Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 9461 del 09/04/2021

Cassazione civile sez. I, 09/04/2021, (ud. 08/01/2021, dep. 09/04/2021), n.9461

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15697/2017 proposto da:

Simet S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Arno n. 6, presso lo studio

dell’avvocato Morcavallo Achille, che la rappresenta e difende,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.A.T. – Società Autolinee Tirreniche s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Dardanelli n. 46, presso l’avvocato Spinella Maurizio, rappresentata

e difesa dall’avvocato Celestino Ugo Luciano, giusta procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 523/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

del 14/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/01/2021 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Società Autolinee Tirreniche S.A.T. s.r.l. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Cosenza SEMET s.p.a. onde sentir dichiarare inopponibili gli atti di acquisto di sue quote, cedute da R. e C.R. il 20 gennaio e il 6 maggio 2010; la domanda si fondava sulla mancata espressione, da parte dell’assemblea dei soci, del necessario gradimento, come previsto dall’art. 10 dello statuto.

Il giudizio, in cui si costituiva SIMET, era definito con sentenza di rigetto della domanda attrice.

2. – Avverso detta decisione proponeva appello la società SAT; resisteva al gravame SIMET.

La Corte di appello di Catanzaro accoglieva l’impugnazione con sentenza pubblicata il 22 marzo 2017. Rilevava che, con la clausola statutaria, le parti avevano inteso subordinare l’ingresso di nuovi soci al consenso della maggioranza dei titolari delle quote e che tale consenso non concerneva la verifica della correttezza del procedimento connesso all’esercizio del diritto di prelazione, “stante la evidente diversità dei presupposti e la diversa possibile forma di tutela”. Secondo la Corte distrettuale, poi, l’art. 10 dello statuto oltre a richiedere l’espressione di uno specifico consenso indicava “con nettezza la necessità di un provvedimento formale da adottare dall’organo statutario espressamente indicato”; osservava, in proposito, che la formalizzazione imposta si poneva “a tutela della necessità di consentire ai soci di poter adeguatamente formare il proprio convincimento ed esprimere le proprie determinazioni nel rispetto delle forme che presiedono all’estrinsecazione della volontà della compagine societaria e dei suoi componenti” e che non risultava ammissibile “qualsiasi forma di equipollenza che (tenesse) luogo del provvedimento formale, eventualmente passibile di impugnazione”.

3. – Avverso tale pronuncia SIMET ha proposto un ricorso per cassazione articolato in quattro motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso S.A.T..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2469 c.c., dell’art. 10 dello statuto societario, dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., oltre che l’omessa pronuncia su punti decisivi della controversia. Secondo la ricorrente la Corte di appello avrebbe omesso di considerare la ratio dell’art. 2469 c.c., il quale prevede la libera trasferibilità delle partecipazioni e avrebbe, altresì, mancato di avvedersi che la contraria disposizione eventualmente presente nell’atto costitutivo costituisce eccezione alla regola: aggiunge che la deroga a tale principio deve essere inequivocabilmente espressa nell’atto costitutivo. L’istante lamenta, inoltre, che non sia stata valorizzata la circostanza per cui i soci, “in relazione all’offerta di prelazione e di gradimento delle quote S.A.T. messe in vendita”, avevano chiesto una proroga di giorni trenta, decorsi i quali il destinatario della missiva, C.R., si sarebbe potuto ritenere libero di vendere le sue quote a SIMET.

Il motivo va nel complesso disatteso.

La sentenza non contiene alcuna affermazione che contravvenga al principio, contenuto nell’art. 2469 c.c., comma 1, secondo cui le partecipazioni delle società a responsabilità limitata sono liberamente trasferibili, salvo contraria disposizione dell’atto costituivo. La pronuncia ha piuttosto rinvenuto nell’art. 10 dello statuto societario la previsione di una subordinazione del trasferimento della quota al gradimento di un organo sociale: fattispecie – questa – specificamente presa in esame dal cit. art. 2469, comma 2. In ciò il motivo mostra di non cogliere la ratio decidendi della pronuncia impugnata: e va qui rammentato che la censura proposta col ricorso per cassazione deve avere, a pena di inammissibilità, specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125). La comunicazione dei soci di S.A.T. avente ad oggetto la proroga del termine per l’esercizio del diritto di prelazione non integra, poi, un fatto decisivo su cui la Corte di appello abbia omesso di motivare: tale circostanza è stata infatti considerata implicitamente irrilevante, nella prospettiva, assunta dal giudice del gravame – su cui si tornerà trattando del secondo e del terzo motivo – dell’assenza di equivalenza tra la delibera assembleare di cui all’art. 10 dello statuto e altre forme di manifestazione del gradimento dei soci di S.A.T. al subentro di terzi nella titolarità delle partecipazioni.

