Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17292 del 17/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 17/06/2021, (ud. 11/03/2021, dep. 17/06/2021), n.17292

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26594/2012 R.G. proposto da:

M.M., rappresentato e difeso dall’avv. Andrea Mifsud,

elettivamente domiciliato in Roma alla via della Ferratella in

Laterano n. 33, presso l’avv. Aurora Spaccatrosi;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e

difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in

Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n.54/1/2012 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, pronunciata in data 21 febbraio 2012,

depositata in data 2 aprile 2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 marzo

2021 dal consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

RILEVATO

che:

M.M. ricorre con sette motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 54/1/2012 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, pronunciata in data 21 febbraio 2012, depositata in data 2 aprile 2012 e non notificata, che ha solo parzialmente accolto l’appello del contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa dell’avviso di accertamento per maggiori Irpef, Irap ed Iva relative agli anni di imposta 2003, 2004, 2005 e 2006;

la vicenda trae origine dal p.v.c. del Nucleo operativo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di (OMISSIS) del (OMISSIS), redatto a seguito di verifica in concomitanza con l’accesso domiciliare eseguito presso l’abitazione dell’Ing. M.M., in esecuzione del Decreto di Accesso domiciliare rilasciato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Varese;

nel corso delle operazioni di accesso eseguite, sia presso lo studio dell’Ing. M., sia presso l’abitazione del professionista, è stata reperita copiosa documentazione relativa alla società “Interplanning Llc”, con sede a (OMISSIS) (Texas) e succursale a (OMISSIS) (Svizzera);

i militari intervenuti hanno ritenuto di poter individuare nella suddetta società un soggetto fittiziamente interposto all’attività professionale svolta in Italia dall’Ing. M.;

alla luce di detta attività istruttoria venivano emessi i sopra menzionati atti impositivi, impugnati dal contribuente;

a seguito del ricorso, l’Agenzia si costituisce e resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio dell’11 marzo 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e dell’art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

(Ndr: testo originale non comprensibile)

1. Con il primo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 138,139 e 140 c.p.c., del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, commi 1 e 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57, commi 1 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata non avrebbe rilevato, per l’anno di imposta 2003, l’intervenuta decadenza dell’amministrazione dal potere di accertamento, questione specificamente dedotta con l’atto di appello con riferimento all’Iva.

Il ricorrente sostiene che la notifica dell’atto di accertamento per tale annualità sarebbe del tutto inesistente, non essendo mai stata recapitata al ricorrente, circostanza avvalorata dalla mancata produzione dell’avviso di ricevimento della lettera raccomandata informativa da parte dell’ufficio; comunque, in subordine la notifica sarebbe nulla, in quanto la relata del messo comunale non menziona l’avvenuta affissione alla porta dell’abitazione dell’avviso di deposito presso la casa comunale, ma solo “l’affissione di avviso di deposito, in busta sigillata, alla Casa Comunale”.

Secondo il ricorrente, nel caso in esame, il messo comunale avrebbe dovuto utilizzare il procedimento notificatorio disciplinato dall’art. 140 c.p.c., in quanto, come riconosciuto da un orientamento univoco della giurisprudenza di legittimità, la notificazione dell’avviso di accertamento tributario deve essere effettuata applicando tale norma, quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma la notifica non sia avvenuta perchè costui o altro possibile consegnatario non sia stato rinvenuto.

Allorquando – come nella specie – non risulti dalla relazione di notificazione l’avvenuta affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione del destinatario dell’atto, la notificazione è nulla (Cass. 4 settembre 1996 n. 8071, Cass. 7 maggio 1976, n. 1607; Cass. 22 ottobre 1981, n. 5529; Cass. 9 marzo 1990, n. 1938; Cass. 30 dicembre 1994, n. 11313) e la nullità non potrebbe essere superata attraverso una attestazione dell’ufficiale giudiziario procedente, successiva all’avvenuta notificazione, che confermi l’avvenuta affissione dell’avviso e la mera materiale omissione di ogni menzione dell’adempimento nella relazione di notificazione.

Nel caso in esame, il ricorrente evidenzia anche un ulteriore profilo di nullità della notifica, in quanto dalla relata di notifica non risulterebbero neanche l’espressa e puntuale indicazione dei luoghi dove il messo comunale ha effettuato le ricerche e verificato l’irreperibilità del destinatario.

