Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33181 del 13/03/2014

Penale Sent. Sez. 5 Num. 33181 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
A.A.

avverso la sentenza emessa il 12/02/2013 dalla Corte di appello di Bologna,
nonché avverso l’ordinanza di rigetto di una istanza di produzione documentale
avanzata dalla difesa in pari data

visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Giuseppe Volpe, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Massimo Manca, il quale ha concluso per
l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 13/03/2014

I

Il difensore di A.A. ricorre avverso i provvedimenti indicati in
epigrafe, emessi dalla Corte di appello di Bologna nell’ambito del giudizio
celebrato a carico del suddetto A.A., condannato in primo grado dal
Tribunale di Ferrara alla pena di anni 7 di reclusione (oltre a pene accessorie di
legge, ed al pagamento delle spese processuali) per addebiti di cui agli artt. 223,
comma secondo, n. 2, 216 e 223, 217 e 224 legge fall., relativi alla gestione
della società “XX” s.r.I., dichiarata fallita il 13/09/2001.
I fatti si riferiscono a condotte che l’imputato avrebbe posto in essere nella

– cagionato per effetto di operazioni dolose il dissesto della società fallita,
segnatamente non compensando un credito vantato nei confronti della FPM s.r.l.
per accolto dei debiti aziendali con i debiti assunti verso la stessa FPM in ordine
al pagamento di canoni di locazione (per una somma complessiva praticamente
sovrapponibile, pari a poco meno di due miliardi di lire) [capo A)];
– distratto la somma di circa 1.500.000.000 di lire mediante prelievi di denaro
operati sui conti correnti bancari e sulle disponibilità di cassa della “XX” s.r.l. [capo B)];
– distratto poco più di 368 milioni di lire nella forma di compensi percepiti per il
mandato amministrativo, da ritenere sproporzionati rispetto alle dimensioni, alla
gestione ed alle perdite di esercizio della fallita [capo C)];
– aggravato il dissesto astenendosi dal richiedere il fallimento, esponendo
falsamente nei bilanci l’intervenuto finanziamento da parte dei soci [capo D)];
– tenuto irregolarmente le scritture contabili nei tre anni antecedenti la
dichiarazione di fallimento [capo E)].
All’esito del giudizio di secondo grado, gli addebiti sub D) ed E), contestati
quali ipotesi di bancarotta semplice, risultano essere stati dichiarati prescritti,
con conseguente rideterminazione della pena complessiva inflitta in anni 6 di
reclusione.
Con l’odierno ricorso si lamenta:
1. mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, nonché
violazione di legge processuale, quanto all’ordinanza del 12/02/2013
La Corte territoriale risulta avere rigettato una istanza della difesa del
ricorrente, volta alla produzione di un certificato di iscrizione dell’imputato
all’AIRE, in qualità di persona residente all’estero: secondo i giudici di
appello, si sarebbe trattato di documento non necessario né rilevante,
quando invece la circostanza ivi rappresentata (vale a dire il fatto che il
A.A. risiedeva fuori dall’Italia dal novembre 1999 al febbraio 2008)
appariva fondamentale per smentire l’assunto accusatorio relativo alla

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amministrazione della società medesima; egli, in particolare, avrebbe:

sua presunta qualità di amministratore di fatto successivamente al
05/10/1999, affermata dal Tribunale di Ferrara.
Inoltre, la Corte avrebbe errato nell’invocare la previsione di cui all’art.
603 del codice di rito, istituto che la giurisprudenza di legittimità non
considera applicabile alle ipotesi di semplice offerta di produzioni
documentali in appello
2. mancanza, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, nonché
violazione del principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto

