Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9532 del 12/04/2021

Cassazione civile sez. trib., 12/04/2021, (ud. 21/01/2021, dep. 12/04/2021), n.9532

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29209 del ruolo generale dell’anno 2017

proposto da:

St. Ma. Limited e St. International Be. Limited, in

persona dei legali rappresentanti, rappresentate e difese dagli

Avv.ti Roberto A. Jacchia, Antonella Terranova, Fabio Ferraro e

Daniela Agnello per procura speciale in calce al ricorso,

elettivamente domiciliata in Roma, via Vincenzo Bellini n. 24,

presso lo studio dei primi tre difensori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Lazio, n. 2959/14/2017, depositata in data 24 maggio

2017;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 21

gennaio 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane e dei monopoli aveva notificato a St. Ma. Limited, soggetto esercente l’attività di raccolta scommesse, un avviso di accertamento con il quale era stato contestato il mancato versamento dell’imposta unica sulle scommesse per l’anno 2007, quale soggetto obbligato in solido con la ditta individuale C.B.; avverso l’atto impositivo St.Ma. Limited e St.International Be. Limited avevano proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Frosinone; avverso la pronuncia del giudice di primo grado le società avevano proposto appello.

La Commissione tributaria regionale (della Lo. ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: alla luce della giurisprudenza unionale non sussisteva nella fattispecie alcuna violazione del principio della parità di trattamento e di discriminazione; non sussisteva alcuna violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della applicazione retroattiva della disposizione interpretativa di cui alla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66,; nel merito, non sussisteva violazione del principio del contraddittorio nè vizio di motivazione dell’avviso di accertamento; era infondata la questione relativa all’applicazione dell’aliquota; sussistevano, nella fattispecie, il presupposto soggettivo ed oggettivo dell’imposta, nonchè quello della territorialità.

Le società hanno quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a dieci motivi di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane e dei monopoli depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

Le società hanno altresì depositato istanza con la quale hanno chiesto la trattazione della causa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va disattesa l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza.

In adesione all’indirizzo espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass. Sez. Un., 5 giugno 2018, n. 14437), e non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass. Sez. Un., 23 aprile 2020 n. 8093).

In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sè, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce ii proprio contributo.

Nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti, da un lato, dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e, dall’altro, da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa alla St. Ma. Limited); e i principi stabiliti da quelle Corti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito.

Così ampie e convergenti affermazioni inducono, quindi, a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480).

Nè la giurisprudenza penale di questa Corte, allegata all’istanza di rimessione alla pubblica udienza, è idonea a incrinare i principi in questione, per le ragioni di seguito esplicate.

Infine, quanto al profilo delle esigenze difensive, che pure si manifestano nell’istanza e sono state ribadite nella memoria illustrativa, va anzitutto nuovamente sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza sovranazionale, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU e avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e vi si può derogare in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (in particolare, Corte Cost., 11 marzo 2011, n. 80).

Ad ogni modo, queste esigenze sono anche in concreto presidiate, perchè le parti hanno illustrato le proprie rispettive posizioni in esito alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di giustizia depositando osservazioni scritte.

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 56 ss. TFUE, e dei principi del Diritto dell’Unione di parità di trattamento e non discriminazione, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 1, come interpretato dalla Legge di stabilità per il 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

1.1. Il motivo è infondato, alla luce della giurisprudenza unionale che ha già risolto le questioni di parità di trattamento e non discriminazione.

Al riguardo, giova premettere che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata; sicchè i giochi d’azzardo rilevano, ai fini del diritto unionale, in relazione alle norme concernenti la libera prestazione di servizi presidiata dall’art. 56 TFUE (Corte di giustizia, 26 febbraio 2020, causa C-788/18, punto 17).

Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza unionale, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonchè di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: ne consegue che, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte di giustizia, 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07).

