STUDIO BERGAMINI, rappresentato e

difeso dall’avvocato PACELLI CARLO giusta mandato a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCA POPOLARE DELL’ETRURIA E DEL LAZIO S.C.A R.L.;

– intimata –

sul ricorso 15620-2006 proposto da:

BANCA POPOLARE DELL’ETRURIA E DEL LAZIO S.C.A R.L., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA EMMIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato

ANTONINI MARIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

BRILLI FIAMMETTA, FANFANI GIUSEPPE, giusta mandato in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

A.O.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1704/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 16/12/2005 r.g.n. 1468/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che concluso per il rigetto del ricorso principale;

accoglimento dell’incidentale per quanto di ragione.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 2.12/16.12.2005 la Corte di appello di Firenze, in parziale accoglimento dell’appello proposto da A.O. avverso la sentenza del Tribunale di Arezzo dell’8.5.2003, condannava l’appellante al pagamento in favore della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio s.c.a.r.l. della complessiva somma di Euro 250.000,00, a titolo di risarcimento del danno per le perdite sofferte dal datore di lavoro a seguito di molteplici affidamenti concessi per somme esorbitanti i limiti assegnati.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, con riferimento alla quantificazione del danno, andavano scomputati dal totale dei crediti in sofferenza i crediti garantiti da garanzia reale, ma doveva tenersi, altresì, conto, sulla base di una ragionevole presunzione, degli esiti delle procedure di recupero in corso, alla luce delle “astratte residue possibilità di soddisfo non del tutto escluse”.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso A.O. con due motivi.

Resiste con controricorso la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, la quale ha anche proposto ricorso incidentale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso principale, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e 4, in relazione all’art. 176 c.p.c., comma 2, art. 134 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, art. 159 c.p.c.,, il ricorrente prospetta che l’ordinanza con la quale la corte territoriale , in esito all’udienza del 15.4.2005, aveva ammesso la prova testimoniale non era stata mai comunicata al procuratore, con conseguente nullità degli atti susseguenti e della sentenza impugnata.

Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente rileva che la corte di merito, con insufficiente e contraddittoria motivazione, ha omesso di valutare ben otto “posizioni” tuttora “attive”; non ha tenuto conto dei limiti di autonomia del dipendente, che valgono ad escludere, entro tale ambito, alcuna causa di danno; non ha considerato che i piccoli prestiti in contestazione sono ancora al vaglio del giudice e che la loro inesigibilità è, pertanto, solo ipotetica.

Con un unico motivo, la Banca intimata propone ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, lamentando che la sentenza impugnata ha ridotto la somma oggetto di condanna (determinata in primo grado in Euro 648.192,40 e ridotta in appello in Euro 250.000,00) senza fornire alcuna compiuta motivazione dei criteri di determinazione del danno a tal fine seguiti.

1 ricorsi vanno preliminarmente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Inammissibile è il primo motivo del ricorso principale.

Deve, al riguardo, richiamarsi il principio di diritto secondo cui, se è vero che la corte di Cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo è anche giudice del fatto ed ha il potere- dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia, per il sorgere di tale potere-dovere, è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile d’ufficio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il fatto processuale di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazione e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (v. per tutte, Cass. n. 14133/2007), con la puntuale trascrizione degli atti difensivi e dei verbali di udienza che siano a tal fine rilevanti.

Condizioni che, nel caso, non sono affatto riscontrabili.

Meritevole di accoglimento è, invece, il secondo motivo di ricorso per essere la sentenza impugnata viziata ai sensi del disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè il giudice di appello, nella quantificazione del danno, ha fatto riferimento a criteri non sorretti da una condivisibile ragione, nè rispettosi dei principi giuridici applicabili in materia.