La difesa rinnova una eccezione di nullità della pronuncia di primo grado
ai sensi dell’art. 522 (in relazione all’art. 521, comma 2) cod. proc. pen.,
rilevando che il capo d’imputazione si limita a prendere in considerazione
la specifica condotta di non avere la società fallita operato la
compensazione di un pregresso e rilevante credito vantato verso la FPM
s.r.l. con i debiti che la “XX” s.r.l. aveva assunto nei confronti
della stessa FPM per canoni di locazione (invece effettivamente
corrisposti); nella sentenza di condanna, invece, il Tribunale di Ferrara
avrebbe fatto «esclusivo riferimento al momento genetico del rapporto
obbligatorio, con una valutazione in termini di antieconomicità
dell’operazione contrattuale in sé e per sé considerata e non con
riferimento alla mancata compensazione dei debiti locatizi».
Inoltre, anche sul piano della situazione personale dell’imputato, l’accusa
formulata in rubrica riguarda una condotta tenuta quale presidente del
consiglio di amministrazione, mentre la sentenza di primo grado
(confermata in appello) prende in esame un presunto ruolo di
amministratore di fatto che il A.A. avrebbe rivestito all’epoca della
stipula del contratto: ruolo in ordine al quale l’imputato non sarebbe stato
posto in condizione di difendersi, così come non aveva avuto modo di
spiegare le proprie difese sulle ragioni della conclusione di quel contratto
e sul contenuto di alcune delle relative clausole
3. erronea applicazione dell’art. 216, comma primo, legge fa/I., nonché
carenza e contraddittorietà della motivazione, in ordine alla sussistenza
dell’elemento soggettivo richiesto ai fini del delitto di bancarotta
fraudolenta per distrazione
La difesa contesta la ricostruzione operata nella sentenza impugnata,
secondo cui il A.A. avrebbe perseguito l’intento di mettere al riparo
il patrimonio immobiliare della FPM, comunque a lui riconducibile,
concludendo il contratto di affitto sopra ricordato ed al contempo facendo
accollare alla fallita i debiti della stessa FPM: tale disegno, da leggere alla

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in sentenza

luce di una contestuale volontà di depauperamento della società “XX”, richiede tuttavia la prova che il presupposto del fallimento, vale a
dire lo stato di insolvenza, sia stato «voluto e preveduto dall’agente
quanto meno a titolo di dolo eventuale». Richiamando la sentenza di
questa Sezione, n. 2147 del 24/09/2012, ric. Corvetta, il ricorrente
osserva che «la recente impostazione affermata dal supremo collegio,
partendo dalla definizione della sentenza dichiarativa del fallimento quale
elemento costitutivo del reato, e non invece quale condizione obiettiva di

generale applicata a tutti gli elementi che costituiscono la fattispecie
criminosa. Con l’ovvia conseguenza per cui il soggetto agente deve
prefigurarsi che il depauperamento da lui arrecato all’impresa porterà
verosimilmente la stessa al dissesto, ed accettare tale rischio».

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 In ordine alla questione in rito proposta dalla difesa con il primo motivo
di doglianza, si rileva che l’ordinanza emessa dalla Corte territoriale, oggetto di
specifica impugnazione, recita: «sull’istanza di acquisizione del documento del
Comune di Incisa, visto l’art. 603 cod. proc. pen., rilevato quanto alla prima
attestazione che la dedotta prova è anteriore alla sentenza e che l’acquisizione
non è necessaria ai fini del decidere; rilevato quanto alla seconda attestazione
(irrep. al 22/02/2008) che detta acquisizione appare del tutto irrilevante ai fini
del decidere, respinge la istanza di rinnovazione parziale del dibattimento».
Ora, vero è che in relazione ad una mera istanza di produzione documentale
non vi sarebbe stata la necessità di veicolare le possibilità di acquisizione
attraverso i canoni formali imposti dall’art. 603 del codice di rito, come
correttamente obietta la difesa, tuttavia rimane pur sempre previsto – per il
giudice di appello cui si offra in produzione un documento – il potere/dovere di
valutarne la rilevanza: valutazione che nel caso di specie risulta comunque
compiuta, per quanto sinteticamente. Da un lato, la Corte territoriale
rappresenta che l’attestazione della reperibilità o meno del A.A. nel
febbraio 2008 non poteva provare alcunché, dinanzi a condotte indicate in
rubrica come commesse fino alla dichiarazione di fallimento (del 2001, come
ricordato); dall’altro, si evidenzia che l’essere stato l’imputato residente all’estero
a partire dal novembre 1999 non aveva alcuna valenza dirimente, anche a
prescindere dalla circostanza che l’atto recasse una data anteriore rispetto alla

