Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10006 del 15/05/2015


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 10006 Anno 2015
Presidente: BURSESE GAETANO ANTONIO
Relatore: FALASCHI MILENA

usucapione
SENTENZA

•••

‘à

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 19107/09) proposto da:
PEZZOTTI CELESTE, rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso,
dall’Avv.to Gustavo Orlando Zon del foro di Brescia e dall’Avv.to Ornella Manfredini del foro di
Roma ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultima in Roma, via G. Avezzana n. 1;
– ricorrente –

contro
LA PERGOLA MONIGA s.r.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e
difesa dall’Avv.to Francesco Masperi del foro di Brescia e dall’Avv.to Prof. Roberto Carleo del foro
di Roma, in virtù di procura speciale apposta a margine del controricorso, ed elettivamente
domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Luigi Luciani n. 1;
– controricorrente –

44 1m

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Data pubblicazione: 15/05/2015

avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 359 depositata il 23 marzo 2009.
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 21 gennaio 2014 dal

Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

resistente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sergio Del

Core, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 9 ottobre 2000 Celeste PEZZOTTI evocava, dinanzi al Tribunale
di Brescia — Sezione distaccata di Salò, La Pergola Moniga s.r.l. esponendo di avere usucapito un
fabbricato ad uso abitativo, con accessori ed accessioni, con adiacente fondo ad uso orto e
pollaio, poiché lo stesso era stato originariamente concesso dalla proprietaria, Cotonificio
Bresciano Ottolini s.p.a., al padre dell’attrice, Pietro Pezzotti, dipendente della società, possesso
che alla morte di costui, awenuta nel 1965, era stato da lei continuato; precisava, altresì, che
detti immobili erano stati venduti nel 1998 dalla originaria proprietaria alla società convenuta;
pertanto chiedeva accertarsi l’intervenuto acquisto per usucapione in suo favore dei beni de
quibus.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della convenuta, la quale asseriva che l’attrice con il
marito occupavano l’immobile in forza di un contratto di locazione, di cui avevano corrisposto il
relativo canone fino al 1992, spiegata domanda riconvenzionale per ottenere la condanna
dell’attrice al rilascio dei beni per scadenza del contratto alla data del 1.1.2003, oltre al
pagamento dei canoni arretrati, il giudice adito, istruita la causa, separata quella relativa alla
domanda riconvenzionale, rigettava la domanda attorea.

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udito l’Aw.to Daniele Manca Bitti (con delega dell’Avv.to Roberto Carleo), per parte

In virtù di rituale appello interposto dalla PEZZOTTI, la Corte di appello di Brescia, nella
resistenza della società appellata, ha rigettato il gravame.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava il principio che, diversamente

iniziale atto o fatto del proprietario, non essendo stata svolta contro la volontà dello stesso,
andava qualificata come detenzione semplice o precaria anche l’attività di colui che continuava a
disporre della cosa dopo il venire meno del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità,
occorrendo per la trasformazione della detenzione in possesso un mutamento del titolo. Nella
specie il permanere nella detenzione dell’immobile da parte dell’appellante, appreso
originariamente attraverso il padre e continuato anche dopo la cessazione dell’attività lavorativa
alle dipendenze del CBO, e poi da parte della figlia, trovava la sua ragione di essere nella
originaria volontà della società proprietaria di assegnazione dell’immobile al proprio dipendente,
rispetto al quale le successive vicende relative al mutamento del detentore si ponevano in
relazione di continuità, senza che potesse rawisarsi alcun atto di interversione della detenzione in
possesso utile ai fini dell’usucapione, provata, peraltro, attraverso dichiarazioni testimoniali, la
corresponsione da parte dell’attrice del canone di locazione.
Relativamente alla dedotta usucapione dei fondi adibiti ad orto, pollaio, autorimessa e lavatoio,
premesso che la cessione di dette aree da parte del Brioni non era indicata specificamente
nell’atto di citazione, ma solo come capitolo di prova, cui la convenuta aveva opposto un capitolo

da quanto asserito dall’appellante, essendo la relazione con il bene avvenuta sulla base di un

di prova contraria, per cui non sussisteva ipotesi di mancata contestazione da parte della
proprietaria, anche per detti beni si poneva un problema di interversione della detenzione in
possesso per essere anche il Brioni dipendente CB0 ed inquilino di uno degli appartamenti della
società, la quale aveva anche la consuetudine di concedere in uso propri appezzamenti da
utilizzare come orti o simili.

