Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6394 del 09/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/03/2021, (ud. 24/11/2020, dep. 09/03/2021), n.6394

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 9516/2015 R.G. proposto da:

DIDASCA – The First Italian Cyber Schools for Lifelong Learning,

rappresentata e difesa dagli Avv.ti Giuseppe Romualdi e Cristina

Della Valle, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma via

Merulana n. 234, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via

dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 4966/2/14, depositata in data 25 settembre 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24 novembre 2020

da Cons. Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Giacalone Giovanni, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Udito l’Avv. dello Stato Gianna Galluzzo per l’Agenzia delle entrate,

che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate, a seguito di verifica fiscale, emetteva nei confronti dell’associazione DIDASCA – The First Italian Cyber Schools for Lifelong Learning (di seguito DIDASCA) avviso di accertamento ai fini Iva, Ires e Irap per l’anno 2007 per l’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali e l’omessa fatturazione di operazioni imponibili, irrogando le conseguenti sanzioni.

L’Ufficio, in particolare, contestava all’associazione, in concreto retta dai soli componenti del consiglio direttivo, la cui composizione era rimasta invariata nel tempo, la sostanziale natura commerciale dell’attività svolta, la mancanza di vita associativa e la carente democraticità della gestione.

L’impugnazione della contribuente, che contestava la fondatezza della pretesa, deducendo di aver effettuato esclusivamente attività istituzionale rivolta ai soci, era rigettata dalla CTP di Sondrio. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.

DIDASCA propone ricorso per cassazione con sei motivi, cui l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente motivazione, nonchè violazione degli artt. 111 Cost., art. 132 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 per aver la CTR omesso di pronunciare sul contestato vizio della sentenza di primo grado, mera “fotocopia (tranne che per le date e gli importi contestati dall’Ufficio)” della diversa sentenza n. 67/1/12 della CTP di Sondrio, relativa alla ripresa per l’anno 2006.

1.1. Il motivo è inammissibile e per più ragioni.

1.2. La censura, in primo luogo, è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Non è chiaro, infatti, se sia denunciato un vizio di motivazione od un errore di diritto e, in tal caso, se sia dedotto un vizio di omessa motivazione o, come pare emergere dall’articolazione della censura, di omessa pronuncia.

1.3. Il motivo, inoltre, è carente in punto di autosufficienza, non avendo la ricorrente riprodotto nè l’atto d’appello, contenente l’asserita contestazione, nè la sentenza di primo grado (di cui si eccepiva la nullità).

1.4. La censura, in ogni caso, difetta di interesse, avendo la CTR compiutamente esaminato il merito delle questioni.

2. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 6, per aver la CTR ritenuti irragionevoli ed eccessivi i compensi percepiti dai componenti del comitato direttivo della DIDASCA, tali da aggirare il divieto di distribuire utili, senza confrontarsi con il disposto di tale norma, trattandosi di importi erogati a titolo di retribuzione delle prestazioni svolte, in sè inferiori a quelli corrisposti al personale dell’area dirigenziale e comparabili a quelli previsti per i quadri d’azienda.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La censura, pur formulata come violazione di legge, attinge in realtà, e in termini solo parziali, la motivazione della sentenza impugnata e, anzi, la stessa valutazione operata dalla CTR delle risultanze probatoria acquisite in giudizio, in una prospettiva di non condivisione delle scelte interpretative e di una revisione del giudizio di fatto.

2.2. Privo di ogni rilievo, in primo luogo, è il richiamo al disposto di cui al D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 6.

In punto di diritto, occorre sottolineare che la norma invocata fonda una presunzione di distribuzione indiretta per una serie di casi, tra i quali alla lett. e) prevede la corresponsione ai dipendenti di compensi superiori del 20% a quelli previsti dai contratti collettivi.

Il superamento di tale soglia comporta in sè, dunque, l’esclusione del regime di favore. L’eventuale mancato superamento, tuttavia, non prova il contrario, nè può essere invocato per ritenere congrua e corretta automaticamente l’erogazione dei compensi ove – con valutazione di fatto da parte del giudice di merito – dal complesso degli elementi emerga che l’ente svolga in concreto una attività commerciale e la corresponsione delle somme percette sia sproporzionata e sostanzialmente ingiustificata sì da assorbire la gran parte dei proventi, distogliendoli dai fini istituzionali e rivelando, per contro, l’effettiva finalità lucrativa dell’ente, orientata all’utile (nella specie, dei soci fondatori componenti del comitato direttivo).

2.3. Orbene, la CTR, con accertamento in fatto, congruamente motivato e in sè non censurabile, ha ritenuto che DIDASCA ha operato come ente commerciale sottolineando “l’obbiettiva constatazione dell’esistenza da un lato di ingenti ricavi (per oltre 1,5 milioni di Euro) non derivanti dall’attività associativa vera e propria (le cui quote versate dagli iscritti ammontano all’esigua somma di Euro 56.000,00), bensì da quella di intermediazione” – tra l’AICA, fornitrice dei servizi e delle prestazioni, e i Centri accreditati, erogatori delle stesse agli associati, che “introitano i corrispettivi, trattenendo la quota di spettanza” e versando la differenza a DIDASCA -i cui proventi derivavano “in massima parte” “da attività non collegate se non indirettamente con gli scopi istituzionali” ed “erano reimpiegati non già, o quantomeno in prevalenza, nell’attività senza scopo di lucro, se non in misura marginale e “di facciata” ma consistevano in veri e propri avanzi o utili, ridistribuiti in forma di compensi ai 5 soci fondatori e componenti del comitato direttivo, per incarichi non meglio precisati, nonchè al di fuori da ogni comprovato legame negoziale con l’associazione” e ciò “al di fuori di ogni manifesto criterio di proporzionalità, con gli incarichi, del tutto generici, asseritamente conferiti, per nulla documentati nè di fatto comprovati nel loro oggetto”.