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punibilità, sottopone la stessa declaratoria di fallimento alla disciplina

pronuncia di primo grado, e che pertanto avrebbe potuto essere esibito o
prodotto anche in precedenza.
In vero, deve considerarsi che buona parte dei comportamenti assunti come
causalmente rilevanti sul verificarsi del fallimento (anche se la rubrica parla
impropriamente del solo “dissesto”) ex art. 223, comma secondo, n. 2, risalgono
a data anteriore all’ottobre 1999, ed analogamente è a dirsi per le condotte
distrattive: i fatti sub B) sono espressamente collocati tra il 30/05/1997 e il
05/10/1999, mentre è del 1998 l’apposizione in bilancio di due false poste

parte dei soci” (v. pag. 27 della sentenza di primo grado) per occultare l’entità
del passivo e rendere ancora giustificabili i lauti compensi previsti per gli
amministratori. Peraltro, ed a fortiori, nulla vieta a chi risulti formalmente od
anche più o meno stabilmente risiedere di fatto all’estero di continuare ad
occuparsi dell’amministrazione di un’azienda cui sia interessato in Italia: e le
numerose testimonianze assunte a riguardo – v. le deposizioni F.F. e
R.R., riportate nella sentenza di primo grado alle pagg. 2 e 3 – confermano
all’evidenza l’assunto accusatorio, superando in radice la potenzialità
dimostrativa dei documenti de quibus.
1.2 Con riguardo alle censure mosse con il secondo motivo di ricorso, non
può registrarsi alcuna effettiva immutazione del reato contestato nell’avere la
sentenza di primo grado, dinanzi all’addebito secondo cui il A.A. avrebbe
cagionato il dissesto (rectius, si ribadisce, il fallimento) di “XX” s.r.l.
non operando la compensazione fra debiti e crediti verso la FPM s.r.l., ritenuto
piuttosto che l’illiceità penale dell’operazione consistesse nell’avere – già a
monte

stipulato il contratto di locazione, inteso come operazione

antieconomica ex se.

Si tratta, con palese evidenza, di due aspetti in intima

connessione logica: come ineccepibilmente segnalato nella ricordata sentenza di
primo grado, «l’imputato, con il contratto d’affitto d’azienda del giugno 1997, da
lui concluso con se stesso nella veste di amministratore di fatto di XX
e di amministratore di diritto di FPM, voleva separare formalmente la proprietà
delle aziende dalla loro gestione, per limitare il rischio d’impresa alla sola società
gestionale, XX s.r.I., evitando che i rischi d’insolvenza, altamente
prevedibili per […] il forte indebitamento e lo scarso avviamento, potessero
intaccare il patrimonio immobiliare della società proprietaria, FPM s.r.I.» (pag.
24).
Ergo, concludere il contratto, con contestuale accollo generalizzato dei debiti
di FPM, e pianificare di pagare i canoni di locazione senza affatto pretendere
forme di compensazione, fu giocoforza un tutt’uno; e su quell’operazione, così
come descritta nel capo d’imputazione e diffusamente illustrata nelle evidenze

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recanti “finanziamento soci” o “sopravvenienza attiva per rinuncia al credito da

processuali oggetto del contraddittorio, l’imputato risulta essere stato
pacificamente posto in condizione di difendersi.
Circa la veste di amministratore di fatto ritenuta in sentenza, piuttosto che di
quella di presidente del consiglio di amministrazione evidenziata in rubrica, non
vi è in concreto alcuna antinomia od eterogeneità: a ben guardare, già il capo A)
prende in esame il “periodo di gestione” da ascrivere a ciascuno degli originari
imputati, senza distinguere fra amministrazione di fatto o di diritto, mentre la
carica formale di presidente o amministratore viene segnalata soltanto per