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NkP-

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Brescia ha proposto ricorso per cassazione
la PEZZOTTI, sulla base di cinque motivi, cui ha resistito la società LA PERGOLA MONIGA s.r.l.
con controricorso, la quale ha curato anche il deposito di nota spese in prossimità della pubblica

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1146 c.c. per
avere omesso la corte di merito di analizzare a fondo l’esatta natura del rapporto avente ad
oggetto i beni de quibus da parte del genitore, che essendo gratuito era da ricondurre nell’ambito
del comodato e come tale doveva ritenersi venuto a cessare con la morte del comodatario.
Conseguentemente non spettava all’originaria attrice, nel pieno possesso del bene, l’onere di
dimostrare l’interversione del possesso, bensì unicamente quello di provare l’avvenuta
usucapione ai sensi dell’art. 1158 c.c., non trovando ingresso nella specie il precetto di cui all’art.
1141, comma 2, c.c.. Per tale ragione la ricorrente aveva articolato sul punto un capitolo di prova,
non ammesso. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “La norma
di cui all’art. 1146 c.c., che prevede la successione dell’erede nel possesso del de cuius, deve
trovare applicazione anche alla detenzione, ed in specie nel caso in cui l’erede del comodatario di
un bene immobile (ovvero del titolare di un diritto di natura personale non sorto da un contratto di
locazione) si sia immesso nel possesso del bene medesimo già concesso a tempo indeterminato
al de cuius?”.

Con il secondo motivo la ricorrente – nel denunciare la violazione e falsa applicazione
dell’art. 1141 c.c. — deduce in via subordinata che ove non qualificato come comodato il rapporto
instaurato fra la proprietaria dei beni ed il padre, sarebbe di difficile previsione l’esito del rapporto
alla cessazione del rapporto di lavoro, per cui alla data del 30.9.1961 dovrebbe considerarsi che
lo stesso abbia iniziato a possedere nomine proprio. A corollario del mezzo è articolato il

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udienza.

seguente quesito di diritto: “Qualora il godimento di un immobile ad uso di abitazione, sia stato
dato dal datore di lavoro in corrispettivo parziale delle prestazioni rese dal lavoratore, la
cessazione di qualsiasi causa del rapporto di lavoro determina ex se. In difetto di espressa
previsione negoziale, la cessazione anche della concessione dell’immobile, talchè la mancata

mutamento della detenzione in possesso ai sensi e per gli effetti dell’art. 1141, comma 2, c.c.?”.

I due motivi — da trattare congiuntamente per la evidente connessione logica ed argomentativa —
non possono trovare ingresso.
Occorre premettere che non ha formato oggetto di impugnazione, così che sul punto è
intervenuto il giudicato, la qualificazione data dai giudici di merito al rapporto di Pietro Pezzotti,
dante causa della ricorrente, con la cosa come detenzione nascente dalla messa a disposizione
del bene come abitazione di servizio, divenuta non qualificata con le dimissioni del dipendente.
Ed, invero, la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto su una cosa non
opera, a norma dell’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene non consegua ad un atto
volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario – possessore, e,
non essendo svolta contro la volontà del proprietario, è qualificabile come detenzione semplice (o
precaria) anche l’attività di colui che continua a disporre della cosa dopo il venire meno del
rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità (cfr. Cass. 18 dicembre 1993 n. 12569; Cass. 22
gennaio 1994 n. 622).
Ne deriva che per la trasformazione della detenzione in possesso è necessario un mutamento
del titolo, che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare, ai
sensi dell’art. 1141 c.c., o da una causa proveniente da un terzo oppure dal compimento di
idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario – possessore (cfr. Cass. 4
dicembre 1995 n. 12493), quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto alla restituzione del bene (cfr.
Cass. 19 maggio 1982 n. 3086), e non soltanto da atti corrispondenti all’esercizio del possesso,

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restituzione del bana da parte dell’ex dipendente concreta, con riguardo all’immobile stesso, il

come la mera mancata restituzione del bene, di per sè denuncianti unicamente un abuso della
situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (Cass. 20 maggio 2002
n. 7337).

