Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10016 del 20/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 20/04/2017, (ud. 22/12/2016, dep.20/04/2017),  n. 10016

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 842/2015 proposto da:

T.M., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA PRESSO LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati ANTONIO LEONARDO FRAIOLI, ROBERTO CERRETI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

GS S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EZIO 24, presso lo

studio dell’avvocato GIANCARLO PEZZANO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1616/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/06/2014 R.G.N. 1449/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/12/2016 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito l’Avvocato ROBERTO CERRETTI;

udito l’Avvocato GIANCARLO PEZZANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 1616/2014, depositata il 25 giugno 2014, la Corte di appello di Roma respingeva il gravame di T.M. e confermava la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato prescritta l’azione di annullamento del recesso per superamento del periodo di comporto comunicato dalla datrice di lavoro GS S.p.A. con lettera ricevuta dal ricorrente il (OMISSIS).

La Corte di appello rilevava a sostegno della propria decisione come il giudice di primo grado avesse esattamente ritenuto che nel caso di specie era maturata la prescrizione quinquennale, essendo il relativo termine decorso alla data in cui la società datrice di lavoro aveva avuto conoscenza legale della domanda, realizzatasi con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio; nè poteva condividersi la tesi della idoneità del solo deposito del ricorso giudiziale, anzichè della sua notificazione, ad interrompere il corso del termine, non potendosi estendere al caso in esame la disciplina desumibile dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 112, comma 1, quale risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 129/1986, e ciò sul rilievo che diversamente dai lavoratori colpiti da infortunio sul lavoro o da malattia professionale il ricorrente avrebbe potuto interrompere in via stragiudiziale la prescrizione.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il T. con unico motivo; la società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con unico motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 c.c., commi 1 e 4, nonchè difformità rispetto alla giurisprudenza consolidata di legittimità, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto che la condizione dei lavoratori colpiti da infortunio e affetti da malattie professionali, i quali possono interrompere il corso della prescrizione solo con la domanda giudiziale e non anche con ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore, non sia del tutto analoga a quella del lavoratore che, come nella specie, intenda promuovere azione giudiziale di annullamento del licenziamento, posto che anche in quest’ultimo caso il corso della prescrizione può essere interrotto solo con la domanda giudiziale; con la conseguenza che anche nel caso in cui venga proposta un’azione di annullamento del licenziamento – come nel caso di proposizione di azione per conseguire le prestazioni assicurative INAIL D.P.R. n. 1124 del 1965, ex art. 112, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 129/1986 – il termine della prescrizione è interrotto a far tempo dalla data di deposito del ricorso introduttivo della controversia, diversamente non potendosi che dubitare, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 2943 c.c., in relazione all’art. 414 c.p.c., e art. 2934 c.c..

Il ricorso è fondato.

Si deve premettere che l’azione di annullamento del licenziamento, allo stesso modo di tutte le azioni costitutive, appartiene alla più ampia categoria dei diritti potestativi, caratterizzati, per un verso, dalla condizione di “soggezione”, anzichè di obbligo, in cui versa il soggetto passivo (e cioè dall’irrilevanza di ogni suo comportamento ai fini della realizzazione del diritto, la quale è rimessa soltanto all’attività del titolare dello stesso) e, per altro verso, dal fatto che la realizzazione del diritto si sostanzia in un mutamento di natura soltanto giuridica e non materiale.

Tale duplice caratteristica, come più volte sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte, esclude la possibilità di atti interruttivi, sia perchè è l’attività di realizzazione del diritto, da parte del suo titolare, che porta al soddisfacimento del diritto stesso, sia perchè l’irrilevanza di ogni attività del soggetto passivo rende inconcepibile un atto di intimazione (e così l’atto di costituzione in mora che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., comma 4, interrompe la prescrizione dei diritti di credito) che abbia tale soggetto come destinatario.

Ancora di recente è stato ribadito che “in tema di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, una volta osservato, con l’impugnazione stragiudiziale, il termine di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo può essere proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., decorrente dalla comunicazione del recesso, senza che tale termine possa restare interrotto dal compimento di una diversa attività, quale l’istanza per il tentativo di conciliazione stragiudiziale” (Cass. n. 24675/2016, ove richiami giurisprudenziali).

La possibilità di interrompere il corso della prescrizione esclusivamente mediante l’atto di esercizio dell’azione, vale a dire con la proposizione della domanda giudiziale, e non anche con ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore, è il punto di partenza da cui muove la sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 1986, la quale ha dichiarato illegittimo il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 112, comma 1, nella parte in cui non prevede che il termine triennale di prescrizione dell’azione volta a conseguire le prestazioni assicurative erogate dall’INAIL sia interrotto a far tempo dalla data del deposito del ricorso introduttivo della controversia, effettuato nella cancelleria dell’adito pretore, e seguito dalla notificazione del ricorso e del decreto pretorile di fissazione dell’udienza di discussione.

La Corte costituzionale ha rilevato come il rito del lavoro introdotto dalla L. 11 agosto 1973, n. 533, abbia separato la richiesta di tutela giudiziale, formulata con il deposito del ricorso, dalla chiamata in giudizio del convenuto e subordinato la notificazione a quest’ultimo dell’atto introduttivo “alla prolazione del decreto pretorile di fissazione dell’udienza di discussione”: ciò che “vieta di addossare all’infortunato sul lavoro e all’affetto da malattia professionale i tempi della prolazione” del medesimo decreto, “in difetto del quale non si può effettuare la vocatio in ius”.

