Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4090 del 16/02/2021

Cassazione civile sez. II, 16/02/2021, (ud. 12/11/2020, dep. 16/02/2021), n.4090

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21435-2019 proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANTONIO FRATERNALE

ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in PESARO, VIA

CASTELFIDARDO 26;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è

domiciliato;

– resistente –

avverso il decreto n. 7746/2019 del TRIBUNALE di ANCONA, depositato

in data 12/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2020 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.S. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, della protezione umanitaria.

Sentito dalla Commissione Territoriale, il richiedente aveva riferito di essere cittadino del Bangladesh; che nel suo villaggio due gruppi si contendevano un terreno e che egli appoggiava uno dei due gruppi; che in seguito a uno scontro importante la Corte Suprema aveva avviato un’inchiesta; che era stato accusato dal gruppo rivale di aver ucciso un uomo, per cui la polizia era andata a cercarlo; per paura di essere arrestato era fuggito; il gruppo rivale aveva razziato la sua abitazione; temeva in caso di rimpatrio di essere arrestato dalla polizia per l’accusa presentata nei suoi confronti.

Con decreto n. 7746/2019, depositato in data 12.6.2019, il Tribunale di Ancona rigettava il ricorso, ritenendo che le dichiarazioni del ricorrente restassero confinate nei limiti di una vicenda attualmente rientrata, come rilevabile dalla circostanza che il ricorrente ritornava nel villaggio d’origine, si sposava e solo dopo decideva di espatriare per poter raccogliere il denaro necessario per pagare la dote di sua moglie al suocero, in base a un patto raggiunto con lo stesso che prevedeva il pagamento differito; pertanto, il ricorrente era espatriato per esigenze di tipo socio-economico, in quanto nel ricorso era evidenziato il timore personale relativo alla necessità di sostenere la famiglia d’origine. Sulla situazione del Bangladesh, dalle fonti internazionali risultava che non vi fosse un’esplicita affermazione di persecuzioni generalizzate sia da parte dello Stato, sia da parte di soggetti non statali. Il Tribunale rigettava la domanda di protezione internazionale, in quanto il ricorrente non aveva allegato di essere affiliato politicamente nè di appartenere a una minoranza etnica e/o religiosa o di altro tipo, oggetto di persecuzione: i fatti riferiti dal ricorrente, in assenza di atti persecutori diretti e personali, non erano riconducibili alle previsioni di cui alla Convenzione di Ginevra. Anche la protezione sussidiaria non poteva essere riconosciuta non ricorrendo nessuno dei requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b): infatti, non emergevano circostanze fondate tali da ritenere che il ricorrente potesse essere sottoposto a pena capitale o a trattamenti inumani o degradanti nel Paese d’origine, nè che le temute ripercussioni in caso di rimpatrio integrassero i presupposti del cd. danno grave in relazione alle possibili conseguenze secondo l’ordinamento straniero, anche tenuto conto che nel Paese di provenienza erano presenti istituzioni in grado di proteggerlo. Non poteva configurarsi neppure l’ipotesi di cui all’art. 14, lett. c) (violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato), tenuto conto della situazione aggiornata del Bangladesh. Infine, anche la domanda di protezione umanitaria doveva essere respinta, in quanto nel Paese di provenienza del ricorrente esistevano strumenti istituzionali con funzione di protezione dei propri membri e in quanto era insussistente una generale condizione di elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio, tenuto conto dell’inesistenza di problematiche soggettive come quelle tipizzate dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. a-d; con riferimento alla valutazione prognostica dell’elevata vulnerabilità determinata per effetto dello sradicamento del richiedente dal contesto socioeconomico nazionale, si precisava che il contratto era scaduto e risultava in atti solo un cedolino paga, il che induceva a considerare insussistente un rapporto di lavoro che fosse indice univoco di un’integrazione lavorativa; si precisava che l’integrazione sociale fosse il risultato di un percorso di socializzazione che non si esauriva in meri attestati di partecipazione e tessere di affiliazione, bensì involgeva globalmente la formazione linguistica, l’accesso all’istruzione, la disponibilità di un alloggio, il ricongiungimento familiare, l’informazione sui diritti e doveri individuali e sul dialogo all’interno del Paese ospitante.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione M.S. sulla base di tre motivi. Il Ministero dell’Interno si è costituito tradivamente al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione, falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, là dove il Tribunale omette ogni riferimento specifico alla vicenda personale narrata dal ricorrente (motivazione apparente) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4 e 5”; osservando che il Tribunale di Ancona, in merito alla richiesta di protezione sussidiaria, focalizza l’attenzione solo su una parte del narrato del ricorrente (matrimonio e dote) omettendo qualsivoglia motivazione e riferimento alla parte relativa agli scontri, all’accusa di omicidio e ai rischi in caso di rimpatrio. Tutta la motivazione è generica e formata da frasi stereotipate; e le stesse considerazioni valgono anche per la richiesta di protezione umanitaria.