2. – Col secondo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 dello statuto societario, oltre che degli artt. 1362,1366 e 1363 c.c.. Viene osservato che l’approvazione assembleare costituiva modalità di articolazione dei meccanismi societari funzionale all’attivazione e alla verifica del procedimento di esercizio della prelazione sull’acquisto di quote; si sostiene che la disposizione statutaria affidava all’assemblea l’accertamento dell’insussistenza di ostacoli che avrebbero potuto frapporsi all’ingresso del cessionario nella compagine societaria: ostacoli dipendenti dalla violazione della disciplina della prelazione e dalla conseguente inefficacia della cessione della partecipazione sociale.

Il terzo mezzo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., u.c., degli artt. 10 e 23 dello statuto e l’omessa pronuncia su punti decisivi della controversia. Viene rilevato che l’art. 23 dello statuto societario prevede espressamente la liceità della deliberazione scritta dei soci, assunta su proposta di uno di questi. E’ lamentato, inoltre, che il giudice del gravame abbia arrestato il proprio convincimento al senso letterale delle parole, piuttosto che al complesso delle norme statutarie e che, inoltre, lo stesso non avesse valutato il comportamento tenuto da S.A.T. dopo il trasferimento delle partecipazioni sociali: in proposito viene ricordato come nelle sedute assembleari del 30 giugno e del 20 luglio 2010, in cui era rappresentata la totalità del capitale sociale, la ricorrente avesse regolarmente espresso il proprio voto e formulato richieste che erano state accolte dall’assemblea.

I due motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono inammissibili.

Deve anzitutto darsi atto che essi presentano un chiaro difetto di autosufficienza. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici si impone la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto, o della parte in contestazione, e ciò ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire (Cass. 3 settembre 2010, n. 19044; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 7 marzo 2007, n. 5273; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; nel senso, sostanzialmente conforme, che ove venga fatta valere la inesatta interpretazione di una norma contrattuale, il ricorrente per cassazione è tenuto, in ossequio al principio dell’autosufficienza del ricorso, a riportare nello stesso il testo della fonte pattizia invocata, al fine di consentirne il controllo al giudice di legittimità, che non può sopperire alle lacune dell’atto di impugnazione con indagini integrative: Cass. 8 marzo 2019, n. 6735; Cass. 11 luglio 2007, n. 15489). Il difetto di autosufficienza delle censure si ravvisa, in particolare, avendo riguardo all’art. 10, che si compone di 21 commi, di cui non ne risulta trascritto alcuno (pag. 11 del ricorso) e all’art. 23, di cui è riportato solo uno stralcio (pag. 13).

In secondo luogo, i due motivi di impugnazioni sollecitano un sindacato non consentito in questa sede. L’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce, difatti, in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile avanti al giudice di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381). Il sindacato di legittimità non può dunque investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito (Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465), nè le censure vertenti sull’interpretazione del negozio possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).

Nella specie, la Corte di appello, nell’interpretare la clausola, ha valorizzato il dato letterale, prevedendo la clausola che l’ammissione del nuovo socio dovesse essere “preventivamente approvata dall’assemblea con maggioranza assoluta” e ha inoltre spiegato come la disposizione statutaria, rispondente, a suo avviso, ad esigenze estranee a quelle che informavano la disciplina del diritto di prelazione, trovasse un fondamento logico nella “necessità di consentire ai soci di poter adeguatamente formare il proprio convincimento” e in quella possibilità di controllo, connessa alle deliberazioni assembleari, che si concreta nell’impugnazione dell’atto.

A fronte di tale motivazione, non vale proporre soluzioni ermeneutiche alternative: tanto più che le stesse mancano di misurarsi col rilievo, da ultimo richiamato, incentrato sulla volontà statutaria di far salvo il diritto di impugnazione dei soci di S.A.T.; non vale neppure addurre che nello statuto fosse contemplata la possibilità, da parte dei soci stessi, di esprimere per iscritto il loro consenso “al di fuori dell’adunanza assembleare” (secondo un modello che pare ricalcare l’art. 2479 c.c., comma 3), giacchè non è spiegato quale sarebbe la deliberazione su cui i soci sono stati invitati a pronunciarsi, nè è chiarito se una siffatta determinazione possa dirsi conforme alla norma statutaria (solo parzialmente riprodotta, si ripete); e non vale, infine, richiamare la condotta tenuta da S.A.T. dopo il trasferimento delle partecipazioni sociali, giacchè la ricorrente non indica in qual modo tale condotta possa elidere, sul piano interpretativo, il dato letterale desumibile dell’art. 10 dello statuto – che esige l’approvazione dell’ingresso del nuovo socio da parte dell’assemblea – e non precisa, quindi, in che modo possa concretamente prospettarsi, al riguardo, una errata applicazione del canone di cui all’art. 1362 c.c., comma 2.

