Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 523 del 14/01/2021

Cassazione civile sez. II, 14/01/2021, (ud. 22/10/2020, dep. 14/01/2021), n.523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5017/2019 proposto da:

C.G., T.G., rappresentati e difesi

dall’avv.to MARIO FALLICA;

– ricorrenti –

contro

MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il

21/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/10/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso depositato dinanzi alla Corte d’Appello di Catania C.G. e T.G. proponevano opposizione avverso il decreto emesso dalla medesima Corte d’Appello, in composizione monocratica, che aveva rigettato la richiesta di condanna del Ministero della Giustizia all’equa riparazione per l’irragionevole durata di un procedimento esecutivo immobiliare avviato nei loro confronti con pignoramento immobiliare notificato il 28 gennaio del 1983 e definito con ordinanza del 26 luglio 2017 di improcedibilità della procedura esecutiva.

2. La Corte d’Appello con decreto del 21/11/2018 confermava il decreto opposto, ritenendo infondata l’opposizione.

In particolare, la Corte d’Appello rilevava l’infondatezza dei primi due motivi di opposizione con i quali si lamentava l’adesione all’interpretazione offerta dalla Corte di Cassazione secondo la quale il debitore esecutato doveva provare che l’irragionevole durata della procedura esecutiva avesse comportato il lievitare delle spese in misura tale da azzerare il residuo attivo e la restante garanzia generica, altrimenti capiente e, inoltre, si sosteneva che tale prova era stata data.

La Corte d’Appello dichiarava di aderire al suddetto orientamento della giurisprudenza di legittimità ed evidenziava che anche la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, aveva introdotto un meccanismo di presunzione di insussistenza del danno in relazione ai vantaggi conseguiti dalla parte per l’effetto dell’irragionevole durata del processo. Inoltre, evidenziava che non vi era alcuna prova dell’interesse dei ricorrenti alla celerità della procedura esecutiva avviata nei loro confronti. Il processo aveva avuto inizio con un atto di pignoramento immobiliare ad opera di un istituto di credito titolare di un mutuo fondiario e aveva visto il subentro della curatela a seguito della dichiarazione del fallimento personale nel 1992, nei confronti dei debitori esecutati. Il processo, poi, era stato sospeso a seguito di opposizione all’esecuzione spiegata dai medesimi poco prima che avesse luogo la vendita fissata per il 4 maggio del 2010 e si era concluso con l’ordinanza del 26 luglio 2017 con la quale era stata dichiarata l’improcedibilità dell’esecuzione, dando atto del venir meno del credito per essere stati i creditori soddisfatti in sede fallimentare. Risultava evidente che il protrarsi della procedura esecutiva avesse sortito per i debitori esecutati il vantaggioso effetto di evitare la vendita del compendio immobiliare di loro proprietà sottoposto a pignoramento, immobile del quale avevano infine ottenuto lo svincolo. Tra l’altro i medesimi debitori non avevano dato alcuna prova di disporre di un attivo pignorabile tale da consentire il soddisfacimento di tutti i creditori e il pagamento delle spese esecutive. Doveva dunque farsi applicazione della presunzione di insussistenza del danno da irragionevole durata del processo. Non vi erano ragioni di contrasto della norma con l’art. 6 CEDU e dunque non poteva raccogliersi la richiesta di disapplicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, o di rinvio pregiudiziale alla corte di Giustizia ex art. 267 TFUE o di sollevare questione di costituzionalità.

3. C.G. e T.G. hanno proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di due motivi di ricorso.

4. Il Ministero della Giustizia si è costituito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 septies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo i ricorrenti il dettato normativo di cui alla L. n. 89 del 2001, anche in relazione alla CEDU impone di considerare sempre ingiusto, e come tale risarcibile, il danno derivante dall’eccessiva durata del processo anche in relazione al debitore esecutato.

La corte territoriale avrebbe fatto cattivo governo della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 septies, entrato in vigore nel 2016 per escludere un diritto dei ricorrenti maturato dal 1986, anno in cui la procedura esecutiva iniziata nel 1983 avrebbe dovuto concludersi. Il giudice dell’opposizione avrebbe dovuto quantomeno riconoscere l’indennizzo fino a tutto il 2015. Il ricorrente inoltre ritiene che l’erronea interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità cui ha ritenuto di aderire la corte territoriale contrasti con giurisprudenza più risalente che ha affermato principi opposti e che sarebbe più conforme al diritto sovranazionale.

Il ricorrente, in ogni caso, ribadisce la richiesta di disapplicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, a favore dell’art. 6 paragrafo 1 CEDU. In alternativa chiede di sollevare rinvio pregiudiziale ex art. 267 trattato funzionamento dell’unione Europea o questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., con riferimento all’art. 6, paragrafo 1, CEDU.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza gravata.

Secondo il ricorrente vi sarebbe un contrasto irriducibile tra l’affermazione secondo la quale non vi era prova che l’attivo della procedura fosse tale da consentire il soddisfacimento dei creditori e il pagamento delle spese esecutive e quella in virtù della quale il giudice a quo ha ritenuto che all’esito della procedura esecutiva i creditori avessero avuto soddisfazione. Peraltro, l’abnorme durata del processo esecutivo avrebbe arrecato ingente danno ai debitori a causa anche degli interessi pagati. Infine, sarebbe meramente apparente la motivazione sul vantaggio derivante dall’irragionevole durata del processo non correlato al patema d’animo sopportato dai ricorrenti.

3. I due motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.

Il collegio intende dare continuità al seguente principio di diritto: “La presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo esecutivo non opera per l’esecutato, poichè egli dall’esito del processo riceve un danno giusto. Pertanto, ai fini dell’equa riparazione da durata irragionevole, l’esecutato ha l’onere di provare uno specifico interesse alla celerità dell’espropriazione, dimostrando che l’attivo pignorato o pignorabile fosse “ab origine” tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e da soddisfare tutti i creditori e che spese ed accessori sono lievitati a causa dei tempi processuali in maniera da azzerare o ridurre l’ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica, altrimenti capiente” (Sez. 6-2, Sent. n. 14382 del 2015). Il ricorrente non offre alcun argomento che consenta di superare l’indirizzo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità che deve essere confermato.

Nella specie la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione del suddetto principio di diritto rilevando, con ampia motivazione, la mancanza di prova della sussistenza di un interesse alla celerità della procedura esecutiva avviata nei confronti degli odierni ricorrenti, di qui l’infondatezza anche della seconda censura avente ad oggetto la mancanza di motivazione.

Infine, deve evidenziarsi l’inammissibilità per irrilevanza della richiesta di disapplicazione, di rinvio pregiudiziale o di sollevare questione di costituzionalità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 septies. Il principio di diritto sopra citato, infatti, si è consolidato anteriormente all’entrata in vigore della suddetta norma che ha una portata più ampia, sicchè la sua disapplicazione o declaratoria di incostituzionalità non avrebbe alcuna conseguenza nel giudizio.

5. Il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1000 più spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

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