Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3443 del 11/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/02/2021, (ud. 23/10/2020, dep. 11/02/2021), n.3443

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8407/2017 R.G., proposto da:

Comune di Pero (MI), in persona del Sindaco pro tempore, autorizzato

ad instaurare il presente procedimento in virtù di deliberazione

adottata dalla Giunta Municipale il 21 dicembre 2016 n. 143,

rappresentato e difeso dall’Avv. Maurizio Fogagnolo, con studio in

Ivrea (TO), e dall’Avv. Guido Francesco Romanelli ed elettivamente

domiciliato presso l’Avv. Guido Francesco Romanelli, con studio in

Roma, giusta procura in calce al ricorso introduttivo del presente

procedimento;

– ricorrente –

contro

la “Parrocchia (OMISSIS)”, con sede in (OMISSIS), in persona del

Parroco pro tempore;

– intimata –

contro

la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di

Milano il 19 ottobre 2016 n. 5402/01/2016, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23

ottobre 2020 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

Il Comune di Pero (MI) ricorre per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 19 ottobre 2016 n. 5402/01/2016, non notificata, la quale, in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per l’I.C.I. relativa all’anno 2011 in relazione ad un fabbricato destinato a scuola dell’infanzia, ha accolto l’appello proposto dalla “Parrocchia (OMISSIS)” nei confronti del medesimo avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano il 25 novembre 2014 n. 10400/12/2014, con compensazione delle spese giudiziali. Il giudice di appello ha riformato la decisione di prime cure sul presupposto del riconoscimento alla contribuente dell’esenzione dall’I.C.I. ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 art. 7, comma 1, lett. i. La “Parrocchia (OMISSIS)” è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 53 e 54, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver rilevato l’inammissibilità del ricorso in appello a causa dell’errata indicazione degli elementi essenziali e dell’omessa esposizione dei motivi di gravame.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 117 Cost., comma 1, artt. 107 e 108 del Trattato dell’Unione Europea, nonchè del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, artt. 7, comma 1, lett. i, art. 11 preleggi e L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 1, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver escluso l’assoggettamento ad I.C.I. dell’immobile adibito a scuola dell’infanzia, a fronte della decisione adottata dalla Commissione dell’Unione Europea il 19 dicembre 2012.

3. Con il terzo ed ultimo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente riconosciuto i presupposti per l’esenzione dall’I.C.I. in relazione all’immobile sottoposto ad accertamento.

RITENUTO CHE:

1. Il primo motivo è infondato.

1.1 Secondo l’assunto dell’ente impositore, oltre ad essere stato indirizzato alla “Commissione Tributaria Provinciale di Milano”) ed essere finalizzato all’annullamento dell’avviso di accertamento (anzichè alla riforma della sentenza di primo grado), il ricorso in appello consisteva nella mera riproduzione dei motivi dedotti col ricorso originario, senza una specifica indicazione delle censure mosse alla sentenza di secondo grado.

1.2 Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, nel processo tributario la sanzione di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi, prevista dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, comma 1, deve essere interpretata restrittivamente, in conformità all’art. 14 preleggi, trattandosi di disposizione eccezionale che limita l’accesso alla giustizia, dovendosi consentire, ogni qual volta nell’atto sia comunque espressa la volontà di contestare la decisione di primo grado, l’effettività del sindacato sul merito dell’impugnazione (da ultime: Cass., Sez. 5, 15 gennaio 2019, n. 707; Cass., Sez. 5″, 21 luglio 2020, n. 15519).

Per cui, la totale mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, comma 1, determinano l’inammissibilità dell’appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benchè formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi ricavarsi, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto (in termini: Cass., Sez. 5, 21 luglio 2020, n. 15519).

Ne deriva che, anche nel processo tributario, l’atto con cui si propone l’impugnazione deve essere interpretato nel suo complesso, al fine di verificare la presenza di tutti gli elementi della domanda che siano prescritti sotto comminatoria di nullità o di inammissibilità (Cass., Sez. 5, 15 gennaio 2007, n. 687; Cass., Sez. 5, 17 luglio 2008, n. 19639).