Il ricorrente ritiene, inoltre, che non potrebbe soccorrere il ricorso all’art. 156 c.p.c., che prevede la sanatoria per raggiungimento dello scopo, in quanto la norma, applicabile anche agli atti di imposizione tributaria, deve essere intesa nel senso che il ricorso del contribuente ha effetto sanante ed evita la decadenza dal potere di accertamento solo se sia stato proposto prima della scadenza del termine previsto dalle singole leggi di imposta per l’esercizio del potere di accertamento.

L’impugnata sentenza avrebbe, quindi, errato nell’affermare che, ai fini della sanatoria, sarebbe stata sufficiente per il notificante la semplice consegna dell’atto all’agente notificatore entro i termini di decadenza, giacchè il principio secondo cui la notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario presuppone che il procedimento notificatorio si perfezioni, determinando il buon esito della notifica.

Il ricorrente conclude, quindi, nel senso che, siccome alla data di presentazione del presente ricorso la decadenza si era già verificata (dovendo l’avviso di accertamento essere validamente notificato entro il (OMISSIS)), il ricorso del contribuente non può in alcun modo sanare, ex artt. 156 e 160 c.p.c., l’intempestivo esercizio del potere di accertamento.

Infine, il ricorrente ritiene sia erronea l’impugnata sentenza allorquando afferma (pag. 6) che “superando il problema della tempestività notifica, nel caso in esame si rende applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, che comporta il raddoppio dei termini ad accertare sussistendo obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., in presenza di reati previsti dal D.Lgs. 10-2000-, n. 74”.

Invero, il raddoppio dei termini non potrebbe operare per l’Iva, in quanto l’unico reato tributario ravvisabile nel caso di specie è quello di presentazione della dichiarazione annuale infedele relativa all’anno 2003 (Unico 2004) in materia di imposte sui redditi.

Con riguardo all’Iva, l’imposta evasa relativa al 2003, stando all’avviso di accertamento impugnato, ammontava ad Euro 61.800,00, un importo evidentemente inferiore alla soglia di punibilità di Lire 200 milioni (pari ad Euro 103.291,00) fissata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, “con riferimento a taluna delle singole imposte” (nel testo vigente ratione temporis); dunque, ne conseguirebbe che il raddoppio dei termini per l’accertamento non possa operare per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3.

1.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

Preliminarmente, deve rilevarsi che la censura risulta ammissibile, contrariamente a quanto eccepito dall’Agenzia controricorrente, che ha dedotto la novità della doglianza relativa all’inoperatività del raddoppio dei termini limitatamente all’Iva, avanzata per la prima volta in appello.

Come è stato detto “in tema di decadenza dalla potestà impositiva, in presenza di un’eccezione del contribuente di decadenza per il mancato rispetto del termine per l’esercizio della potestà impositiva previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare di avere rispettato tale termine ovvero di allegare e dimostrare la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione di un diverso termine decandenziale, di guisa che la prospettazione, da parte dello stesso contribuente in sede di appello, dell’insussistenza dei presupposti per l’applicazione del termine raddoppiato di accertamento sulla base di considerazioni fattuali e giuridiche diverse da quelle prospettate nel ricorso introduttivo non costituisce un ampliamento del “thema decidendum” cristallizzatosi sulla base delle contestazioni inizialmente mosse all’atto impositivo – e, quindi, una domanda nuova, inammissibile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 – ma si risolve nell’illustrazione delle tesi giuridiche e dei fatti che le sostengono già rientranti nell’ambito delle questioni devolute al sindacato del giudice” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1291 del 22/01/2020).

Tuttavia, nel merito, la censura è infondata.

In primo luogo deve rilevarsi l’evoluzione, in generale, in senso restrittivo, del concetto di inesistenza della notifica, come affermato, in tema di notificazione del ricorso per cassazione, dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 14916/2016, secondo cui l’inesistenza “è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità”.

Inoltre, la sanatoria dell’eventuale vizio di nullità della notifica, per raggiungimento dello scopo, riguardo anche ad un atto sostanziale e non processuale, come l’avviso di accertamento, costituisce un approdo consolidato della giurisprudenza di questa Corte, sin dalla sentenza delle Sezioni Unite, 5 ottobre 2004, n. 19854, che ha affermato che “la natura sostanziale e non processuale (nè assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c.. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento”.