Il legislatore nazionale ha proceduto a questa valutazione, dichiarando, nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 64, i propri obiettivi, tra i quali si colloca “…l’azione per la tutela dei consumatori, in particolare dei minori di età, dell’ordine pubblico, della lotta contro il gioco minorile e le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione e di evasione fiscale nel medesimo settore”.

La prevalenza dell’ordine di valori di ciascuno Stato membro comporta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte di Giustizia, causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte di Giustizia, 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83).

In questo contesto la normativa italiana, come già segnalato, ha superato il vaglio della giurisprudenza unionale.

La Corte di giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perchè l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21, Corte di Giustizia, causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la St. Ma., nello Stato membro interessato”.

Anzi, come ha sottolineato la Corte costituzionale con la sentenza n. 27/18, a seguire la tesi prospettata in ricorso e ribadita in memoria si giungerebbe ad una discriminazione al contrario: la scelta legislativa “risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non aver ottenuto la necessaria concessione (…)”.

Nè v’è l’incongruenza, segnalata in memoria, tra i punti 17, 26 e 28 di quella sentenza.

Col punto 17, in relazione al bookmaker, ci si limita a stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro; ma col punto 24 si specifica, in concreto, che: “…la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri”; sicchè, si conclude nel punto 24, “…rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni di tale società, la St. Ma. non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale”.

Quanto al centro trasmissione dati, col punto 26 ci si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b).

Ciò non toglie, si aggiunge al punto 28, che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione che li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro.

La statuizione non è affatto oscura, come si deduce in memoria, giacchè la diversità della situazione è in re ipsa per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero: nel settore dei giochi d’azzardo, difatti, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte di Giustizia, 19 dicembre 2018, causa C-375/17, St International Be e St. Ma, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C-788/18, cit.); e ciò in conformità agli obiettivi perseguiti dal legislatore italiano, dinanzi indicati, come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia. Di qui l’esclusione, anche con riguardo alla posizione del centro trasmissione dati, di qualsiasi restrizione discriminatoria.

Non sussistono, per tali ragioni, alcun presupposto per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, neppure ponendosi una questione di interpretazione della precedente statuizione della Corte: le questioni sollecitate in memoria, per un verso, si risolvono in una critica della sentenza resa nella causa C-788/18, che si rivela sterile per le ragioni esplicate, e, per altro verso, sembra postulare che la Corte di giustizia abbia riconosciuto nella propria giurisprudenza precedente la legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei centri di trasmissione dati, mentre la stessa Corte, “pur avendo constatato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di alcune disposizioni delle gare avviate per l’attribuzione di contratti di concessione di servizi connessi ai giochi d’azzardo, non si è pronunciata sulla legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei CTD in quanto tale” (Corte di Giustizia, causa C-375/17, cit., punto 67).

In questo quadro, la giurisprudenza penale di questa Corte citata in memoria è irrilevante (si allega alla memoria Cass. pen. 9 luglio 2020, n. 25439).

Essa si riferisce, difatti, alla diversa questione della rilevanza penale dell’attività d’intermediazione e di raccolta delle scommesse, che questa Corte ha escluso, in base alla giurisprudenza unionale, qualora l’attività di raccolta sia compiuta in Italia da soggetti appartenenti alla rete commerciale di un bookmaker operante nell’ambito dell’Unione Europea che sia stato illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni: e ciò perchè, in tal caso, rileva la non conformità agli artt. 49 e 56 TFUE del regime concessorio interno. Difatti, ha sottolineato questa Corte con la sentenza in questione: “In forza dei principi affermati dalla Corte di giustizia…, il mancato rispetto della disciplina amministrativa che non sia conforme al diritto dell’Unione Europea non può comportare l’applicazione di sanzioni penali”.

Il fatto che quel bookmaker non risponda del reato di esercizio abusivo di attività di giuoco o discommessa, previsto e punito dalla L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 4, commi 1 e 4-bis, nessuna influenza produce sulla soggettività passiva della imposta unica sulle scommesse, che il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, riferisce a chiunque, con o senza concessione, gestisce i concorsi pronostici o le scommesse.