In un’ottica di tendenziale conservazione degli atti processuali, invero, la mancanza di un requisito formale dell’atto di appello non può, di per sè, equivalere a difetto di impugnazione, se dal contesto dell’atto risulti, sia pur in termini non formali, una univoca manifestazione di volontà di proporre il gravame per quello specifico motivo o nei confronti di un determinato soggetto (Cass., Sez. Lav., 15 maggio 2003, n. 7585; Cass., Sez. 3, 15 novembre 2013, n. 25751; Cass., Sez. 5, 26 settembre 2014, n 20418).

Per cui, se è vero che, benchè l’appello in materia tributaria abbia carattere devolutivo pieno, le deduzioni dell’appellante devono essere svolte in contrapposizione alle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, di cui la parte non può disinteressarsi, limitandosi a riproporre al giudice di secondo grado le medesime testuali difese contenute nel ricorso introduttivo (in termini: Cass., Sez. 5, 20 gennaio 2017, n. 1461; Cass., Sez. 5, 22 febbraio 2017, n. 4558), resta, comunque, fermo che la riproposizione a supporto dell’appello delle ragioni inizialmente poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento impositivo (per il contribuente) ovvero della dedotta legittimità dell’accertamento (per l’amministrazione finanziaria), in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, le ragioni di censura siano ricavabili, seppur per implicito, in termini inequivoci (in termini: Cass., Sez. 5, 20 dicembre 2018, n. 32954).

1.3 Orbene, nel caso in esame, è avvenuto proprio quanto appena indicato, come pure emerge dalla stessa pronuncia impugnata.

Difatti, la Commissione Tributaria Regionale ha ben evidenziato come l’appellante avesse ribadito – con il gravame – le medesime ragioni di impugnazione originariamente proposte, che si ponevano in diretto ed oggettivo contrasto con le ragioni su cui era fondata la pronuncia impugnata, da cui promanava – per conseguenza necessaria – quell’intento critico che ha indotto ad esaminare nel merito le ragioni di censura, ben chiaramente identificabili (nella complessiva prospettazione dell’appello), ancorchè non precisamente dedotte.

2. Il secondo motivo ed il terzo motivo sono suscettibili di esame congiunto per la stretta ed intima connessione delle doglianze illustrate.

2.1 Il tema dell’esenzione prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, è stato recentemente affrontato da questa Corte con argomentazioni che, per ragioni di economia processuale, si ritiene di dover qui richiamare e ribadire per esteso, nelle parti coerenti con il thema decidendum, posto che se ne condivide integralmente l’impostazione (vedansi, in motivazione: Cass., Sez. 5, 27 giugno 2019, n. 17256; Cass., Sez. 5, 11 marzo 2020, n. 6795).

1.2 Secondo il richiamato orientamento, il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, nel testo vigente dall’11 gennaio 2003 al 3 ottobre 2005, disponeva l’esenzione dall’I.C.I. per “gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lett. c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”.

Tale disposizione è stata, in seguito, integrata e modificata dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005 n. 281, che aveva esteso l’esenzione alle attività indicate dalla medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse. Un’ulteriore modifica è, poi, intervenuta con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006, n. 248, che, sostituendo il comma 2-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7 cit., convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 281, ha stabilito che l’esenzione disposta dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera “che non abbiano esclusivamente natura commerciale”.

Le modifiche legislative suddette non si applicano retroattivamente, trattandosi di disposizioni che hanno carattere innovativo e non interpretativo (Cass., Sez. 5, 16 giugno 2010, n. 14530; Cass., Sez. 5, 15 luglio 2015, n. 14795). Occorre precisare, inoltre, che le condizioni dell’esenzione sono cumulative, nel senso che è richiesta la coesistenza, sia del requisito soggettivo riguardante la natura non commerciale dell’ente, sia del requisito oggettivo in forza del quale l’attività svolta nell’immobile deve rientrare tra quelle previste dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i; deve trattarsi, in particolare, di immobili destinati direttamente ed esclusivamente allo svolgimento di determinate attività, tra le quali quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana (Cass., Sez. 5, 8 luglio 2016, n. 13966). Con riguardo alla verifica del requisito oggettivo è, pertanto, irrilevante, la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi; tale elemento, costituendo una fase successiva, non fa, infatti, venir meno l’eventuale carattere commerciale dell’attività (Cass., Sez. 5, 20 novembre 2009, n. 24500).

Sotto il profilo della distribuzione degli oneri probatori è stato affermato, ed è un principio del tutto condiviso da questo collegio, che “il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza, in concreto, dei requisiti dell’esenzione, mediante la prova che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale” (Cass., Sez. 5, 2 aprile 2015, n. 6711).