1.3 E’ necessario invece un approfondimento sui temi esposti dalla difesa
con il terzo motivo di ricorso.
1.3.1 A riguardo, la giurisprudenza di questa Corte si è da tempo orientata
nell’affermare che nel reato di bancarotta fraudolenta «i fatti di distrazione, una
volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in
qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è
realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte
le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che
determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i
creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o
psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicché né la
previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto
dispositivo, né la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento
dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicità penale
della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria
l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della legge
fallimentare, all’art. 223, distinguendo le condotte previste dall’art. 216 (legge
fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto
economico della società (legge fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in
tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra
condotta ed evento» (Cass., Sez. V, n. 39546 del 15/07/2008, Bonaldo).
Ancor più analiticamente, gli stessi principi risultano ribaditi nel 2011,
quando si è rilevato che «il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è
reato di pericolo, ed è pertanto irrilevante che al momento della consumazione
l’agente non avesse consapevolezza dello stato d’insolvenza dell’impresa per non
essersi lo stesso ancora manifestato» (Cass., Sez. V, n. 44933 del 26/09/2011,
Pisani, Rv 251214). Nella motivazione di quest’ultima pronuncia, si è segnalato
che «il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede il dolo specifico,
ma si perfeziona con il dolo generico, ossia con la consapevolezza di dare al
patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle

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evidenziare il correlato abuso od infedeltà nell’esercizio della stessa.

obbligazioni contratte», precisandosi che non può intendersi rilevante la
circostanza che all’epoca della distrazione non si fosse ancora manifestato uno
stato d’insolvenza: «infatti, ad integrare il reato non è richiesta la conoscenza
dello stato d’insolvenza dell’impresa, in quanto ogni atto distrattivo viene ad
assumere rilevanza ai sensi della legge fall., art. 216, in caso di fallimento,
indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo. Qualora, poi, la
deduzione debba intendersi rapportata alla asserita insussistenza del dissesto
all’epoca dei fatti, così implicitamente evocandosi la teoria cd. della “zona di

configurazione del precetto, la protezione penale degli interessi creditori è
assicurata mediante la sua connotazione di reato di pericolo. L’offesa penalmente
rilevante è conseguente anche all’esposizione dell’interesse protetto alla
probabilità di lesione, onde la penale responsabilità sussiste non soltanto in
presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di messa in
pericolo dei loro interessi. Conseguentemente, il delitto di bancarotta non
impone contestualità tra l’azione antidoverosa ed il pregiudizio derivante dalla
stessa, ma ammette anche uno sfasamento temporale, se esso non elide il
portato dannoso dell’azione: sicché la tutela penale dispiega la sua efficacia
retroattivamente, risalendo a ritroso, a far data dalla dichiarazione di fallimento,
ricapitolando ogni passaggio della gestione dell’impresa fallita nel pregiudizio che
viene accertato al momento della dichiarazione di insolvenza con la verifica delle
passività gravanti sulla stessa».
1.3.2 L’orientamento ora illustrato risulta contraddetto da altra pronuncia di
questa stessa Sezione, richiamata nell’odierno ricorso, secondo cui «nel reato di
bancarotta fraudolenta per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al
fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello
stesso e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e
deve essere, altresì, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo» (Cass., Sez. V,
n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv 253493).
L’impianto motivazionale di quest’ultima sentenza muove dal presupposto
che «non può da un lato ritenersi che qualsiasi atto distrattivo sia di per sé
reato, dall’altro che la punibilità sia condizionata ad un evento» (la dichiarazione
di fallimento, di cui viene diffusamente discussa la natura all’interno della
struttura della fattispecie incriminatrice) «che può sfuggire totalmente al
controllo dell’agente, e dunque ritorcersi a suo danno senza una
compartecipazione di natura soggettiva e, ancor peggio, senza che sia necessaria
una qualche forma di collegamento eziologico tra la condotta e il verificarsi del
dissesto»; l’analisi viene peraltro parametrata sulle peculiarità del caso allora sub
judíce, dove – a differenza delle varie fattispecie concrete di cui alla precedente