2.1. Per ragioni di ordine sistematico, si ritiene di dovere ora esaminare il secondo, quinto, sesto, settimo, ottavo, nono e decimo motivo di ricorso, attesa la unitarietà delle questioni ad essi sottese.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle leggi di cui all’art. 3 Cost., sotto diversi profili, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

2.3. Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del paragrafo 3.2) del n. 3), lett. b), del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4, per avere ritenuto correttamente applicata l’aliquota massima, mentre l’amministrazione doganale avrebbe dovuto richiedere alla società la composizione delle scommesse effettuate nell’annualità verificata al fine di individuare la corretta aliquota da applicare.

2.4. Con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per insussistenza in capo al centro di trasmissione dati del profilo soggettivo di applicazione del tributo.

2.5. Con il settimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per insussistenza del profilo oggettivo del presupposto dell’imposta unica.

2.6. Con l’ottavo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), per insussistenza in capo al centro di trasmissione dati del presupposto territoriale del tributo.

2.7. Con il nono motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 53, Cost. e del principio di capacità contributiva con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, artt. 1 e 3, al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 64, comma 3 e alla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

2.8. Con il decimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del principio dell’equo processo di cui alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali del 1950 (CEDU), art. 6 e dell’art. 117 Cost., comma 1, con riferimento alla Legge di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b).

2.9. Ai fini della definizione dei motivi di ricorso illustrati, si rende necessario un esame del quadro normativo di riferimento.

Sin dalle origini il tributo sui giochi e le scommesse, che è frutto de del percorso evolutivo iniziato con la tassa di lotteria (D.Lgs. 14 aprile 1948, n. 496, art. 6), è stato pensato in relazione alle “attività di gioco”: già nella relazione ministeriale al disegno di legge istitutivo dell’imposta unica n. 2033 presentato il 15 giugno 1951, si leggeva, quanto ai giochi riservati al CONI e all’UNIRE, che questi “…debbono allo Stato, per l’esercizio delle attività di giuoco predette, la corresponsione di una tassa di lotteria…”.

Sicchè il presupposto dell’imposizione non è stato correlato alla giocata in sè, ma alla prestazione di un servizio, che è, appunto, il servizio di gioco e, in questo ambito, il prelievo colpisce il prodotto che è offerto al consumatore tramite l’organizzazione dell’attività, sotto forma di servizio.

Sono proprio queste ragioni di ordine storico e sistematico che caratterizzano il quadro normativo di riferimento, che è così articolato:

– conformemente al D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, volto al riordino dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, a norma della L. 3 agosto 1998, n. 288, art. 1, comma 2, l’imposta unica è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero; il suddetto D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3, intitolato ai soggetti passivi, stabilisce che “Soggetti passivi dell’imposta unica sono coloro i quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse”;

– a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, “(…) a) (…) l’imposta unica (…) è comunque dovuta ancorchè la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze -amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. (n. 504 del 1998), art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorchè in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze – amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”;

– il D.M. economia e finanze 1 marzo 2006, n. 111, art. 16, prevede che il concessionario effettui il pagamento delle somme dovute a titolo di imposta unica;

– ai sensi della L. 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1, comma 644, lett. g), l’imposta unica si applica “su di un imponibile forfetario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata nella provincia ove è ubicato l’esercizio o il punto di raccolta, desunta dai dati registrati nel totalizzatore nazionale per il periodo d’imposta antecedente a quello di riferimento”.

2.9. Questo quadro normativo è stato sottoposto all’esame della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso, fornendo chiari elementi per la soluzione degli ulteriori dubbi prospettati con la memoria illustrativa.