Sul diverso versante della compatibilità della norma in esame con il diritto unitario, da tempo si è affermato un orientamento di legittimità secondo cui deve tenersi conto della decisione della Commissione dell’Unione Europea del 19 dicembre 2012. Sul punto, questa Corte ha verificato se il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, in tema di esenzione I.C.I., nelle sue diverse formulazioni succedutesi nel tempo, concretizzasse una forma di aiuto di Stato in violazione del diritto dell’Unione Europea, in particolare con l’art. 107, paragrafo 1, del Trattato, secondo il quale: “sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

E’ stato, poi, precisato che anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività economica, cioè offrire beni o servizi sul mercato. La finalità sociale dell’attività svolta non è, dunque, di per sè sufficiente ad escluderne la classificazione in termini di attività economica. Per escludere la natura economica dell’attività è necessario che essa sia svolta a titolo gratuito o dietro il versamento di un importo simbolico. Da tali rilievi consegue l’irrilevanza delle argomentazioni sulle finalità solidaristiche che connotano le attività svolte dalla parte contribuente Nè può tenersi conto della circolare emessa dalla Direzione Federalismo Fiscale presso il Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze il 26 gennaio 2009 n. 2/F, nella parte esplicativa dei criteri utili per stabilire quando le attività di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, debbano essere considerate di natura “non esclusivamente commerciale”.

La Commissione dell’Unione Europea ha ritenuto, infatti, che l’applicazione dei criteri di cui alla citata circolare non vale ad escludere la natura economica delle attività interessate ed ha concluso nel senso che l’esenzione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, costituisce aiuto di Stato. In quella ipotesi, tuttavia, non è stato ritenuto possibile ordinare il recupero delle somme.

Tale ultimo aspetto è stato di recente affrontato e risolto dalla sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 6 novembre 2018, cause riunite C-622/16 P – C-623/16 P, C624/16. E’ stato chiarito, infatti, che l’ordine di recupero di un aiuto illegale è la logica e normale conseguenza dell’accertamento della sua illegalità e che diversamente si farebbero perdurare gli effetti anticoncorrenziali della misura. In questo senso è stato precisato che le decisioni della Commissione dell’Unione Europea volte ad autorizzare o vietare un regime nazionale hanno portata generale.

Se ne è concluso, quindi, dando seguito al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 5, 12 febbraio 2019, n. 4066; Cass., Sez. 5, 12 aprile 2019, n. 10288; Cass., Sez. 6, 10 settembre 2020, n. 18831), che l’esenzione prevista in favore degli enti non commerciali dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i è compatibile con il divieto di aiuti di Stato sancito dalla normativa dell’Unione Europea solo qualora abbia ad oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica nei termini sopra precisati: cioè, quando l’attività sia svolta titolo gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico.

Per quanto riguarda il profilo soggettivo dei presupposti dell’agevolazione, che pure rileva nel caso in esame, va ricordato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale che si è venuto affermando nella giurisprudenza della Corte, l’esenzione spetta non soltanto se l’immobile è direttamente utilizzato dall’ente possessore per lo svolgimento di compiti istituzionali, ma anche se l’immobile, concesso in comodato gratuito, sia utilizzato da un altro ente non commerciale per lo svolgimento di attività meritevoli previste dalla norma agevolativa, al primo strumentalmente collegato ed appartenente alla stessa struttura del concedente (Cass., Sez. 5, 18 dicembre 2015, n. 25508; Cass., Sez. 5, 30 settembre 2019, n. 24308).

Viceversa, si è esclusa l’esenzione nel caso di “utilizzo indiretto” attraverso un diverso soggetto giuridico, ancorchè anch’esso senza finalità di lucro, allorquando non venga accertata l’esistenza di un rapporto di stretta strumentalità nella realizzazione dei suddetti compiti, che autorizzi a ritenere una compenetrazione tra di essi e a configurarli come realizzatori di una medesima “architettura strutturale” (Cass., Sez. 6, 23 luglio 2019, n. 19773).

Ed è questa la disposizione normativa (nell’interpretazione “Europeisticamente” orientata di questa Corte) da applicare ratione temporis alla fattispecie in esame, concernente il pagamento dell’I.C.I. per l’anno 2011, prima delle modifiche apportate dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 91-bis, convertito – con modificazioni – nella L. 24 marzo 2012, n. 27 e dal D.L. 28 dicembre 2013, n. 149, art. 11-bis, convertito – con modificazioni – nella L. 21 febbraio 2014, n. 13.