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rischio penale” […], ugualmente deve essere disattesa in quanto, per la speciale

giurisprudenza, nelle quali «si trattava di episodi distrattivi compiuti nel periodo
immediatamente antecedente alla dichiarazione di fallimento, che avevano
impoverito l’impresa al punto da provocarne od aggravarne in modo irreversibile
la crisi» – a quegli imputati era riferibile una amministrazione «priva di
contiguità con il fallimento, essendo stata seguita da altre gestioni totalmente
estranee», con tanto di amministrazione giudiziale ex art. 2409 cod. civ. medio
tempore

conclusasi «senza alcun rilievo dell’amministratore su eventuali

situazioni di insolvenza ed addirittura con una vendita della società a terzi dietro

Nella sentenza Corvetta si evidenzia quindi che se il fallimento è «il risultato
di un’azione dell’imprenditore, da cui la legge (o, meglio, la giurisprudenza
conforme) fa dipendere l’esistenza stessa del delitto», lo stesso fallimento, «o
meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di insolvenza, deve essere
dall’agente preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. Il
soggetto, cioè, deve prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo
porterà verosimilmente al dissesto (il cui risvolto è la lesione del diritto di
credito, che costituisce l’interesse principale protetto dalla norma penale) ed
accettare tale rischio. Ogni diversa soluzione in punto dolo costituisce una
violazione dei principi generali di cui agli artt. 42 e 43 cod. pen., che
costituiscono l’ossatura della responsabilità penale personale del nostro
ordinamento». Ne deriverebbe l’opzione interpretativa secondo cui «la
bancarotta è un reato di evento e tale evento consiste nella insolvenza della
società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella
dichiarazione di fallimento. Questa è la unica ricostruzione strutturale del reato
coerente con le premesse; il fallimento è elemento costitutivo dell’illecito in
qualità di evento e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della
condotta distrattiva dell’imprenditore. L’interesse protetto dalla norma, dunque,
non è solo il potenziale pregiudizio del ceto creditorio, ma la lesione definitiva dei
diritti di credito che si determina con il fallimento; tanto è vero che, occorre

corrispettivo».

ribadirlo, per quanto siano consistenti e ripetuti gli atti di spoliazione del
patrimonio dell’impresa, l’imprenditore non è punito se non viene
successivamente dichiarato il fallimento».
Con la richiamata pronuncia si avverte peraltro che «la tesi “secca” della non
necessarietà del rapporto di causalità tra la condotta dell’imprenditore e il
fallimento (che si accompagna alla ritenuta non necessarietà del dolo a copertura
dell’insolvenza), porterebbe a conseguenze assurde; da un lato non sarebbe
punibile l’imprenditore che drena risorse enormi da una società dotata di un
patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento,
dall’altra sarebbe invece punito con la pesante sanzione di cui alla legge fall., art.

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i

216, un imprenditore o un amministratore della società che moltissimi anni
prima del fallimento abbia prelevato indebitamente una modestissima somma di
denaro (anche se l’impresa ha poi operato in attivo e pagato regolarmente i
propri creditori e sia poi caduta in dissesto esclusivamente per le condotte
spoliative di successivi amministratori) […]. Sarebbe esente da responsabilità
quell’imprenditore che, pur avendo causato il dissesto della sua impresa con
gravi atti di spoliazione, riuscisse ad ottenere il consenso dei creditori ad una
procedura di soluzione negoziale della crisi (salvo il concordato, per