In particolare, in tema di notifica dell’avviso di accertamento, è stato detto che l’invalidità della notifica “è sanata per raggiungimento dello scopo, ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui il medesimo, in sede di ricorso giurisdizionale contro l’atto, ne abbia diffusamente contestato il contenuto” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 11043 del 09/05/2018; vedi anche Cass. n. 21071 del 2018).

Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 19854 del 2004 citata), l’applicazione della sanatoria del raggiungimento dello scopo nel caso di impugnazione dell’atto la cui notificazione sia affetta da nullità significa che, “se il contribuente mostra di aver avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto e ha potuto adeguatamente esercitare il proprio diritto di difesa, lo stesso contribuente non potrà, in via di principio, dedurre i vizi relativi alla notificazione a sostegno di una domanda di annullamento. A diverse conclusioni deve, peraltro, pervenirsi se la sanatoria, costituita dalla proposizione del ricorso alle commissioni sia intervenuta quando il termine per l’esercizio del potere di accertamento è scaduto”.

Dunque, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, la sanatoria può verificarsi solo se avvenuta prima del decorso del termine di decadenza, circostanza che pacificamente nel caso di specie può ritenersi verificata per l’annualità 2003 solo in caso di raddoppio dei termini.

Il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, per l’IVA consegue, nell’assetto anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, e alla L. 31 dicembre 2015, n. 208, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p.; la dizione legislativa rende chiaro che il raddoppio è legato all’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi del citato art. 331, e non dipende dal suo accertamento in concreto.

Come più volte chiarito da questa S.C., anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass., Sez. VI, 28/06/2019, n. 17586, Cass., Sez. V, 13/09/2018, n. 22337; Cass., Sez. VI, 30/05/2016, n. 11171).

Si è anche detto che “in tema di accertamento tributario, il cd. raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini prolungati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, non integrando quindi ipotesi di “riapertura” o proroga di termini scaduti nè di reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, in quanto i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie “ab origine” diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi, unitari e distinti termini di accertamento” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23628 del 09/10/2017).

Ove sia contestato il raddoppio dei termini, rientra nei compiti del giudice tributario l’accertamento dell’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 331, quindi anche del raggiungimento della soglia di rilevanza penale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, nel testo vigente ratione temporis (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 11171 del 30/05/2016; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13483 del 30/06/2016).

Secondo il ricorrente, limitatamente all’Iva per l’anno 2003, l’imposta evasa era al di sotto della soglia penalmente rilevante, onde non poteva applicarsi la disposizione su menzionata, che postulava la sussistenza di violazioni per le quali è previsto l’obbligo di denunzia ex art. 331 c.p.p.; tuttavia, la C.t.r. ha dato atto che per l’annualità in contestazione era applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, sul raddoppio dei termini, sussistendo l’obbligo di denunzia ai sensi dell’art. 331 c.p.c., in presenza dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4.

Ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, vigente ratione temporis, “1. Fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Lire duecento milioni;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a Lire quattro miliardi”.

L’art. 43, comma 3, vigente ratione temporis (eguale disposizione è contenuta per l’Iva nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57), a sua volta prevede: “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.

Pertanto, dalla lettura combinata delle norme si evince che il raddoppio dei termini scatta in presenza di una violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale a sua volta, all’art. 4, prevede, tra i requisiti per la configurabilità astratta del reato di dichiarazione infedele, che “taluna” delle singole imposte evase sia superiore all’ammontare indicato; dunque, la soglia di rilevanza penale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, relativo al raddoppio dei termini dell’accertamento, va valutata con riferimento all’intero accertamento, sia in relazione all’Irpef, sia in relazione all’Iva, per l’annualità di riferimento.

Come chiarito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011 con riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, commi 1 e 2, i termini “brevi” ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia.

Dunque, ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perchè essa soltanto connota obiettivamente, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento.

Nel caso di specie, il giudice di appello ha ritenuto la sussistenza dei requisiti richiesti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF, come modificato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, conv. con modif. dalla L. n. 248 del 2006, nella versione applicabile ratione temporis, per il raddoppio dei termini in presenza di seri indizi del reato di dichiarazione infedele D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 4, per i quali vi era l’obbligo di presentazione di denuncia penale (nello specifico effettivamente presentata e conclusa con patteggiamento).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o errata e/o falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, comma 1, e dell’art. 14 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Con l’appello, il contribuente, tra i vari motivi di impugnazione, ha mosso contestazioni alla legittimità dell’accesso domiciliare per l’insussistenza di gravi indizi di evasione richiesti dalla legge (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 2; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1), con conseguente inutilizzabilità della documentazione acquisita tramite il suddetto accesso.