1.3 Posto in siffatti termini il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, occorre ora verificare se la destinazione dell’immobile a scuola dell’infanzia da parte dell’ente parrocchiale consenta di beneficiare dell’esenzione dall’I.C.I..

Secondo l’accertamento fattone dal giudice di appello, anche in forza di specifica convenzione con l’amministrazione comunale, l’ente parrocchiale si era impegnato “ad introdurre un sistema di retta di frequenza per fasce di reddito al fine di una più equa distribuzione dei costi a carico delle famiglie”, nonchè “ad accogliere e ad intervenire per l’assistenza a particolari casi di bisogno segnalati dai Servizi Sociali Comunali”, conseguendone che la predetta scuola dell’infanzia: poteva considerarsi paritaria rispetto alla scuola pubblica; organizzava il servizio secondo le prescrizioni dettate dalla L. 10 marzo 2000, n. 62; era obbligata ad applicare il principio di non discriminazione e ad accogliere portatori di handicap; applicava la contrattazione collettiva al personale scolastico e non scolastico; beneficiava dell’erogazione di contributi pubblici (comunali, regionali e statali); pubblicava il bilancio.

Inoltre, sul piano dell’economicità, è stato evidenziato che il corrispettivo medio (CM) percepito dalla scuola paritaria (Euro 2.541,43) non era superiore al costo medio per studente (CMS) per l’anno 2011 (Euro 5.739,17), secondo le risultanze della tabella redatta a cura del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

1.4 La sentenza impugnata ha messo in rilievo l’osservanza da parte dell’ente parrocchiale (per quanto in relazione ad un precedente periodo di imposta, essendo riferita l’1.C.I. all’anno 2011) dei limiti fissati in seguito dal D.M. 26 giugno 2014 (portante “Approvazione del modello di dichiarazione dell’IMU e della TASI per gli enti non commerciali, con le relative istruzioni”), nella cui redazione si è tenuto conto dei principi sanciti dalla decisione adottata dalla Commissione dell’Unione Europea il 19 dicembre 2012.

Ora, con particolare riguardo alle attività didattiche, la Commissione dell’Unione Europea ha stabilito che “queste si ritengono svolte con modalità non commerciali se sono soddisfatte alcune condizioni specifiche. In particolare, l’attività deve essere paritaria rispetto all’istruzione pubblica e la scuola deve garantire la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni; la scuola deve inoltre accogliere gli alunni portatori di handicap, applicare la contrattazione collettiva, avere strutture adeguate agli standard previsti e prevedere la pubblicazione del bilancio. Oltre a ciò, l’attività deve essere svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un importo simbolico, tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso. Al riguardo, la Commissione ricorda che, conformemente alla giurisprudenza, non costituiscono attività economica i corsi offerti da determinati stabilimenti che formano parte del sistema dell’istruzione pubblica e sono finanziati, del tutto o prevalentemente, con fondi pubblici. La natura non economica dell’istruzione pubblica non viene in linea di principio contraddetta dal fatto che talvolta gli alunni o i loro genitori debbano versare tasse scolastiche o di iscrizione, che contribuiscono ai costi di esercizio del sistema scolastico, purchè tali contributi finanziari coprano solo una frazione del costo effettivo del servizio e non possano pertanto considerarsi una retribuzione del servizio prestato. Come anche la Commissione ha riconosciuto nella comunicazione sull’applicazione delle norme dell’Unione Europea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la prestazione di servizi di interesse economico generale, tali principi riguardano la formazione professionale, la scuola elementare e gli asili nido privati e pubblici, l’attività d’insegnamento esercitata in via accessoria nelle università, nonchè l’offerta di istruzione universitaria. Alla luce di quanto precede, la Commissione ritiene che le rette di importo simbolico cui si riferisce il decreto non possano essere considerate una remunerazione del servizio fornito. Pertanto, nella fattispecie, considerati i requisiti generali e soggettivi di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento e i requisiti oggettivi specifici di cui all’art. 4, la Commissione ritiene che il servizio didattico fornito dagli enti in questione non possa essere considerato un’attività economica”.