In particolare, la Corte costituzionale (con la sentenza 23 gennaio 2018, n. 27), con riguardo all’ambito soggettivo dell’imposta, ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore, con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, da un canto, ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e, d’altro canto, ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti, come nel caso in esame, per conto di bookmakers privi di concessione, al versamento del tributo e delle relative sanzioni.

A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole.

Entrambi i soggetti, difatti, ha sottolineato quella Corte, partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, ha rimarcato il fatto che il titolare della ricevitoria, benchè non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perchè assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonchè del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker.

Della sussistenza di autonomi rapporti obbligatori che, ai fini tributari, sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente, non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. civ., 27 luglio 2015, n. 15731).

La stessa giurisprudenza penale citata in memoria dai contribuenti (ossia Cass. pen. 9 luglio 2020, n. 25439) evidenzia la rilevanza del ruolo del ricevitore appartenente alla rete distributiva del bookmaker (punto 5), consistente nella “…raccolta e trasmissione delle scommesse per conto di quest’ultimo, rilasciando le ricevute emesse dal terminale di gioco con le annesse attività di incasso delle poste e di pagamento delle eventuali vincite…”.

Sicchè, ha concluso la Corte costituzionale, quanto al ricevitore, l’attività gestoria, che costituisce il presupposto dell’imposizione, va riferita alla raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale.

Nè, ha aggiunto, la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione viola il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato: ciò perchè attraverso la regolazione negoziale delle commissioni il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera.

La rivalsa svolge quindi funzione applicativa del principio di capacità contributiva, poichè redistribuisce tra i coobbligati, bookmaker e ricevitoria, che hanno comunque realizzato, sia pure in vario modo, il presupposto impositivo, il carico fiscale in relazione alla partecipazione di ognuno a tale realizzazione.

E’ sulla base delle suddette considerazioni che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione. In quel periodo non si può difatti procedere alla traslazione dell’imposta, perchè l’entità delle commissioni già pattuite fra ricevitorie e bookmaker si era già cristallizzata sulla base del quadro precedente alla L. n. 220 del 2010. Quella Corte ha anche chiarito (punto 4.5) che, in mancanza di regolazione degli effetti transitori e in considerazione della natura interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), la disposizione va applicata anche ai rapporti negoziali perfezionatisi prima della sua entrata in vigore.

Ne consegue che per le annualità d’imposta antecedenti al 2011 non rispondono le ricevitorie, ma rispondono i bookmaker, con o senza concessione, in base alla combinazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. a), usciti indenni dal vaglio di legittimità costituzionale.

A diversa conclusione, invece, deve pervenirsi per le annualità dal 2011.

Invero, va osservato che la incostituzionalità della norma in esame è stata riscontrata dalla Corte “in ragione dell’impossibilità per le ricevitorie di traslare l’imposta per gli esercizi anteriori al 2011” con conseguente violazione dell’art. 53 Cost., “giacchè l’entità delle commissioni pattuite fra ricevitore e bookmaker si era già cristalizzata sulla base del quadro regolatorio, anche sotto il profilo tributario, precedente alla L. n. 220 del 2010”.

A fondamento, dunque, della pronuncia di incostituzionalità è stata la considerazione della già avvenuta definizione negoziale tra le parti dei reciproci rapporti in data antecedente alla introduzione della soggettività passiva della ricevitoria del bookmaker privo di concessione, ed è stato dato rilievo al fatto che le stesse non erano state nelle condizioni di regolare diversamente la misura delle commissioni al fine di procedere all’eventuale trasferimento del carico tributario, gravante anche sulla ricevitoria in forza della legge sopravvenuta, sui bookmaker.

La suddetta ragione di incostituzionalità, tuttavia, non è stata ravvisata per i “rapporti successivi al 2011”, quindi non solo per gli eventuali rapporti negoziali perfezionati dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, ma anche per i rapporti che, seppure sorti in data antecedente, si sono protratti oltre l’entrata in vigore della medesima norma.

