Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 975 del 20/01/2021

Cassazione civile sez. I, 20/01/2021, (ud. 16/09/2020, dep. 20/01/2021), n.975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 4457/2015 proposto da:

Avv. R.C., rappresentato e difeso da sè medesimo, ai sensi

dell’art. 86 c.p.c., con domicilio eletto presso il suo studio in

Roma, Viale Ettore Franceschini, n. 37;

– ricorrente –

contro

P.N., rappresentata e difesa dall’Avv. F.B. ed

elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via degli

Scipioni, n. 153, giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di ROMA n. 3961/2015,

pubblicata in data 1 luglio 2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/09/2020 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con sentenza n. 23900 depositata il 6 dicembre 2002, il Tribunale di Roma ha respinto la domanda di addebito reciprocamente proposta dalle parti nel giudizio di separazione giudiziale e ha determinato, con decorrenza dalla pronuncia, in Euro 500,00 mensili, oltre rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT, il contributo a carico del marito per il mantenimento della moglie, riconosciuta priva di mezzi sufficienti e tenuto conto della situazione economica del marito che aveva assunto che fin dal 1997 non aveva più svolto la professione di avvocato per doversi dedicare ai propri genitori.

2. R.C. ha proposto appello avverso la detta sentenza, insistendo per la pronuncia di addebito della separazione alla moglie e chiedendo la revoca dell’assegno di mantenimento o, in via subordinata, la riduzione ad Euro 200,00, mentre P.N. ha contestato le difese avversarie chiedendo il rigetto dell’appello.

3. La Corte di appello di Roma ha rigettato l’appello avanzato da R.C., ritenendo non assolto l’onere della prova sul nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e l’intollerabilità della convivenza e affermando che le indagini di polizia tributaria, seppure incomplete e non esaustive, avevano sostanzialmente confermato la mancanza di redditi in capo alla P. e la sua ridotta capacità lavorativa per le sue condizioni psichiche e l’inattendibilità delle dichiarazioni fiscali del R., avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori (con almeno quindi dodici anni di professione), con papà magistrato titolare di pensione adeguata a consentirgli di assumere una badante; titolare di curatele fallimentari e con la disponibilità dell’appartamento di proprietà del padre dove esercitava la professione.

4. Avverso detta sentenza R.C. ha proposto ricorso per cassazione svolgendo quattro motivi.

5. P.N. ha depositato controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo R.C. lamenta la violazione dell’art. 151 c.c. in relazione all’art. 183 c.p.c., commi 6 e 7, perchè la Corte territoriale aveva ritenuto la domanda di addebito sfornita di prova, ma non aveva ammesso i mezzi istruttori che lo stesso aveva articolato sulla sintomatologia ansiosa e depressiva della P. e sulle circostanze che la stessa non si occupava della spesa, era gelosa e aveva colpito il marito, il (OMISSIS), con uno schiaffo, graffiandolo anche sul viso.

2. Con il secondo motivo R.C. lamenta la violazione dell’art. 156 c.c., comma 2, in relazione anche all’art. 183 c.p.c., commi 6 e 7, sulla misura dell’assegno di mantenimento stabilita dalla Corte territoriale determinata sulla base di presunzioni e ritenuta eccessiva, avuto riguardo alle risultanze delle indagini di polizia tributaria che avevano accertato che lui non possedeva beni immobili o mobili e che la Corte non aveva disposto nuove indagini che avrebbero accertato che l’assicurazione sulla vita era in realtà un’assicurazione sugli infortuni nello studio non più operativa e che i fallimenti di cui era stato curatore erano incapienti e comunque erano stati chiusi prima del (OMISSIS).

Il ricorrente si duole, inoltre, della mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti anche al Tribunale che avrebbero dimostrato che il reddito ricavato dalla professione di avvocato era saltuario, precario e modesto e che aveva pochissimi clienti e che egli aveva anche dimostrato la correttezza delle denunce dei redditi depositate.

3. Con il terzo motivo R.C. lamenta la violazione dell’art. 156 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deducendo l’omesso esame dal fatto che il R. aveva a disposizione solo una stanza dell’appartamento di proprietà del padre e che viveva insieme al padre nell’appartamento dal genitore messogli a disposizione.

4. Con il quarto motivo R.C. lamenta la violazione dell’art. 156 c.c., comma 2, perchè la Corte territoriale non aveva valutato la disparità delle posizioni economiche tra i coniugi, non avendo determinato, neanche in maniera presuntiva, l’ammontare del reddito annuo del R..

4.1 Il primo e il secondo motivo vanno trattati unitariamente perchè inammissibili per la medesima ragione.

Si osserva, infatti, che il ricorrente non indica quale delle ipotesi, tra quelle tassativamente indicate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, viene dedotta, pur denunciando la violazione di plurime disposizioni normative (artt. 151 e 156 c.c. e 183 c.p.c.).