1.2. – Con il secondo motivo, il richiedente deduce la “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9, là dove viene compiuta una valutazione della domanda di protezione sussidiaria in base a generiche informazioni sulla situazione interna del Bangladesh senza considerazione completa delle prove disponibili e senza corretto esercizio dei poteri officiosi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3”; limitandosi il Tribunale alla acritica citazione di generiche fonti internazionali, omettendo di compiere il proprio dovere officioso di indagine e di acquisizione documentale in modo che ogni domanda venisse esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul Paese d’origine del ricorrente.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i motivi primo e secondo vanno esaminati e decisi congiuntamente. Essi sono inammissibili.

2.1. – Questa Corte ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. n. 16925 del 2018).

Il disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b), non può essere inteso nel senso di imporre l’analitica valutazione di ciascun documento prodotto al giudicante, il quale, al contrario, è tenuto a enunciare le ragioni del proprio convincimento senza tuttavia dover passare in rassegna ciascuna delle prove offerte dal richiedente asilo ed effettuare una precisa esposizione di tutte le singole fonti di prova e del loro specifico peso probatorio; la stessa norma, al comma 5, detta i criteri di procedimentalizzazione legale della decisione in merito alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ma non prescrive una valutazione, separata e prioritaria, dei documenti prodotti dal migrante; al contrario, il giudicante è tenuto a un apprezzamento globale della congerie istruttoria raccolta, cosicchè anche in questa materia la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è obbligato a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie ma deve soltanto fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.

2.2. – Come inoltre precisato (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”.

2.3. – Nel caso di specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione dei principi sopra enunciati, ha indicato gli elementi, di interna incoerenza e di contraddittorietà, ritenuti decisivi per il vaglio di non credibilità.

Quanto alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, vero è che nella materia in oggetto costui abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. n. 25534 del 2016). Inoltre, si è ulteriormente chiarito (Cass. n 27593 del 2018) che “n tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati”, cosicchè “la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, che deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5 lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (cfr. anche, Cass. n. 27503 del 2018 e Cass. n. 29358 del 2018).

In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo in cui la cooperazione istruttoria si colloca non già sul versante dell’allegazione, ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata, cosicchè solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (Cass. n. 17069 del 2018). Sicchè, (Cass. n. 29358 del 2018), una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente.

2.4. – Anche di recente (cfr. Cass. n. 11925 del 2020), si è comunque affermato che “la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese; sicchè, il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

2.5. – Nella specie, risultano esaminati tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente ed il Tribunale ha motivatamente concluso per la non credibilità del racconto del medesimo.

Quanto poi alla situazione di asserita violenza indiscriminata in Bangladesh, il Tribunale ha esaminato la situazione generale del Paese suddetto, escludendo la ricorrenza di una situazione di violenza indiscriminata. Le suddette valutazioni costituiscono apprezzamenti di fatto rimessi al giudice del merito e la motivazione della sentenza impugnata è sorretta da un contenuto non inferiore al minimo costituzionale, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. un., n. 8053 del 2014; Cass., sez. un., n. 22232 del 2016).

La nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere allora interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “I”esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30:105 del 2018).

2.6. – Peraltro, nel caso concreto, i fatti allegati nel giudizio di merito non appaiono diretti a focalizzare l’attenzione solo su una parte del narrato del ricorrente (matrimonio e dote), omettendo qualsivoglia motivazione e riferimento alla parte relativa agli scontri, all’accusa di omicidio e ai rischi in caso di rimpatrio.

Ove mai configurabile, d’altronde, non opponendosi quelle “violenze indiscriminate”, derivanti da un conflitto armato interno o internazionale, comunque risolvibile mediante il ricorso alla giustizia ordinaria. E ciò, senza neppure trascurare che una interpretazione la quale, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai “soggetti non statuali”, assurga le controversie tra privati (o la mancata o inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE), oltre ad essere poco sostenibile sul piano sistematico (Cass. n. 9043 del 2019).

