Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10012 del 27/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2010, (ud. 25/01/2010, dep. 27/04/2010), n.10012

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – rel. Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

V.D., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato BOTTIGLIONE PASQUALE, giusta mandato in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 208/2005 della SEZ. DIST. CORTE D’APPELLO di

TARANTO, depositata il 28/11/2005 r.g.n. 83/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/01/2010 dal Consigliere Dott. MAURA LA TERZA;

udito l’Avvocato GIOVANNI GENTILE per delega ROBERTO PESSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza in epigrafe indicata del 28 novembre 2005 la Corte d’Appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, confermava la statuizione di primo grado con cui era stata rigettata la domanda proposta da V.D. di illegittimità del licenziamento che gli era stato intimato dalla spa Poste Italiane. La Corte adita, in relazione al primo motivo d’appello, affermava che il giudice civile, quando deve pronunciarsi sugli stessi fatti emersi nel giudizio penale conclusosi con sentenza di patteggiamento, non può prescindere nè dalle risultanze probatorie acquisite in quella sede, nè dal fatto che l’imputato, con la scelta del patteggiamento, finisce con l’attribuire alle accuse un qualche fondamento. Peraltro, nel ricorso introduttivo, la difesa era basata sulla ininfluenza della sentenza di patteggiamento e non già sulla contestazione dei fatti materiali posti a base del procedimento penale. Inoltre l’art. 54 del CCNL prevede che il licenziamento possa essere intimato senza preavviso in caso di condanna passata in giudicato, quando i fatti costituenti reato assumano rilievo per la lesione del rapporto fiduciario, e la espressione “condanna passata in giudicato” induce a ritenere che vi siano comprese quelle di patteggiamento, siccome comportanti anch’esse l’irrogazione di una pena.

Quanto alla lesione del vincolo fiduciario ai fini della proporzionalità della sanzione, la Corte rilevava che il ricorrente svolgeva mansioni di porta lettere e che gli era stato contestato il reato di truffa aggravata a danno di un ente pubblico, per avere apposto le firme apocrife di alcuni dipendenti nello statuto dell’associazione “Uniti per la terza età” di cui era presidente, sì da far risultare diciotto di loro come soci, per sottrarsi agli obblighi contributivi a danno dell’Inps; era stato altresì imputato per abusiva gestione di casa di riposo in assenza della prescritta autorizzazione e senza la previa iscrizione nell’apposito albo.

Affermavano i Giudici di merito che detto comportamento era idoneo a ledere il rapporto fiduciario, essendo l’attività di porta lettere contrassegnata da alto grado di affidabilità; inoltre, il fatto che le condotte fossero state poste in esser al di fuori del contesto lavorativo non poteva ridurne la gravità, desumendosi che il lavoratore, per il perseguimento dei suoi obiettivi, non disdegnava il ricorso a sistemi fraudolenti, inducendo il sospetto della loro reiterazione nello svolgimento delle funzioni, che venivano peraltro effettuate in piena autonomia e senza alcun controllo.

Avverso detta sentenza il soccombente ricorre con tre motivi.

Resiste la spa Poste Italiane con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via preliminare si solleva questione di illegittimità costituzionale dell’art. 445 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui equipara la sentenza di patteggiamento a sentenza di condanna, in conflitto peraltro con il primo comma del medesimo articolo, ove si stabilisce che il patteggiamento non è efficace nei giudizi civili e amministrativi.

Con il primo motivo si censura la sentenza per violazione dell’art. 2119 cod. civ., perchè esso ricorrente avrebbe protestato la sua innocenza nel processo penale, e per il fatto che i Giudici non si sarebbero accorti che la falsità delle firme non era stata accertata e che egli era solo una testa di paglia del vero amministratore.

Con il secondo mezzo si lamenta difetto di motivazione sulla circostanza che egli era stato condannato alla pena lieve di otto mesi di reclusione con attenuanti generiche prevalenti.

Con il terzo mezzo si denunzia la violazione degli artt. 2106 e 2119 cod. civ., per non avere valutato il fatto che la pena era stata sospesa.

Si critica altresì la sentenza per non avere annesso sufficiente rilievo al fatto che la condotta veniva posta in essere al di fuori del contesto lavorativo, dopo ben venticinque anni di lavoro.

I tre motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.

In primo luogo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 445 cod. proc. pen. è manifestamente inammissibile per irrilevanza.

La sentenza impugnata, infatti, non ha attribuito alla sentenza penale di patteggiamento efficacia di giudicato nel processo civile, ma ne ha liberamente valutato il contenuto in conformità all’art. 445 c.p.p., comma 1 bis. I Giudici di merito si sono così attenuti alla giurisprudenza di questa Corte, con cui si è affermato (Cass. n. 7866 del 26/03/2008) che “Benchè la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. “di patteggiamento” ex art. 444 cod. proc. pen., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena.” Si è ritenuto altresì (Cass. n. 23906 del 19/11/2007) che ” La sentenza penale di applicazione della pena “ex” art. 444 cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento) – pur non contenendo un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile – contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare.” La sentenza impugnata ha tenuto poi conto anche del fatto che, nel giudizio civile concernente il licenziamento, il ricorrente non aveva mai negato la sua responsabilità, ma aveva solo contestato la rilevanza della sentenza di patteggiamento.

Inoltre, i Giudici di merito hanno ben valutato che gli addebiti contestati si riferivano a comportamenti extra lavorativi, ritenendo però che il lavoratore, per il perseguimento dei suoi obiettivi, non disdegnava il ricorso a sistemi fraudolenti, inducendo il sospetto della loro reiterazione nello svolgimento delle funzioni di porta lettere, che venivano peraltro effettuate in piena autonomia e senza alcun controllo.

Per il resto non si ascrive alla sentenza la mancata considerazione di alcuna circostanza decisiva, atta, se valutata, a condurre ad un diverso esito del giudizio, e non si ascrivono neppure incongruenze logiche o giuridiche, ma si sollecita, nella sostanza, un diverso apprezzamento dei fatti e cioè che questi non giustificavano il recesso.

Il ricorso va quindi rigettato.

Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 34,00, oltre duemilacinquecento Euro per onorari.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2010

 

 

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