1.5 Tali requisiti sono stati successivamente recepiti e confermati dalla normativa nazionale. Difatti, in ossequio alla previsione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 91-bis, comma 3, convertito – con modificazioni – nella L. 24 marzo 2012, n. 27, il D.M. 19 novembre 2012, n. 200, art. 4, comma 3, (portante regolamento in materia di I.M.U. per gli enti non commerciali) ha previsto che: “Lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se: a) l’attività è paritaria rispetto a quella statale e la scuola adotta un regolamento che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni; b) sono comunque osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, di applicazione della contrattazione collettiva al personale docente e non docente, di adeguatezza delle strutture agli standard previsti, di pubblicità del bilancio; c) l’attività è svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso”.

1.6 Le istruzioni per la compilazione del modello di dichiarazione a fini dell’I.M.U. per gli enti non commerciali (sempre in allegato al D.M. 26 giugno 2014) hanno chiarito che l’attività didattica è svolta con modalità non commerciali e, quindi, non è assoggettabile a imposizione allorquando il corrispettivo medio (in sigla, CM, il corrispettivo medio percepito dalla scuola paritaria, equivalente alla media degli importi annui che vengono corrisposti alla scuola dalle famiglie) è inferiore o uguale al costo medio per studente (in sigla, CMS, il costo medio per studente secondo la tabella ministeriale per l’anno di riferimento).

1.5 L’ente impositore ha contestato che la disciplina introduttiva di tali requisiti possa valere anche per l’I.C.I. relativa alle annate antecedenti alla sua entrata in vigore.

1.6 In realtà, si tratta di verificare se il giudice di merito abbia correttamente applicato il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, nel testo novellato, dapprima, dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 281, e, poi, dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006, n. 248, nell’accezione compatibile con la decisione adottata dalla Commissione Europea il 19 dicembre 2012 e con la sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 6 novembre 2018, cause riunite C-622/16 P – C-623/16 P, C-624/16, verificando che l’attività fosse stata svolta a titolo gratuito ovvero dietro versamento di un importo simbolico a copertura di una sola frazione del costo effettivo del servizio.

1.7 Sul punto, però, è palese la violazione dell’art. 11, comma 1, preleggi, essendo indiscutibile l’irretroattività della disciplina introdotta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito – con modificazioni – nella L. 24 marzo 2012 n. 27, dal D.M. 19 novembre 2012, n. 200 e dal D.M. 26 giugno 2014. Per cui, non si può estenderne l’efficacia normativa a fattispecie perfezionatesi in epoca antecedente alla sua entrata in vigore.

1.8 Alla luce di tali argomentazioni, è evidente che la Commissione Tributaria Regionale non si è attenuta ai principi enunciati, non ponendosi la questione – di cui non vi è traccia in motivazione – dei limiti temporali per l’applicazione della disciplina regolamentare al fine di valutare la sussistenza del requisito soggettivo e del requisito oggettivo per il riconoscimento del beneficio tributario.

1.9 Ne deriva l’esigenza di rinnovare tale accertamento alla luce del parametro vigente ratione temporis, verificando in fatto se la constatazione che il corrispettivo medio percepito dall’ente ecclesiastico fosse di gran lunga inferiore al costo medio per studente secondo la determinazione tabellare dell’anno di riferimento) sia sufficiente per desumerne che l’importo mediamente versato a titolo di retta da ciascun studente (pari ad Euro 2.541,43) sia idoneo a coprire soltanto una frazione (meno del 50%) del costo effettivo del servizio (pari ad Euro 5.739,17) e, quindi, costituisca, un corrispettivo simbolico per la remunerazione della prestazione scolastica.

1.10 Ed a tal fine il giudice di merito valuterà anche se i parametri predeterminati e standardizzati per stabilire che le attività didattiche siano svolte con modalità “non commerciali” – la cui osservanza da parte dell’ente ecclesiastico era stata erroneamente anticipata rispetto all’entrata in vigore del predetto regolamento in materia di I.M.U. – possano assumere, comunque, in via complementare, un valore sintomatico e presuntivo di tale qualificazione per il riconoscimento dell’esenzione da I.C.I. in relazione alle annate sottratte alla sua applicazione temporale, fornendo un indice privilegiato per l’interpretazione del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i.

2. Pertanto, apprezzandosi l’infondatezza del primo motivo e la fondatezza del secondo e del terzo motivo, il ricorso può essere accolto entro tali limiti e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il primo motivo; accoglie il secondo motivo ed il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2021

 

 

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