Il ricorrente, infatti, richiama nell’illustrazione dei motivi, parti della motivazione della sentenza impugnata e svolge contestazioni riguardo ad essa, ma non evidenzia in relazione a quale specifico vizio ed a quale specifica norma, che si assume violata o erroneamente applicata, omettendo di precisare le affermazioni in diritto della sentenza che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, genericamente richiamate nella intestazione del motivo, e senza ricondurre una specifica statuizione della sentenza alla violazione di una determinata norma, impedendo così a questa Corte di adempiere al suo compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass., 9 marzo 2012, n. 3721).

Nè è possibile, in ossequio al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, in assenza di ogni specificazione al riguardo da parte del ricorrente, ricostruire la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c..

4.2 Ed invero, come affermato da questa Corte, nel giudizio per cassazione, che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass., sez. U., 24 luglio n. 17931; Cass., 7 maggio 2018, n. 10862).

Le modalità di deduzione del vizio, nel caso di specie, non sono state rispettate poichè il ricorrente si è limitato a ribadire le medesime censure sollevate dinanzi alla Corte territoriale e a sovrapporre alle argomentazioni della Corte le proprie senza prospettare differenti profili argomentativi e non ha svolto, nella illustrazione dei motivi, con riferimento alle parti richiamate della motivazione della sentenza impugnata oggetto di censura contestazioni con la specificazione dei vizi e delle norme che ha assunto essere state violate o erroneamente applicate.

Per tale ragione i motivi sono inammissibili, in quanto risultano enunciati dal ricorrente senza la completezza necessaria a renderli idonei ad assolvere allo scopo di configurarsi come valide critiche alla sentenza impugnata.

5. Anche il terzo motivo è inammissibile.

Il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello ha omesso l’esame del fatto che aveva a disposizione solo una stanza dell’appartamento di proprietà del padre e del fatto che viveva insieme al padre nell’appartamento messogli a disposizione.

5.1 Con riguardo al vizio di omesso esame di un fatto decisivo, l’art. 360 c.p.c., comma 1, come riformulato dall’art. 54 decreto – L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 13 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, ovvero che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., 29 ottobre 2018, n. 27415).

5.2 Il fatto il cui esame sia stato omesso deve, come già detto, avere carattere decisivo, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia, e deve, altresì, essere stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero deve trattarsi necessariamente di un fatto controverso, contestato e non dato per pacifico tra le parti.

5.3 Ne consegue che il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale o extratestuale da cui esso risulti esistente, il “come” e “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora il fatto storico sia stato comunque preso in esame, anche se la sentenza non abbia dato atto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

5.4 Alla stregua dei principi tutti fin qui esposti il motivo in esame è inammissibile perchè il ricorrente non argomenta in ordine alla sua necessaria decisività, ciò che era necessario tenuto conto che la Corte di appello, oltre a rilevare che il R. aveva la piena disponibilità dell’appartamento ove esercitava la professione di proprietà del padre e messo a sua disposizione, ha anche specificato che il R. aveva svolto la professione di avvocato fin dal 1991; che la chiusura della partita IVA nel luglio 2007 era stata temporanea (peraltro in pendenza delle trattative per la separazione ed era stata riaperta dopo l’udienza presidenziale); che nel 2003 aveva acquisito la qualifica di avvocato abilitato al patrocinio innanzi alle magistrature superiori che richiedeva come requisito l’esercizio della professione di avvocato per dodici anni; che il padre era un magistrato a riposo che percepiva una pensione del tutto adeguata a consentirgli di assumere una badante e che la titolarità di curatele fallimentari, incarichi di norma ben retribuiti, richiedeva un’organizzazione adeguata.

Così addivenendo alla conclusione che erano emersi più elementi idonei a rendere non attendibili le dichiarazioni fiscali del R. e a far ritenere che il reddito conseguito fosse comunque superiore.

5.5 A ciò va aggiunto che la Corte ha anche esaminato la posizione della P. rilevando che la stessa era priva di redditi ed aveva una limitata capacità lavorativa anche in ragione delle sue condizioni psichiche e che, quindi, il divario economico esistente tra i coniugi giustificava il diritto al mantenimento disposto in suo favore in ragione del dovere di solidarietà fra i coniugi che perdura anche in costanza di separazione.

In proposito, questa Corte ha affermato che la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicchè i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass., 24 giugno 2019, n. 16809).

6. Il quarto motivo è infondato.

E’ orientamento di questa Corte, in tema di determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento, che la valutazione delle condizioni economiche delle parti non richiede necessariamente l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, nè la determinazione dell’esatto importo dei redditi posseduti attraverso l’acquisizione di dati numerici o rigorose analisi contabili e finanziarie, essendo sufficiente una attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi (Cass., 7 dicembre 2007, n. 25618; Cass., 5 novembre 2007, n. 23051; Cass., 12 giugno 2006, n. 13592).

I giudici della Corte di appello territoriale hanno correttamente applicato i superiori principi e hanno svolto una valutazione comparativa dei mezzi economici a disposizione di ciascun coniuge al momento della separazione, operando, alla luce delle acquisite risultanze processuali, una ricostruzione attendibile delle situazioni patrimoniali e reddituali di entrambi i coniugi.

7. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato.

Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione, nella misura liquidata in dispositivo.

8. Va disposta, in ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna R.C. al pagamento, in favore di P.N., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuna parte, in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del contridel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2021

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