che compie un atto di distrazione di modesta entità e molto risalente nel tempo,
se non incontra il favore dei creditori. E ciò anche se il dissesto dell’impresa
dipende esclusivamente da fattori esterni alla sua condotta, e cioè, per esempio,
da una congiuntura economica negativa o da circostanze comunque imprevedibili
o ancor più da condotte successive di altre persone».
1.3.3 Una pronuncia della Sezione Feriale di questa Corte (n. 41655 del
10/09/2013, ric. Gessi) sembra avere espresso principi in apparente, per quanto
non esplicitata, adesione all’indirizzo ora ricordato. Nella motivazione di
quest’ultima sentenza si legge che «i comportamenti posti in essere dal fallito
devono essere […] idonei a recare offesa agli interessi della massa dei creditori a
causa della perdita di ricchezza che gli stessi hanno determinato e della
mancanza di un riequilibrio economico medio tempore. L’elemento soggettivo del
delitto di bancarotta fraudolenta implica un’adeguata conoscenza della concreta
situazione aziendale e, in genere, patrimoniale, e la rappresentazione della
futura dichiarazione di fallimento, rappresentazione fondata sull’attualità del
dissesto con volontarietà dell’atto distrattivo; soltanto nella consapevole
prospettiva del dissesto finanziario gli episodi distrattivi assumono – anche sotto
il profilo psicologico – un potenziale offensivo. Il soggetto agente deve, quindi,
prefigurarsi che la sua condotta depauperativa cagionerà verosimilmente il
dissesto – cui si correla la lesione del diritto di credito costituente il principale
interesse protetto dalla norma incriminatrice – ed accettare questo rischio. Se la
situazione di dissesto che dà luogo al fallimento deve essere rappresentata e
voluta (o quanto meno accettata come rischio concreto della propria azione)
dall’imprenditore, non integra il dolo di bancarotta per distrazione la volontà di
porre in essere una condotta finalizzata ad estinguere posizioni debitorie della
società».
In tal modo, la sentenza Gessi giunge a ritenere di rilievo penale la condotta
di chi compì atti depauperativi «in un’epoca in cui era prevedibile il dissesto della
società», ipotizzando però il reato di bancarotta preferenziale, piuttosto che
quello di bancarotta per distrazione, in presenza di condotte animate dall’intento

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l’imprenditore collettivo), mentre sarebbe penalmente sanzionato l’imprenditore

di «definire le più importanti esposizioni debitorie […] e di soddisfare le ragioni
dei principali creditori».
1.3.4 La giurisprudenza di questa Sezione, successiva alla sentenza
Corvetta, risulta invece essere tornata a sposare l’orientamento precedente,
ritenendo che «ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta
patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di
distrazione ed il successivo fallimento» (Cass., Sez. V, n. 7545 del 25/10/2012,
Lanciotti, Rv 254634; v. anche Cass., Sez. V, n. 27993 del 12/02/2013, Di

In una quasi coeva decisione, identicamente massimata (Rv 254061) questa
Sezione ha precisato che «anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 11 aprile
2002, n. 61, ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non si
richiede l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo
fallimento […]. Al riguardo vale la pena di rimarcare che il rapporto eziologico
fra la condotta vietata e il dissesto della società è richiesto dalla legge fall., art.
223, comma 2, n. 1, nel testo novellato, con esclusivo riferimento alle ipotesi di
bancarotta “da reato societario”, il cui elemento oggettivo – nel modello
descrittivo recato dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e
2634 cod. civ., richiamati dalla norma incriminatrice – è del tutto diverso da
quello che caratterizza le condotte vietate dall’art. 216 della stessa legge,
richiamato invece dal citato art. 223, comma 1» (Cass., Sez. V, n. 232 del
09/10/2012, Sistro).
1.3.5 II collegio ritiene di aderire alla consolidata e “tradizionale”
giurisprudenza, anche in adesione alla giurisprudenza delle Sezioni Unite di
questa Corte che nell’analisi del reato di bancarotta hanno avallato «l’abbandono
definitivo della concezione del fallimento come evento» (v. Cass., Sez. U, n.
21039 del 27/01/2011, Loy).
Uno degli elementi fondamentali, per orientare la decisione nel senso
indicato, si rinviene in effetti nelle già ricordate divergenze strutturali tra la
fattispecie disegnata dall’art. 216, legge fall., e quella risultante dalle varie
ipotesi previste dal successivo art. 223, comma secondo: solo in queste ultime,
infatti, il legislatore ha inteso conferire immediato rilievo a condotte che
cagionino il fallimento, ovvero cagionino o concorrano a cagionare il dissesto
della società. Non sembra pertanto che i pur pregevoli sforzi argomentativi
contenuti nella sentenza Corvetta, né gli spunti contenuti nella sentenza Gessi,
riescano a superare il dato letterale: laddove il legislatore ha inteso individuare
la necessità di un nesso causale, prima ancora di una riferibilità psicologica, fra il
comportamento del soggetto attivo del reato ed il successivo dissesto, od il
fallimento che ne sia derivato, ciò è espressamente prescritto. Né pare possibile