corretta premessa, nonché di quella ulteriore che il padre della Pezzotti, dipendente della società
Cotonificio Bresciano Ottolini, ex proprietaria dei beni de quibus, aveva continuato ad occupare
gli immobili oggetto della controversia, dopo le dimissioni dello stesso nel 1959 e sino alla sua
morte avvenuta nel 1965, per mera tolleranza della società proprietaria, ha ritenuto correttamente
non ravvisabile, nelle specie, il mutamento del titolo di detenzione in possesso per causa
proveniente dall’erede del mero detentore, che alla morte del padre ha continuato ad esercitare
sui beni il potere di fatto, nella stessa condotta del dante causa, lasciato questi, dopo aver
dismesso il Cotonificio, nella completa ed indisturbata disponibilità dell’immobile,
disinteressandosi completamente ad essi, pur non ignorando i dirigenti della società la situazione
di fatto e, con ciò, determinando un mutamento non solo soggettivo ma anche oggettivo del
rapporto tra le persone e la cosa.
Ed, invero, il Collegio osserva che non può costituire titolo idoneo a mutare la detenzione in
possesso, e pertanto non può configurare la “causa proveniente dal terzo”, contemplata dall’art.
1141 c.c., il mero comportamento materiale del terzo medesimo (nella specie: l’omesso recupero
della disponibilità del bene detenuto a titolo precario, per ragioni di servizio, dal dante causa della
Pezzotti ed il proseguimento di detto rapporto con i beni da parte dell’erede dell’ex dipendente).
La causa proveniente da un terzo, può, nella ipotesi considerata, consistere in un (qualsiasi) atto
di trasferimento del diritto, compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente,
idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità ed efficacia dell’atto
medesimo. Il mutamento della detenzione in possesso può derivare da un negozio posto in
essere dal detentore, sia con un terzo sia con lo stesso possessore mediato, purché dall’atto

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Orbene la Corte territoriale, sottolineado la necessità della interversione e, sulla base di tale

posto in essere con costui derivi il trasferimento del diritto corrispondente ovvero la investitura da
parte dello stesso possessore mediato a mezzo della c.d. traditio brevi manu, che si ha quando il
bene, già nella disponibilità di un soggetto a titolo di detenzione, venga lasciato allo stesso a

trova già presso l’acquirente, il possesso precario si tramuta in possesso uti dominus.
Deve, dunque, essere sempre individuata una causa traditionis – vera e reale e non simulata – sia
pure riconducibile ad un rapporto tra il detentore non qualificato ed il possessore per conto del
quale egli detiene e pur non essendo necessaria la buona fede dell’acquirente circa l’esistenza
del diritto del tradens (Cass. 5 dicembre 1990 n. 11691).
Nel caso di specie, il comportamento materiale (omissivo, di mancato recupero) dell’avente diritto
non poteva, ovviamente, considerarsi idoneo, neppure astrattamente, a trasferire un diritto sul
bene, tale da legittimare l’interversio possessionis (Cass. 3 ottobre 2000 n. 13104) e l’onere
della prova relativa incombe — diversamente da quanto asserito dalla ricorrente – su colui che
invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass. 18 febbraio 1999 n. 1367). Nella specie, peraltro,
la corte distrettuale ha accertato che la relazione con i beni era conseguenza di un contratto di
locazione, riconosciuto dalla stessa ricorrente con il pagamento del canone sino al 1992.
Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2721,
2723 e 2726 c.c. per avere la corte di merito ritenuto l’ammissibilità dei capitoli di prova
testimoniale articolati dalla controparte e tendenti a dimostrare la esistenza di un contratto di

titolo di possesso (Cass. n. 2224 del 1978) di modo che, per effetto dell’acquisto del bene, che si

locazione con lei concluso, mentre trattandosi di una società di capitali avrebbe dovuto
dimostrarne l’esistenza con l’esibizione dei contratti. A corollario del mezzo è formulato il
seguente quesito di diritto: “I divieti di ricorrere alla prova testimoniale, sanciti dagli artt. 2721,
2723 e 2726 c.c., possono essere superati da un’ordinanza affatto priva di motivazione, tale da
non consentire l’accertamento della adeguatezza e della congruità della valutazione discrezionale
al riguardo compiuta dal giudice di merito?”.