In entrambi i casi, invero, la disposizione interpretativa del 2010 costituisce parametro normativo di riferimento per definire negozialmente l’assetto di interessi delle parti, sia in caso di rapporti sorti successivamente che per quelli già sorti e destinati a protrarsi, potendo le parti, alla luce e tenendo conto proprio della scelta normativa di assoggettare al tributo anche i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione, rimodulare la regolazione negoziale delle commissioni al fine di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera la ricevitoria.

In questo ambito, invero, la solidarietà dell’obbligazione e la correlata possibilità di traslazione dell’imposta sono, infatti, destinate ad influire sulla stessa portata della regolazione negoziale delle commissioni tra le parti, che, anche quando i rapporti economici siano rimasti invariati, ossia non siano stati oggetto di modifiche o di nuovi accordi in conseguenza della L. n. 220 del 2010, assume, necessariamente, un valore di conformità e adeguatezza rispetto alla nuova configurazione legale del rapporto.

2.10 Orbene, considerato che oggetto di rilievo è la sola posizione della società bookmaker, le complessive censure, anche a prescindere dai profili di inammissibilità delle doglianze in quanto articolate sulla posizione del CTD anzichè su quella del bookmaker, sono infondate.

Invero, non può seguirsi la linea difensiva della ricorrente secondo cui l’obbligazione solidale del bookmaker privo di concessione, delineata dalla disposizione interpretativa del 2010, sarebbe da qualificarsi quale dipendente, con la conseguenza che, venendo meno la configurabilità della responsabilità principale della ricevitoria, correlativamente verrebbe meno anche quella dipendente del bokmaker.

Si è già evidenziato che la Corte costituzionale, con la menzionata pronuncia, ha chiarito che entrambi i soggetti (la ricevitoria e il bookmaker), partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione, sicchè entrambe svolgono l’attività gestoria delle scommesse.

Ed è proprio in tale prospettiva, infatti, che la pronuncia di incostituzionalità della disposizione interpretativa, se da un lato ha inciso sulla parte della stessa in cui ha configurato, per il periodo precedente all’entrata in vigore, la responsabilità della ricevitoria, non ha in alcun modo fatto venire meno la responsabilità del bookmaker privo di concessione.

2.11. Le considerazioni sopra espresse costituiscono i profili di fondo sulla cui linea deve ritenersi che le ragioni di censura prospettate sono infondate.

In particolare:

– è infondato il secondo motivo, con cui si fa leva sui principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle leggi, già esaminati da Corte Cost. n. 27/18.

Non può, in questo ambito, trovare fondamento l’ulteriore profilo di censura, pure prospettato nell’ambito del presente motivo di ricorso, relativo alla irragionevolezza della norma interpretativa nella parte in cui, prevedendo la imponibilità anche delle scommesse a quota fissa offerte con modalità transfrontaliera in assenza di concessione, non ha tenuto conto che il movimento delle suddette scommesse, proprio in quanto realizzate fuori sistema, non viene rilevato, sicchè la base imponibile viene determinata senza considerare il movimento netto reale, essendo le stesse escluse dalla formazione del movimento netto che determina l’applicazione delle aliquote, con la conseguenza che verrebbero applicate aliquote superiori a quelle che avrebbero dovuto applicarsi per legge.

Il profilo di censura è inammissibile per difetto di specificità, posto che parte ricorrente postula solo in astratto la circostanza che l’applicazione della disciplina di determinazione del movimento netto sul quale commisurare l’aliquota dell’imposta unica anche nel caso di scommettitore privo di concessione, avrebbe determinato l’applicazione dell’aliquota massima che diversamente, ove si fossero considerate anche le scommesse fuori sistema, non sarebbe stata applicata.