Sul punto, la sentenza impugnata ha così disposto: “Gli atti di accesso alla luce del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, risultano regolari e legittimi, come regolari sono i documenti acquisiti di cui al presente avviso di accertamento. L’accesso è stato regolarmente autorizzato dal Procuratore della Repubblica” in presenza di gravi indizi di evasione.

Secondo il ricorrente, il giudice di appello si sarebbe limitato ad affermare la legittimità dell’accesso per l’esistenza del provvedimento autorizzativo del pubblico ministero, senza esaminare se effettivamente ricorressero i gravi indizi di evasione, che costituiscono il presupposto per la legittimità dell’autorizzazione.

L’omessa valutazione da parte del giudice tributario dei gravi indizi di evasione sarebbe ancor più rilevante, considerato che il decreto di accesso domiciliare non li indica e la richiesta di autorizzazione alla perquisizione domiciliare della Guardia di Finanza faceva riferimento a fonti anonime (attività “infoinvestigativa”, da cui sarebbe emerso un giro di false fatturazioni del professionista, poi non riscontrato in sede di verifica).

Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o errata e/o falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Con l’appello, il ricorrente, tra i vari motivi di impugnazione, ha contestato la violazione del diritto di difesa, per avere la G.d.F. proceduto al back-up dei dati presenti sui computer senza che il contribuente si fosse rifiutato di farlo personalmente.

La sentenza d’appello, statuendo sul punto, ha così disposto: “In ordine alla inutilizzabilità dei files acquisiti mediante il back-up dei computer, si richiama il disposto del D.P.R. n. 633, art. 52, comma 9, che autorizza e dà la possibilità di procedere alla elaborazione dei dati. Nè vale richiamare dello stesso art., comma 3, che prevede altra autorizzazione del Procuratore della Repubblica in quanto è stato lo stesso contribuente a fornire la password di accesso”.

Secondo il ricorrente, la decisione risulterebbe illegittima e viziata in quanto fornisce una erronea applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 9, (valevole anche ai fini delle imposte sui redditi, in forza del richiamo operato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1), norma secondo la quale “In deroga alle disposizioni del comma 7, gli impiegati che procedono all’accesso nei locali di soggetti che si avvalgono di sistemi meccanografici, elettronici e simili, hanno facoltà di provvedere con mezzi propri all’elaborazione dei supporti fuori dei locali stessi qualora il contribuente non consenta l’utilizzazione dei propri impianti e del proprio personale”.

Sostiene il ricorrente che il giudice d’appello ha ritenuto legittimo il ricorso della Guardia di Finanza all’elaborazione con mezzi propri dei dati presenti nei computer del M. in assenza del presupposto richiesto dalla norma citata, vale a dire in assenza del rifiuto del contribuente alla “utilizzazione dei propri impianti e del proprio personale”.

Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o errata e/o falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Nell’atto d’appello il ricorrente ha contestato la sentenza di primo grado per aver ritenuto legittima l’acquisizione dei dati presenti nei computer del ricorrente in assenza di una specifica autorizzazione del Procuratore della Repubblica, resa necessaria dall’utilizzo di password di accesso.

La sentenza d’appello, statuendo sul punto, ha così disposto: “L’accesso ai vari documenti conservati nei files del computer è stato conseguente alla disponibilità del contribuente che ha fornito ai verificatori anche la password di accesso. Pertanto gli atti di accesso sia ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, commi 1, 2 e 9, hanno trovato legittimità e regolarità senza alcun abuso o sottrazione di documentazione contro la volontà del contribuente”.

Il ricorrente rileva l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, rilevando che, come ha riconosciuto lo stesso Ministero dell’Economia (Circ. Min. 19 ottobre 2005, n. 45/E), se il sistema è protetto da una password è necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica (essendo la fattispecie assimilabile a quella dell’apertura di pieghi sigillati, casseforti, etc…).

2.2. I motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono infondati e vanno rigettati.

Come questa Corte ha già chiarito, l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso; pertanto, gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salva solo l’ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (cfr. Cass. n. 4066 del 2015).

Ciò in quanto non esiste nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite; tale principio va comunque contemperato con la violazione di specifiche disposizioni tributarie (quali il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52) che sono espressione del principio dell’inviolabilità del domicilio sancita dall’art. 14 Cost. (cfr. da ultimo Cass. n. 13711 del 2018 in tema di accesso a locali adibiti anche solo in parte ad abitazione effettuato senza autorizzazione della Procura).