Nel caso concreto, dunque, il giudice di merito ha puntualmente valutato la situazione del paese di origine del richiedente, giungendo ad escludere la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), all’esito di un’articolata analitica valutazione desunta (come detto) da siti internazionali accreditati, senza peraltro che il ricorrente abbia, in senso contrario, addotto altre idonee fonti.

Anche tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra detto) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

2.7. – In ordine, infine, alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine. Nella specie, il Tribunale territoriale non ha, in alcun modo, violato il suddetto principio nè è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (come detto, non applicabile ratione temporis alla fattispecie, non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019).

Questa Corte (Cass. n. 4455 del 2018; e successivamente Cass., sez. un., n. 29460 del 2019) ha infine precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

A tal riguardo il motivo appare ulteriormente inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, valutazione in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione, falsa applicazione ed errata interpretazione del D.L. n. 13 del 2017, artt. 1 e 2, nonchè dell’art. 276 c.p.c., là dove il Giudice avanti al quale si è tenuta la discussione e che si è riservato la decisione risulta essere un GOT non facente parte della sezione specializzata e non facente parte del Collegio giudicante, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”, poichè la decisione impugnata sarebbe affetta da nullità, in quanto emessa dal Collegio che non aveva partecipato all’udienza di comparizione delle partii e discussione, con ciò determinandosi la violazione dell’art. 276 c.p.c. e quindi il vizio di costituzione del Giudice. Il Tribunale avrebbe violato anche il D.L. n. 13 del 2017, artt. 1 e 2, che prevede l’istituzione di sezioni specializzate con Giudici competenti in materia di immigrazione, allorquando fa discutere la causa innanzi a un GOT non facente parte di detta sezione. Tali censure troverebbero fondamento in una lettura costituzionalmente orientata della disciplina del procedimento concernente la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, considerando che D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 11, lett. a), come modificato dal D.L. n. 13 del 2017, sarebbe svuotato di ogni significato se l’udienza con l’audizione del richiedente venisse svolta da un Giudice che non fa parte delle sezioni specializzate ed estraneo al Collegio giudicante.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – Questa Corte ha avuto già modo di affermare che, in tema di protezione internazionale, non è affetto da nullità il procedimento nel cui ambito un giudice onorario di tribunale abbia proceduto all’audizione del richiedente la protezione ed abbia rimesso la causa per la decisione al collegio della Sezione specializzata in materia di immigrazione (Cass. n. 3356 del 2019). Nell’occasione è stato ribadito il principio per cui, “quando un giudice onorario, appartenente all’ufficio giudiziario, decida una causa in materia che, secondo la ripartizione tabellare, sia sottratta alla sua potestà decisoria, il provvedimento non è nullo (salvo che si tratti di procedimenti possessori o cautelari ante causarn,, espressamente esclusi dal R.D. n. 12 del 1941, art. 43 bis), in quanto la decisione assunta dal g.o.t. in violazione delle tabelle organizzative dell’ufficio non incide sulla composizione dell’ufficio giudiziario, nè alcuna norma di legge prevede una siffatta nullità, configurandosi, invece, una semplice irregolarità”. Inoltre, sempre questa Corte (Cass. n. 466 del 2016) ha precisato che “il vice pretore onorario è un giudice previsto e regolato dalle norme sull’ordinamento giudiziario che può legittimamente sostituire il magistrato ordinario in tutte le sue funzioni, e dunque anche nell’espletamento dell’attività propria del giudice istruttore, senza che da ciò discenda la nullità degli atti dallo stesso compiuti, tenuto conto che il vizio di costituzione del giudice è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all’ufficio, non investita della funzione esercitata, e che le circolari con le quali il C.S.M. disciplina gli incarichi affidabili ai giudici onorari, quali fonti normative di secondo grado, non possono introdurre ipotesi di nullità processuali non previste dalla legge”.

3.3. – In materia di immigrazione, era stato affermato da questa Corte, che il decreto del G.O.T. che disponeva la proroga per un mese del trattenimento di uno straniero presso il locale centro di identificazione ed espulsione, non violando il D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 43-bis, che disciplina le attività delegabili ai giudici onorari, non fosse affetto da nullità” (Cass. n. 727 del 2013). Là dove era risultato che, davanti a lui, si fosse in effetti svolta un’udienza di trattazione, evidentemente in quanto delegato al compimento di specifiche attività, secondo il modello del c.d. “affiancamento” del magistrato onorario al magistrato professionale.