In realtà, rispetto al criterio di commisurazione dell’aliquota secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4, comma 1, lett. b), n. 3), valevole per tutti i soggetti che svolgono l’attività di raccolta delle scommesse, in alcun modo parte ricorrente deduce o allega in ordine al fatto che l’eventuale considerazione delle scommesse “fuori sistema” avrebbe potuto incidere diversamente sulla determinazione dell’imponibile e sull’applicazione dell’aliquota operata dall’amministrazione doganale secondo le prescrizioni di legge;

– è inammissibile, il quinto motivo di ricorso, poichè, come già evidenziato in sede di esame del terzo motivo di ricorso, parte ricorrente prospetta la non corretta applicazione dell’aliquota massima, sotto il profilo della mancata richiesta al bookmaker estero della composizione delle scommesse effettuate nell’annualità oggetto di verifica, senza tuttavia specificare, come era suo onere, in che misura la eventuale considerazione delle scommesse “fuori sistema” avrebbe potuto incidere sulla individuazione della corretta aliquota da applicare;

– è infondato il sesto motivo di ricorso con cui si assume che la funzione gestoria postuli l’assunzione del rischio d’impresa, l’esercizio della funzione decisionale e organizzatoria in ordine alla fissazione degli eventi oggetto di scommessa, delle quote e dei criteri di accettazione e la titolarità del rapporto giuridico di scommessa con lo scommettitore, in base alle considerazioni che precedono in ordine all’accezione di gestione del ricevitore, come illustrata dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 27/18 e confermata dalla giurisprudenza civile e penale di questa Corte;

– è infondato il settimo motivo di ricorso, con cui si torna a sostenere l’irrilevanza dell’attività svolta dalla ricevitoria;

– è infondato l’ottavo motivo di ricorso, con cui si fa leva, in relazione al ricevitore, sulla conclusione del contratto di scommessa, perchè il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.); attività, queste, tutte svolte in Italia;

– è infondato il nono motivo di ricorso, là dove si sostiene che sia compatibile col principio di capacità contributiva soltanto un meccanismo d’imposizione che consenta di far gravare sui soli scommettitori l’onere del tributo, giacchè è, invece, il meccanismo di traslazione dell’imposta tra bookmaker e ricevitore a garantire l’osservanza del principio in questione;

– è infondato il decimo motivo, che prospetta l’incompatibilità dell’interpretazione retroattiva della norma interpretativa contenuta nella legge di stabilità per il 2011 con i principi dell’equo processo stabiliti dall’art. 6 CEDU. La compatibilità costituzionale dell’effetto retroattivo della legge in relazione all’art. 6 Cedu s’incentra sul rispetto del principio di affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico come specchio della ragionevolezza della legge; sicchè occorre che l’intervento legislativo con effetti retroattivi sia sorretto da motivi imperativi d’interesse generale (tra varie, Corte Cost., 13 luglio 2017, n. 176). Laddove nel caso in esame sussiste il motivo imperativo, proprio delle leggi interpretative, di sciogliere incertezze, giacchè, come si è anticipato, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 27/18, ha appunto riconosciuto alla L. n. 220 del 2010 la funzione di risolvere l’incertezza inerente all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3.

Va conseguentemente disattesa la richiesta di rimessione alla Corte costituzionale, manifestamente infondata.

3. Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 12, nonchè degli artt. 24 e 97 Cost. e del principio di necessità del contraddittorio endoprocedimentale.

In particolare, parte ricorrente lamenta che, a causa della mancata notifica nei suoi confronti del processo verbale di constatazione contenente gli esiti della verifica effettuata dall’amministrazione doganale presso i locali della ricevitoria, la stessa si era ritrovata investita di una corresponsabilità solidale relativa ad una obbligazione tributaria sorta nei confronti di un terzo senza avere avuto la possibilità di esporre le proprie ragioni prima che venisse emesso l’atto impositivo nei propri confronti.

3.1. Il motivo è infondato.

Invero, va osservato che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna poi ciò che si è constatato prima.