Infondato appare, al riguardo, il rilievo circa l’omessa considerazione “dei limiti di autonomia dell’ A., limiti fino alla cui concorrenza non vi può essere in nessun caso danno”;

rilievo che appare, in realtà, volto a rivisitare l’an della responsabilità, più che l’esistenza di un danno risarcibile e la sua misura. Ha, infatti, accertato sul punto la sentenza impugnata che il datore di lavoro, nell’attribuire al dipendente poteri discrezionali nella gestione del credito, aveva emanato una specifica direttiva (cd. sul “rischio unico”) che rapportava alla soglia massima affidata al dipendente il coacervo di operazioni che, ancorchè formalmente riferite a soggetti distinti, erano sostanzialmente imputabili alla stessa persona fisica o giuridica e che tale direttiva era stata gravemente violata dal ricorrente, con la concessione del credito, oltre i limiti assegnati, a tale N.M. e ad altri soggetti allo stesso riferibili.

Ne deriva che , a fronte di tali fatti (che la corte toscana ha ritenuto “sostanzialmente non contestati” dall’ A.), del tutto incongruo appare il riferimento ai “limiti di autonomia” dello stesso, riguardando il fatto illecito lamentato, ed accertato in esito al giudizio, proprio la valutazione (ed il superamento) di tali limiti, alla luce delle direttive aziendali, ed in particolare del criterio del cd. “rischio unico”. Ciò premesso, tanto il ricorso principale, che quello incidentale appaiono fondati, con riferimento alla valutazione che la corte di merito ha operato in ordine alla quantificazione del danno.

Ha ritenuto, in proposito, la corte territoriale che, con riferimento ai crediti non assistiti da garanzia reale, “non è possibile ipotizzare, se non per ragionevoli presunzioni, gli esiti delle procedure di recupero dei crediti” e che, pertanto, sulla base delle “astratte residue possibilità di soddisfo non del tutto escluse oggettivamente” il danno risarcibile va “presuntivamente” determinato nella misura di Euro 250.000,00.

In tali termini esaurendosi la motivazione del provvedimento impugnato, risulta evidente il difetto di una adeguata e pertinente motivazione in ordine ai criteri che sono stati posti a giustificazione della decisione, ed in particolare circa i criteri direttivi seguiti nella liquidazione del danno, avendo il giudice di merito sostanzialmente omesso di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, pervenendo ad un esito non sorretto da un esaustivo approfondimento fattuale e da una adeguata disamina logica e giuridica della situazione controversa.

Basti sol dire che non risulta in alcun modo comprensibile sulla base di quali “ragionevoli presunzioni” si sono valutati gli esiti delle procedure di recupero dei crediti, ed , in particolare, se si sia tenuto conto, alla luce dei rilievi delle parti e delle risultanze delle indagini contabili svolte nel corso del giudizio (che non hanno formato, in realtà, oggetto di alcun specifico approfondimento), della natura e delle caratteristiche dei crediti in contestazione, al fine di apprezzarne, secondo criteri di plausibilità, la sostanziale irrecuperabilità ovvero la possibilità di residuo recupero, alla luce delle verifiche in corso; e tanto più in presenza di un accertamento contabile che, con analitica valutazione, era pervenuto a ben diverso esito.

Il che si è risolto anche in un errore di impostazione giuridica, nel momento in cui ha determinato l’adozione di un criterio del tutto generico di individualizzazione e liquidazione del danno, laddove, in tema di risarcimento del danno, quale conseguenza del fatto illecito altrui, è pur sempre necessaria la dimostrazione, da parte del danneggiato, non solo della potenzialità lesiva del fatto altrui, ma anche che tale fatto sia stato causa di un danno concreto. Con la conseguenza che è suscettibile di risarcimento anche il danno futuro, ma a condizione che sussista un elevato grado di probabilità che esso si verifichi secondo un criterio di regolarità (id quod plerumque accidit), rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, alla luce di tutte le circostanze rilevanti nella fattispecie.

La sentenza deve essere, pertanto, cassata e la causa rimessa per un nuovo esame, da compiersi alla luce dei criteri indicati, ad altro giudice di merito, il quale provvederà anche in ordine alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale ed accoglie il secondo motivo del ricorso principale nonchè il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Bologna.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2010

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