La cui scelta, a favore del modello di affiancamento per l’organizzazione della sezione che si occupa dei procedimenti relativi alla protezione internazionale, è stata peraltro indicata anche dalla delibera 15 giugno 2017 del Consiglio Superiore della Magistratura, nella quale si legge che, per quanto attiene ai procedimenti trattati collegialmente, i magistrati onorari possono essere inseriti nell’ambito di una struttura di supporto funzionale ad una pronta decisione dei procedimenti; ed è possibile prevedere che, nell’ambito della struttura dell’ufficio del processo, il giudice onorario possa coadiuvare il giudice professionale a supporto del quale la struttura organizzativa è assegnata. In particolare, sotto la direzione e coordinamento del giudice professionale egli può compiere tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giurisdizionale, provvedendo tra l’altro allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e alla predisposizione delle minute dei provvedimenti; e che, al fine di assicurare la ragionevole durata del processo, il giudice professionale può, poi, delegare al giudice onorario inserito in tale struttura compiti e attività, anche a carattere istruttorio, ritenuta dal medesimo magistrato togato utile alla decisione dei procedimenti.

3.4. – Il ricorrente si duole, anche in memoria, della violazione del disposto dell’art. 276 c.p.c., sull’immutabilità del giudice. Anche tale profilo della censura è infondato.

Invero, per orientamento consolidato di questa Corte (Cass. n. 4925 del 2015), l’art. 276 c.p.c., va interpretato nel senso che i giudici che deliberano la sentenza devono essere gli stessi dinanzi ai quali sono state precisate le conclusioni o si è tenuta l’udienza di discussione Cosicchè si è ritenuto ad es., che, in grado di appello, in base alla disciplina di cui al novellato art. 352 c.p.c., il collegio che delibera la decisione deve essere composto dagli stessi giudici dinanzi ai quali è stata compiuta l’ultima attività processuale (cioè la discussione o la precisazione delle conclusioni), conseguendone la nullità della sentenza nel caso di mutamento della composizione del collegio medesimo (Cass. n. 18268 del 2009), mentre s’è chiarito (Cass. n. 21667 del 2013) che non sussiste, nel rito ordinario del giudizio di appello, un principio di immutabilità del collegio prima che abbia inizio la fase della discussione, anche nel caso in cui la trattazione della causa si svolga in diverse udienze, atteso che mutamenti nella composizione del collegio sono consentiti fino all’udienza di discussione, in quanto solo da questo momento opera il principio che vieta la deliberazione della sentenza da parte di un collegio diversamente composto rispetto a quello che ha assistito alla discussione (ex multis Cass. n. 26820 del 2007; Cass. n. 11295 del 2009).

Nella sentenza n. 11581 del 2016, questa Corte ha ritenuto viziato, per violazione dell’art. 276 c.p.c., nel quale il giudice istruttore, all’udienza fissata ex art. 281 sexies c.p.c., si era riservato la decisione, e, a scioglimento della riserva, il Tribunale in composizione collegiale, aveva emesso l’ordinanza D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14, ritenuta nulla perchè emessa da Collegio che non aveva come tale partecipato all’udienza ex art. 281 sexies c.p.c..

Nella specie, invece, il Tribunale in composizione collegiale, davanti al quale si è svolta l’adunanza camerale, ex artt. 737 e ss. c.p.c. e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, è il medesimo che ha deliberato. Il G.O.T. aveva soltanto espletato un incombente istruttorio, rimettendo poi gli atti all’organo giudicante competente, che, all’esito di adunanza camerale, ha deciso il ricorso. Non vi è stata dunque una udienza di discussione, svoltasi davanti ad un giudice, scissa dalla fase deliberativa, svoltasi davanti ad altro giudice. Peraltro, risulta, dal verbale dell’udienza tenutasi davanti al G.O.T., che il difensore si era soltanto riportato agli atti difensivi ed il ricorrente, in questa sede, non spiega neppure quale pregiudizio al diritto di difesa sia derivato dall’asserito vizio processuale.

4. – Il ricorso va rigettato. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non ha svolto idonea attività difensiva. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2021

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