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Grandi).

interpretare l’art. 223, comma secondo, legge fall., come una sorta di norma di
chiusura, con funzioni interpretative dell’intero sistema sanzionatorio: da un lato,
si tratta di una previsione recentemente modificata (nel 2002), e se si fosse
avvertita l’esigenza di uniformare le varie previsioni incriminatrici in tema di
bancarotta (volendo intendere, come si sostiene nella richiamata sentenza, che
«i fatti di bancarotta di tipo patrimoniale in tanto rilevano in quanto abbiano in
qualche modo rilevanza nella produzione del dissesto») il legislatore ben avrebbe
potuto porre mano anche al precedente art. 216; dall’altro, se è vero che la

palesi alcuni difetti di coordinamento (come parimenti avvertito nella sentenza
Corvetta), è ancor più evidente che non vi sarebbe necessità di reprimere la
condotta di chi abbia “cagionato con dolo il fallimento della società” (art. 223,
comma secondo, n. 2) se già il primo comma dell’art. 223 venisse a sanzionare
per le società commerciali condotte di distrazione ex art. 216, di cui possa
affermarsi la rilevanza penale soltanto qualora siano fattore causale del
fallimento medesimo.
Deve perciò ritenersi che, tornando ad esaminare il precetto normativo, la
condotta sanzionata dall’art. 216 legge fall. – e, per le società, dall’art. 223,
comma 1 – non sia quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere
provocato il fallimento, bensì – assai prima – quella di depauperamento
dell’impresa, consistente nell’averne destinato le risorse ad impieghi estranei
all’attività dell’impresa medesima. La rappresentazione e la volontà dell’agente
debbono perciò inerire alla

deminutio patrimonii

(semmai, occorre la

consapevolezza che quell’impoverimento dipenda da iniziative non giustificabili
con il fisiologico esercizio dell’attività imprenditoriale): tanto basta per giungere
all’affermazione del rilievo penale della condotta, per sanzionare la quale è sì
necessario il successivo fallimento, ma non già che questo sia oggetto di
rappresentazione e volontà – sia pure in termini di semplice accettazione del
rischio di una sua verificazione – da parte dell’autore.
Come efficacemente segnalato in una ancor recente sentenza di questa
Corte, «ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell’art. 216 legge fall. in
caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo, il
quale non costituisce l’evento del reato che, invece, coincide con la lesione
dell’interesse patrimoniale della massa, posto che se la conoscenza dello stato di
decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare
danno ai creditori ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori,
quali la natura fittizia o l’entità dell’operazione che incide negativamente sul
patrimonio della società» (Cass., Sez. V, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv
246879).

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lettura delle plurime ipotesi di rilievo penale di cui alla legge fallimentare rende