Per quanto la L. n. 4 del 1929, art. 24, preveda che “le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale”, tal onere di redazione, anche ove non sia assolto in forza della disposizione sopra richiamata, non impedisce in nessun caso l’emissione di avvisi di accertamento in base all’autonoma valutazione dell’amministrazione finanziaria alla luce del disposto della disposizione invocata dal ricorrente (Cass. civ., 29 dicembre 2017, n. 31120; Cass. civ., 11 dicembre 2013, n. 27711).

Del resto, il processo verbale previsto dall’art. 24 cit. può avere una molteplicità e complessità di contenuti e la legge non discrimina tra diversi mezzi di rappresentazione e differenti realtà rappresentate, così come tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazione. Sicchè, quale documento extraprocessuale, esso può avere sia un contenuto ricognitivo, sia un contenuto valutativo liberamente valutabile dall’amministrazione finanziaria, per cui deve escludersi, diversamente da quanto ritiene parte ricorrente, che la mancata notifica del verbale di constatazione redatto nei confronti della ricevitoria e non notificato alla parte ricorrente abbia rilevanza esterna tale da viziare, ove non redatto, l’atto successivo.

Con riguardo, poi, al profilo relativo alla partecipazione del contribuente al procedimento anteriormente all’emissione dell’avviso di accertamento, in ordine alla quale potrebbe porsi la questione della legittimità dell’avviso di accertamento notificato anteriormente al termine dl cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, questa Corte ha più volte precisato che il diritto generalizzato al contraddittorio sia adeguatamente tutelato (Cass. civ., 15 gennaio 2019, n. 701) dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (cd. Statuto del contribuente), nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività; esso opera una valutazione “ex ante” in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l’atto impositivo emesso “ante tempus”, anche nell’ipotesi di tributi “armonizzati”, senza che, pertanto, ai fini della relativa declaratoria debba essere effettuata la prova di “resistenza”, invece necessaria, per i soli tributi “armonizzati”, ove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., nel caso di accertamenti cd. a tavolino), ipotesi nelle quali il giudice tributario è tenuto ad effettuare una concreta valutazione “ex post” sul rispetto del contraddittorio.

Nel presente caso, è pacifico che, nei confronti della parte ricorrente, non era stata svolta alcuna attività di accesso, ispezione o verifica, soggetto peraltro non residente in Italia nè ivi dotato di stabile organizzazione.

4. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, anche in relazione alla L. n. 241 del 1990, art. 3, per non avere ritenuto che l’avviso di accertamento fosse carente di motivazione.

In particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame ha ritenuto che l’avviso di accertamento fosse motivato, ma in realtà lo stesso aveva motivato solo in modo apparente, senza che vi fosse allegato il processo verbale di constatazione e senza, in particolare, avere motivato in ordine alle ragioni per cui era stata applicata l’aliquota massima.

4.1. Il motivo è infondato.

Le prospettazioni di parte ricorrente si scontrano con l’accertamento in fatto, non censurabile in questa sede, compiuto dal giudice del gravame che, in relazione alla questione in esame, ha espressamente precisato che la motivazione era completa nella esposizione delle ragioni sulla cui base l’atto impositivo era stato emesso e, inoltre, ha evidenziato che “deve darsi atto che lo stesso PVC è stato oltre che richiamato, allegato all’avviso notificato ad SB quale responsabile in solido ed è stato dato conto del ricorso alla procedura del procedimento induttivo, per la mancata collaborazione con l’Amministrazione finanziaria da parte del soggetto verificato”. In sostanza, il giudice del gravame ha esaminato l’atto di accertamento ed ha espresso la propria valutazione in ordine alla sussistenza della motivazione sia in considerazione al contenuto che alla allegazione ad esso del processo verbale di constatazione, con la conseguenza che non può dirsi sussistente il vizio di violazione di legge prospettato dalla parte ricorrente.

In conclusione, è inammissibile il quinto motivo, sono infondati i restanti, con conseguente rigetto del ricorso.

L’intervento risolutore delle questioni, in epoca successiva alla proposizione del ricorso, ad opera della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia, giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2021

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