La Corte ha conclusivamente osservato come, ove non fosse stata sancita la parziale incostituzionalità (nei termini di cui al dispositivo) dell’art. 112, comma 1, D.P.R. cit., “il trattamento riservato agli infortunati sul lavoro e agli affetti da malattie professionali sarebbe” risultato “in notevole grado deteriore rispetto a quello della comune dei creditori: da un lato sarebbe ad essi preclusa l’utilizzazione dei mezzi stragiudiziali previsti nell’art. 2943 comma primo e quarto c.c. e dall’altro lato sarebbero astretti ad integrare la propria iniziativa giudiziale con la fissazione, da parte dell’adito pretore, della udienza di discussione”.

Nella fattispecie in esame risultano compresenti entrambi gli elementi che fondano la richiamata pronuncia di incostituzionalità e cioè, da un lato, la preclusione, che costituisce diritto vivente, all’utilizzazione di atti interruttivi diversi dalla proposizione dell’azione giudiziale e, dall’altro, la scissione, che riposa su di un dato normativo non superabile, tra il momento in cui si realizza (con il deposito del ricorso) la richiesta di tutela rivolta al giudice ed il momento successivo in cui (con la notifica dell’atto) tale richiesta viene portata a conoscenza della controparte.

Ne consegue che anche nel caso dedotto di azione di annullamento del licenziamento, come in quello su cui si è pronunciata la sentenza n. 129/1986, è giustificato il divieto di far ricadere sul soggetto che agisce in giudizio i tempi di emanazione del decreto (ora del giudice del lavoro) di fissazione dell’udienza di discussione, perchè identico, in entrambe le ipotesi, è il rischio di una compressione del termine che il legislatore ha assegnato per l’esercizio del diritto: compressione del tutto estranea, fra l’altro, alla sfera di attività e di responsabilità del soggetto agente e in sostanza determinata da fattori dal medesimo non controllabili, quali il carico di lavoro dell’ufficio giudiziario adito e la sollecitudine nel completamento della sequenza procedimentale attraverso l’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza.

Su tale premessa s’impone una lettura costituzionalmente orientata che, allineandosi alle ragioni della sentenza n. 129/1986, stabilisca che, anche nel caso di proposizione di azione di annullamento del licenziamento, costituisce atto idoneo ad interrompere il corso della prescrizione (nella specie, quinquennale) il solo deposito del ricorso introduttivo della causa nella cancelleria del giudice adito.

D’altra parte, convergono a sostenere tale conclusione anche le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 9 dicembre 2015 n. 24822, la quale, in fattispecie di introduzione del giudizio nelle forme della citazione, ha precisato che “la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali e non a quelli sostanziali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicchè, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l’atto perviene all’indirizzo del destinatario”.

In particolare, anche nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, come in quella oggetto di vaglio da parte delle Sez. U., si riproduce un’esigenza di bilanciamento tra l’interesse di colui che agisce per il soddisfacimento del proprio diritto, e che deve poter contare sulla possibilità di un integrale utilizzo del tempo che a tal fine gli viene assegnato dall’ordinamento, e l’interesse, anch’esso peraltro legittimo e riconosciuto, di colui che si pone nell’attesa di vedere consolidate, in un senso o nell’altro, situazioni pendenti di potenziale conflitto.

Tuttavia, se il conflitto è reale e non apparente, la soluzione, che ad esso deve darsi, appare necessitata dalla diversa “pesatura” dei contrapposti interessi, posto che il primo trova il proprio punto di riferimento, ed un sostegno di indiscutibile preminenza giuridica e valoriale, nel diritto di agire in giudizio per la tutela del proprio diritto (art. 24 Cost.), mentre il secondo, che è espressione del principio di certezza dei rapporti giuridici, ammette, senza detrimento, che la presa d’atto di un approdo conflittuale del rapporto pendente possa intervenire anche con un qualche ritardo peraltro sempre e necessariamente contenuto in relazione ai tempi della sequenza procedimentale stabilita dall’art. 415 c.p.c. – rispetto al venire a formale scadenza del tempo della legge.

La sentenza impugnata ha invece ritenuto non condivisibile l’assunto della idoneità del solo deposito del ricorso della domanda giudiziale, anzichè della sua notificazione, ad interrompere il corso della prescrizione, sul rilievo della (erroneamente) opinata impossibilità di assimilare situazioni diverse come quella del lavoratore infortunato o del lavoratore affetto da malattia professionale, che agisca nei confronti dell’ente assicurativo, e quella del lavoratore che agisca nei confronti del proprio datore di lavoro contestando la legittimità dell’intervenuto licenziamento.

La sentenza deve, pertanto, essere cassata e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, la quale, nel procedere a nuovo esame della fattispecie, si uniformerà al seguente principio di diritto: “In caso di proposizione di azione giudiziale di annullamento del licenziamento il termine di prescrizione, di cui all’art. 1442 c.c., è validamente interrotto dal solo deposito del ricorso introduttivo del giudizio nella cancelleria del giudice adito, senza che, a tali fini, sia necessaria anche la notificazione dell’atto al datore di lavoro”.

PQM

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2017

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