Come è stato detto (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 673 del 15/01/2019, conf. Sez. 5, Sentenza n. 10275 del 12/04/2019), l’utilizzazione a fini fiscali di dati e documenti acquisiti dalla G.d.F. operante quale polizia giudiziaria è subordinata al rispetto delle disposizioni dettate dalle norme tributarie (nella specie, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33,D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 52 e 63) fatti salvi, in ogni caso, i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico, come ad esempio la necessità di preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica, prevista dalle citate disposizioni tributarie, per procedere a determinate attività quali l’accesso presso locali diversi da quelli di esercizio dell’attività del contribuente (cfr. Cass. n. 958 del 2018).

Nel caso di specie, l’attività di verifica si è svolta sia presso lo studio, sia presso l’abitazione del professionista, su autorizzazione del pubblico ministero, a seguito di richiesta motivata della Guardia di finanza, che aveva svolto attività di indagine sul contribuente e non si basava esclusivamente su informazioni anonime (vedi l’informativa della G.d.F., riportata in ricorso), come sostenuto dal contribuente.

In ogni caso, è opportuno precisare che, come questa Corte ha rilevato in precedenti casi al suo esame, l’ispezione è rivolta a scoprire violazioni, non solo a fornire conforto dimostrativo alle inosservanze al momento conosciute o sospettate, e, una volta che sia autorizzata sulla scorta dei dati a disposizione, può investire anche circostanze diverse, influenti per la revisione delle posizioni del contribuente (cfr. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 334 del 13/01/2021, che richiama Cass. n. 18155 del 07/08/2009; Cass. n. 429 del 14/01/2015).

Per quanto riguarda le contestazioni relative all’acquisizione dei dati dai P.C. in uso al contribuente, questa Corte ha precisato che “in tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3, (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33), è richiesta soltanto nel caso di “apertura coattiva”, e non anche ove l’attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittima, seppure in assenza dell’autorizzazione sopra indicata, l’acquisizione nel corso di una ispezione di una “pen drive” contenuta all’interno di una borsa adibita al trasporto di documentazione dell’impresa oggetto di verifica fiscale, in quanto aperta volontariamente da una dipendente a seguito di invito da parte dei verificatori)” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 737 del 19/01/2021).

Nel caso in esame, tale acquisizione si è perfezionata a seguito di richiesta dei verificatori alla quale si è dato corso, senza cha sia stato opposto rifiuto di rimuovere ostacoli all’accesso ai documenti; pertanto, non si ricade in alcun caso di attività “coattiva”, o contro la volontà del contribuente, per l’esecuzione della quale operazione è necessaria l’autorizzazione specifica del Pubblico Ministero (così Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3204 del 18/02/2015; conforme Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 24306 del 04/10/2018).

Infine, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 9, in deroga alle disposizioni del precedente comma 7, consente agli operatori dell’amministrazione, che procedono all’accesso nei locali di soggetti che si avvalgono di sistemi meccanografici, elettronici e simili, di provvedere all’elaborazione dei supporti fuori dai locali del contribuente, qualora lo stesso non permetta l’utilizzo dei propri impianti e del proprio personale.

Dunque, l’acquisizione (e la conservazione) di tali dati deve rispondere a precise regole, che ne garantiscano l’attendibilità e dunque anche l’utilizzabilità ai fini processuali.

Nel caso in esame il ricorrente non contesta in alcun modo l’attendibilità dei dati informatici oggetto del backup (che è una semplice operazione di salvataggio e riproduzione), che, quindi, risultano utilizzabili ai fini dell’accertamento, poichè acquisiti nel corso di un accesso, regolarmente autorizzato e con il consenso del contribuente.

3. Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Secondo il ricorrente, nel caso di specie non vi sarebbe la prova di un accordo simulatorio fra tutti e tre i soggetti contraenti (cioè l’interponente – ing. M.M. – l’interposto – soc. Interplanning – ed i clienti terzi).

3.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

Ai sensi del citato art. 37, comma 3, in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.

Questa Corte, nel chiarire la portata del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, ritenendo che non si debba distinguere tra interposizione fittizia o reale, ha affermato che ” è valido l’accertamento con il quale il fisco imputa al contribuente i redditi che siano formalmente di un soggetto interposto, quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, risulti che il contribuente ne sia l’effettivo titolare ” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 27625 del 30/10/2018; conf. Cass. n. 15830 del 2016).