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(1/

Parimenti infondato è il terzo motivo.
Al contratto di locazione di immobili urbani adibiti sia ad uso abitativo sia ad uso diverso
dall’abitazione aventi durata di sei o nove anni non è applicabile l’art. 1350 n. 8) c.c., secondo il

essere fatti per iscritto a pena di nullità.
Il contratto può bensì rinnovarsi per un altro periodo di identica durata, come previsto dall’art. 29
legge n. 392 del 1978 owero per volontà delle parti, ma ciò costituisce un effetto solo eventuale,
dipendente dalla circostanza che, alla data della prima scadenza del contratto, il conduttore
intenda fruire di tale facoltà ed il locatore non si awalga del potere di escluderla o non versi nelle
condizioni di poterlo esercitare. La giurisprudenza della Corte ha conseguentemente escluso che
si sia in presenza di un contratto di durata ultranovennale.
Dunque, la corte d’appello non ha violato le norme richiamate nel terzo motivo, quando ha
ravvisato l’esistenza di un valido contratto di locazione concluso dall’attrice e dalla convenuta non
in forma scritta (Cass. 16 febbraio 1998 n. 1633), per cui correttamente ha ritenuto l’ammissibilità
della prova testimoniale articolata dalla convenuta volta a dimostrare l’esistenza del contratto in
discussione.
Il quarto motivo — con il quale la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione
dell’art. 116 c.p.c. per avere la corte di merito sbrigativamente ritenuto l’esistenza di un contratto
di locazione — pone il seguente quesito di diritto: “La norma di cui all’art. 116 c.p.c., che afferma il

quale i contratti di locazione di beni immobili per una durata superiore ai nove anni debbono

principio della libera valutazione delle prove, consente al giudice, quando siano stati acquisiti al
giudizio più mezzi di prova, di porre alla base della decisione soltanto alcune di esse,
prescindendo dalla valutazione congrua ed organica delle medesime, e senza motivare
adeguatamente questa scelta?”.

La doglianza è inammissibile per genericità. Invero, essa non chiarisce in qual modo la
circostanza, riferita nella sentenza impugnata, della ritenuta esistenza del contratto di locazione,

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possa costituire una motivazione erronea, non avendo parte ricorrente neanche dedotto come
una diversa interpretazione delle prove avrebbe potuto incidere su una decisione, di segno
diverso da quella impugnata, dal momento che è stata ritenuta decisiva la mancanza
dell’elemento dell’interversione del possesso.

dell’art. 2729 c.c. relativamente al mancato accoglimento della domanda di usucapione dei fondi
adibiti ad orto e pollaio — pone il seguente quesito: “La norma dell’art. 2729 c.c. consente al
giudice, procedendo non da un fatto noto, ma da un fatto ignoto ritenuto provato mediante
presunzione semplice, di ritenere altresì dimostrato, sempre mediante l’istituto della presunzione
semplice, un secondo e diverso fatto ignoto?”.

Anche quest’ultima doglianza non ha pregio.
Intanto essa parte da un presupposto tutt’altro che pacifico, che cioè vi sia stata l’interversione del
possesso rispetto ai fondi adibiti ad orto e pollaio, circostanza questa che la corte territoriale ha
ritenuto di escludere, optando invece per la esistenza di un “comodato precario” in favore di
Amedeo Brioni (anche egli dipendente del Cotonificio), caratterizzato dalla prowisorietà del
godimento del terreno da parte dei comodatari, uso che poi aveva ceduto alla Pezzotti.
Circostanza quest’ultima riferita dai testi tutti (Tedoldi e Vidali) e che ben giustifica la concessione
gratuita del godimento del fondo a tempo determinato. Si tratta dunque di un apprezzamento di
fatto della corte, non denunciabile in sede di legittimità attesa la congrua e logica motivazione che

Il quinto motivo — con il quale la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione

sorregge tale scelta interpretativa del giudice.
Se si parte da tale premessa è evidente che non può operare nella fattispecie l’invocata
presunzione di possesso espressa dall’art. 1141 c.c., comma 1 in quanto la detenzione dei fondo
è pur sempre connessa ad un originario rapporto obbligatorio, quale il contratto di comodato in
forza del quale la Pezzotti deteneva il fondo.

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A’

Conclusivamente il ricorso va rigettato e con liquidazione delle spese del presente giudizio
secondo il principio di soccombenza.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di
Cassazione, che liquida in complessivi €. 3.800,00, di cui €. 200,00 per esborsi, oltre al rimborso
delle spese forfettarie e agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, il 21 gennaio 2015.

P.Q.M.

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