Da tale complesso di elementi e circostanze, il giudice d’appello ha concluso, in termini logici e congrui, che “si è aggirato il divieto di distribuire anche indirettamente gli avanzi di gestione e gli utili”, restando, da un lato, esclusa la prevalenza dell’attività culturale e, dall’altro, provata “la prevalenza di quella commerciale, non finalizzata agli scopi istituzionali”.

2.4. La CTR, inoltre, in coerenza con il dettato normativo, ha specificamente apprezzato anche l’ammontare dei compensi, rilevando che le contestazioni, oltre che generiche, non erano “in grado comunque di smentire, anche con l’inclusione, nel loro ammontare, dei contributi previdenziali ed assicurativi, l’obbiettiva irragionevolezza di compensi così elevati ai propri soci e collaboratori, nell’ambito di un’associazione che si professa non profit”.

E’ appena il caso di sottolineare, sul punto, che proprio in forza della erogazione dei compensi de quibus l’associazione era, nel rendiconto annuale, costantemente in perdita, il cui azzeramento era operato attingendo dal fondo patrimoniale, alimentato dalle sole tessere associative.

3. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione dell’art. 167 Dir. n. 2006/112/CE e del D.L. n. 1 del 2012, art. 93 conv. nella L. n. 27 del 2012, nonchè della sentenza della Corte di Giustizia 7 novembre 2013, nelle cause riunite C-249 e C250/12 per aver la CTR negato lo scorporo dai ricavi dell’Iva in essa contenuta, dovendosi considerare l’importo riscosso dal cliente finale comprensivo dell’Iva.

3.1. Il motivo è infondato.

Occorre premettere che la contribuente non ha scientemente applicato l’Iva alle prestazioni in giudizio, avendo operato sul presupposto, erroneo, di non essere soggetta al relativo regime, sicchè il corrispettivo ricevuto non includeva, ab origine, l’imposta.

Ciò precisato, va rilevato che l’invocata sentenza della Corte di Giustizia (sentenza 7 novembre 2013, nelle cause riunite C-249/12 e 250/12, Corina-Hrisi Tulicà, p. 37 e 43) ha cura di precisare che il prezzo pattuito deve ritenersi già comprensivo dell’Iva solo “nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’Iva riscossa dall’amministrazione tributaria”, facoltà che, invece, nel nostro ordinamento è riconosciuta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, u.c., che prevede:

“Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”.

Si tratta di disposizione applicabile nella fattispecie in giudizio, riguardando la norma gli accertamenti divenuti definitivi a far data della sua entrata in vigore (ossia dal 24 gennaio 2012), condizione che qui, in evidenza, ricorre, trattandosi di accertamento oggetto di impugnazione.

4. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione dell’art. 53 Cost., art. 17 e ss Dir. n. 77/388/CEE e art. 16, lett. a) e 178 lett. a) Dir. n. 2006/112/CE, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 per aver la CTR negato la detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti documentati.

4.1. Il motivo è inammissibile per novità della questione di cui non v’è traccia nella sentenza; nè la relativa censura risulta riprodotta in ricorso, neppure essendo stato indicato dove e quando essa sia stata sottoposta al giudice di merito (ex multis v. Cass. n. 8206 del 22/04/2016), denunciando, nel caso, il diverso vizio di omessa pronuncia.

La doglianza, peraltro, difetta di autosufficienza anche sotto il profilo del merito, avendo la ricorrente omesso di specificare e riprodurre la documentazione relativa ai dedotti acquisti.

5. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione dell’art. 99, comma 1, tuir, per il mancato riconoscimento della deducibilità del costo relativo all’Iva esclusa dalla rivalsa.

5.1. Pure tale motivo, come il precedente, è inammissibile per novità della questione, che, in alcun modo trattata nella sentenza impugnata, risulta dedotta per la prima volta in sede di legittimità. Valgono, sul punto, i rilievi già espressi al punto 4.1.

5.2. Occorre rilevare, comunque, che per l’Iva è normativamente prevista la rivalsa, il cui mancato esercizio, con riguardo a fattispecie di recupero dell’imposta su accertamento, non è – come evidenziato in relazione al terzo motivo – precluso D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 60, u.c., (ove ne sussistano i presupposti in fatto e diritto), da cui l’indeducibilità dell’imposta ai fini della determinazione del reddito d’impresa.

6. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6 per aver escluso la CTR l’inapplicabilità delle sanzioni nonostante l’ente avesse, in buona fede, ritenuto di operare come ente non commerciale, non potendosi considerare equivalente la condotta “di chi ha seguito una determinata normativa” e quella “di chi ha violato le prescrizioni con l’intento di evadere il fisco”.

Deduce, inoltre, la sussistenza di una situazione di obbiettiva incertezza normativa.

6.1. Il motivo, al di là della genericità e indeterminatezza dello stesso, è infondato.

6.2. Secondo il consolidato orientamento della Corte, infatti, “in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. E’ comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza” (v. da ultimo Cass. n. 2139 del 30/01/2020).

Orbene, da un lato la contribuente non ha provato – come era suo onere – di aver tenuto una condotta diligente, mentre, dall’altro, la CTR ha escluso, alla stregua delle complessive risultanze del giudizio, che il contribuente sia incorso in errori inevitabili, non sussistendo “alcuna obbiettiva incertezza circa la natura della suddetta attività, alla luce dei riscontri e delle modalità di svolgimento della stessa da parte dell’associazione”.

7. Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese sono liquidate, come in dispositivo, per soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessive Euro 10.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2021

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