Pertanto, nel caso di specie, la sentenza impugnata non incorre nella denunziata violazione di legge, in quanto il giudice di appello ha valutato che l’ufficio avesse prodotto sufficienti elementi di prova della circostanza che la società Interplanning fosse un soggetto interposto tra l’ing. M. e le società, formalmente clienti della Interplanning, che, a sua volta, interveniva solo nella fase della fatturazione delle prestazioni.

4. Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Il ricorrente aveva dedotto in sede di appello l’illegittimità dell’imputazione all’ing. M. dei ricavi fatturati dalla INTERPLANNING LLC, anzichè del reddito conseguito.

La decisione impugnata, statuendo sul punto, ha così disposto: “l’ufficio ha fatto presente che sono stati conteggiati tutti i costi come da contabilità M.. Pertanto avendo ritenuto che i ricavi fossero di competenza del M. non ha rettificato i costi come da contabilità”.

Secondo il ricorrente la decisione è erronea ed illegittima, ponendosi in contrasto con i principi di ragionevolezza e capacità contributiva (art. 53 Cost.), immanenti nel sistema tributario, in quanto lo stesso Ministero delle Finanze (cfr. circolare Min. Fin. – Dir. Gen. Imp. Dirette – n. 7/1496 del 30.4.1977) specifica che “la determinazione induttiva non può in nessun caso tradursi in una libera quantificazione dell’imponibile, nè, tanto meno, scadere a mero arbitrio; il procedimento induttivo vincola pur sempre a tener conto dell’effettiva situazione economica dell’impresa o delle attività artistiche e professionali svolte dal soggetto e, quindi, va ancorato a fatti certi o ad elementi e circostanze da cui derivino ragionevoli presunzioni, pur se non qualificate ai sensi dell’art. 2729 c.c.”.

Nel caso in esame, considerata l’inattendibilità complessiva della contabilità – che discende oggettivamente dalle gravi e sistematiche omissioni contestate per quanto riguarda l’annotazione dei compensi (sia quelli asseritamene conseguiti per effetto dell’interposizione di INTERPLANNING, sia quelli asseritamene risultanti dagli accertamenti bancari) – è indubbio che l’ufficio avrebbe dovuto effettuare un accertamento induttivo, per determinare una situazione economica espressiva di una reale capacità contributiva, nel rispetto dell’art. 53 Cost., a tal fine riconoscendo un’incidenza percentualizzata dei costi rispetto ai maggiori compensi ricostruiti.

4.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

L’Ufficio ha imputato all’Ing. M. il totale dei ricavi dichiarati dalla società interposta, in quanto tutta l’attività professionale veniva svolta esclusivamente dallo studio professionale dell’ing. M., sul quale gravavano tutti i costi riconducibili al reddito poi fittiziamente dichiarato dalla Interplanning.

L’amministrazione finanziaria ha accertato che l’ing. M. contrattava con i clienti, eseguiva la prestazione e riceveva il compenso, avvalendosi della società Interplanning solo per la fatturazione; pertanto, al fine di ricondurre il reddito all’effettivo possessore, l’amministrazione ha imputato all’ingegnere quei ricavi indebitamente sottratti a tassazione, riconoscendo, quali costi, quelli già interamente dedotti dallo studio professionale.

Se il ricorrente intendeva far valere ulteriori costi non dichiarati avrebbe dovuto darne adeguata prova, trattandosi di accertamento analitico induttivo, con la rideterminazione dei ricavi del contribuente; invero, “in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 22868 del 29/09/2017).

5. Con il settimo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Con l’appello l’ing. M. ha contestato la sentenza di primo grado per aver imputato al ricorrente anche l’IVA sui ricavi conseguiti dalla INTERPLANNING LLC, giacchè il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, non si applica in materia di imposta sul valore aggiunto.

Secondo il ricorrente, la sentenza d’appello, rigettando il gravame, ha disatteso le istanze del contribuente, violando la normativa indicata, che non si applica in materia di imposta sul valore aggiunto.

5.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

L’ufficio nell’atto impositivo ha individuato specificamente le prestazioni di servizi che, se fossero state fatturate dal M., avrebbero scontato l’imposta Iva e sulla base di tale ricostruzione, indipendentemente dal pagamento, ha quantificato l’Iva evasa per le prestazioni di servizio attribuibili direttamente all’Ing. M..

In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali in favore dell’Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.500,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

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