E’ del resto innegabile che ci sì trovi dinanzi ad una fattispecie disegnata
come reato di pericolo, come già avvertito nella motivazione della sentenza
Pisani, sopra richiamata; fattispecie in relazione alla quale il giudice delle leggi
ebbe da tempo a rilevare che «il legislatore avrebbe potuto considerare la
dichiarazione di fallimento come semplice condizione di procedibilità o di
punibilità, ma ha invece voluto […] richiedere l’emissione della sentenza per
l’esistenza stessa del reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa
di fallimento, la messa in pericolo di lesione al bene protetto si presenta come

fraudolenta patrimoniale è dunque, più propriamente, reato di pericolo concreto,
dove la concretezza del pericolo assume una sua dimensione effettiva soltanto
nel momento in cui interviene la dichiarazione di fallimento, condizione peraltro
neppure indispensabile per l’esercizio dell’azione penale o per l’adozione di
provvedimenti de libertate, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 238
legge fall. Ed è per questo che rimane esente da pena il soggetto che
impoverisca una società di risorse enormi, quando questa può comunque
continuare a disporne di ben più rilevanti, idonee a fornire garanzia per le
possibili pretese creditorie: perché in quel caso, a differenza dell’ipotesi
dell’imprenditore che si renda responsabile di una distrazione modesta (ma a
fronte di un patrimonio suscettibile di risentirne significativamente), il pericolo di
un pregiudizio per i creditori non avrà assunto la concretezza richiesta dal dato
normativo.
Anche le indicazioni della giurisprudenza di legittimità in tema di c.d.
“bancarotta riparata” avvalorano la conclusione appena illustrata; vero è che in
quegli interventi si è ritenuto che «non integra il delitto di bancarotta fraudolenta
per distrazione il finanziamento concesso al socio e da questi restituito in epoca
anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva del delitto di
bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consistenza patrimoniale
comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in
pericolo l’interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori», ma si è al
contempo precisato che il momento cui fare riferimento per verificare la
consumazione dell’offesa è pur sempre «quello della dichiarazione giudiziale di
fallimento e non già quello in cui sia stato commesso l’atto, in ipotesi,
antidoveroso» (Cass., Sez. V, n. 39043 del 21/09/2007, Spitoni, Rv 238212; v.
anche Cass., Sez. V, n. 8402 del 03/02/2011, Cannavale).
In sostanza, e in definitiva, l’imprenditore deve considerarsi sempre tenuto
ad evitare l’assunzione di condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le
ragioni dei creditori, non nel senso di doversi astenere da comportamenti che
abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma da quelli che

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effettiva e reale» (Corte Cost., sentenza n. 146 del 27/06/1982); la bancarotta

comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella
fisiologica gestione dell’impresa.
1.3.6 Applicando i principi appena illustrati alla disamina della odierna
fattispecie concreta, deve pertanto osservarsi che:
– quanto all’addebito

sub

A), l’impostazione difensiva è radicalmente

insostenibile, per l’evidente ragione che il delitto contestato –

ex art. 223,

comma secondo, n. 2, legge fall. – rientra proprio nel ristretto novero delle
ipotesi criminose per cui il fallimento deve considerarsi evento del reato, con il

espressamente da manifestarsi attraverso “operazioni dolose”. In proposito, le
sentenze di merito chiariscono al di là di ogni ragionevole dubbio come l’intento
perseguito ab initio dal A.A. fosse quello di «favorire FPM, liberata delle
passività prese in carico da XX», addirittura con l’accollo dei debiti di
FPM neppure iscritto credito in bilancio mentre XX pagava canoni «in
misura ampiamente superiore al fatturato emesso dalla locatrice», e in un
contesto nel quale il curatore aveva segnalato come la società fosse stata
oggetto di «drenaggio di tutta la liquidità residua ed accumulo di debito
previdenziale verso l’INPS che aveva poi portato al fallimento» (v. pag. 7 della
sentenza della Corte di appello);
– in ordine alle condotte distrattive di cui ai capi B) e C), peraltro
sostanzialmente coeve rispetto alle operazioni anzidette, è necessario soltanto
prendere atto del complessivo risultato di depauperamento aziendale che ne fu
conseguenza, e che appare in re ipsa dinanzi a prelievi od emolumenti percepiti
per oltre 1.850.000.000 di lire, in pregiudizio di una mera società di gestione
priva di patrimonio immobiliare.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 13/03/2014.

doveroso nesso eziologico rispetto alla condotta tenuta dall’agente, non a caso

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