3. – Il quarto motivo censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli art. 10 dello statuto, degli artt. 2469,2470 c.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c.. Viene osservato che l’ultimo capoverso del cit. art. 10 prevede l’inefficacia e l’inopponibilità della cessione delle quote come conseguenza della violazione delle disposizioni statutarie relative al diritto di prelazione, mentre nessuna disposizione dello statuto contempla l’inopponibilità alla società del trasferimento di quote quale conseguenza della mancata espressione del gradimento. Tale inopponibilità, secondo la ricorrente, non potrebbe d’altro canto desumersi in via di interpretazione dalla clausola relativa alla violazione del diritto di prelazione, giacchè, in base all’art. 2469 c.c. la libera trasferibilità della partecipazione societaria costituisce espressione di un principio di carattere generale e ogni deroga ad esso deve essere espressamente contenuta nell’atto costitutivo.

Il motivo è inammissibile.

Con esso si deplora che la sentenza impugnata non abbia tenuto conto della mancata previsione, nella disciplina statutaria, dell’inopponibilità (alla società) della cessione di quote a terzi per cui non è stato espresso il gradimento: ma lo si fa senza nemmeno trascrivere, nella sua interezza, il testo della disposizione che regola il detto gradimento (l’art. 10 dello statuto).

Per completezza, può aggiungersi che ove, come nel caso in esame, la norma statutaria prescriva che l’ammissione del nuovo socio debba essere “preventivamente approvata dall’assemblea con maggioranza assoluta” (cfr. la sentenza impugnata, a pag. 5), risulta integrata una delle ipotesi contemplate dall’art. 2469 c.c., comma 2, che contempla i casi in cui “l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte”: ipotesi che, all’evidenza, derogano al principio, espresso nel comma 1 cit. articolo, per cui “(l)e partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte”, fatta salva, appunto, “contraria disposizione dell’atto costitutivo”. Dopo di che, occorre registrare come si sia discusso, in dottrina, se la violazione della clausola di gradimento comporti l’inefficacia assoluta del trasferimento o la sua semplice inopponibilità alla società le cui quote sono state cedute e come, sul tema, la giurisprudenza di questa Corte abbia riconosciuto che la mancata espressione del consenso dei soci, espressamente richiesto dallo statuto della società a responsabilità limitata in caso di trasferimento di quote della società per atto tra vivi, renda il trasferimento della quota inefficace anche tra le parti del contratto di cessione: si è osservato, infatti, che, benchè, in linea generale, possa essere stabilito che il trasferimento della partecipazione societaria, a certi fini, sia efficace ed operante tra le parti indipendentemente dalla sua opponibilità alla società, “una simile evenienza deve escludersi nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto le quote di partecipazione ad una società a responsabilità limitata, in quanto le stesse non sono naturalmente destinate alla circolazione, e quindi la sua ricorrenza richiede che si accerti, in concreto, che le parti hanno voluto il trasferimento indipendentemente dalla opponibilità del contratto alla società e dalla possibilità per il cessionario di esercitare i diritti inerenti alla qualità di socio” (Cass. 30 settembre 2005, n. 19203). Il tema, nella fattispecie, non riveste, peraltro, un particolare interesse, dal momento che nella presente controversia si fa questione non della efficacia inter partes dei contratti di cessione delle quote, ma della possibilità di opporli a S.A.T.. E sotto tale aspetto la decisione assunta dalla Corte di Catanzaro, che ha escluso l’opponibilità dei negozi di trasferimento all’odierna ricorrente, non merita censura, giacchè la radicale inefficacia, anche tra cedenti e cessionaria, di tali negozi (che non poteva essere di certo accertata dai giudici di merito, i quali non ne sono stati richiesti, e avanti ai quali non sono stati evocati i soci che disposero delle loro quote) non esclude affatto – ma anzi conferma – che i negozi stessi erano privi dell’attitudine di spiegare effetto nei confronti dell’odierna controricorrente.

4. – Il ricorso è dunque respinto.

5. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2021

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