Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28312 del 11/12/2020

Cassazione civile sez. II, 11/12/2020, (ud. 14/10/2020, dep. 11/12/2020), n.28312

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25371/2019 proposto da:

I.F., elettivamente domiciliatovi in Milano, Piazza S.

Agostino, n. 24, presso lo studio dell’avv.to ANNA MORETTI, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE MILANO;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 23/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/10/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Il Tribunale di Milano, con decreto pubblicato il 23 luglio 2019, respingeva il ricorso proposto da I.F., cittadina della (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. La ricorrente aveva riferito di aver perso il padre e di non avere più notizie della madre e della sorella dal 2012, di aver lasciato la Nigeria perchè la sua vita era in pericolo, in quanto suo padre – che era un “lawyer” nel senso che le persone si rivolgevano a lui perchè giudicasse i loro casi – era rimasto coinvolto fino ad essere ucciso in una vicenda relativa alla vendita di un terreno. Dopo tale episodio la richiedente era andata a Lagos da un’amica che poi le aveva procurato il viaggio per la Libia dove aveva lavorato come domestica e poi si era imbarcata per l’Italia.

Il Tribunale riteneva non necessario procedere all’audizione della ricorrente e rigettava la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato atteso che il racconto della richiedente a prescindere dalla sua credibilità non rappresentava alcuna situazione riconducibile ad una persecuzione.

A parere del Tribunale, dunque, la vicenda narrata dal richiedente non era meritevole di tutela sotto il profilo dello status di rifugiato. In ogni caso, a prescindere dalla credibilità del racconto, mancavano i presupposti anche per l’accoglimento della domanda di protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), non sussistendo il rischio attuale di subire un danno grave.

La ricorrente aveva escluso di essere stata vittima della tratta aveva dichiarato di aver vissuto a Lagos per due anni come commessa e quindi non vi era neanche il pericolo di un retrafficking, che presuppone di essere già stati assoggettati alla tratta come risultava anche dalle COI consultate. Inoltre, l’allegazione relativa alla pretesa mutilazione genitale subita non aveva trovato riscontro all’esito dell’attività istruttoria svolta, come certificato dall’ospedale (OMISSIS), il (OMISSIS).

Infine, con riferimento al rischio derivante dalla violenza di conflitto armato generalizzato di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), secondo il Tribunale dalle informazioni disponibili non risultava che l’area di provenienza della richiedente, una delle più sicure di tutte le Nigeria, fosse interessata da conflitti armati aventi le caratteristiche indicate dalla suddetta norma e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Infine, anche in base alla vicenda narrata, doveva escludersi la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione per motivi umanitari. Non vi era un effettivo radicamento in Italia, la ricorrente non aveva neanche un’autonomia abitativa1 aveva iniziato un tirocinio presso (OMISSIS), non aveva conoscenza della lingua italiana era comparsa all’udienza con un interprete i non aveva relazioni personali nè una prospettiva di effettiva integrazione. In Nigeria avrebbe potuto trovare la madre la sorella e godere di una più significativa integrazione sociale derivante dalla conoscenza della lingua.

3. I.F. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno si è costituito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g), art. 3, commi 3 e 5, artt. 5, 6, art. 8, comma 1, lett. d) e art. 14, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; alla luce della vicenda narrata, rappresentata dalla mutilazione genitale provata dalla certificazione medica prodotta, sussisterebbe un danno grave alla vita della ricorrente e Tribunale avrebbe errato nel non riconoscere la protezione sussidiaria.

La ricorrente sostiene sussistere i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria e, in particolare, con riguardo alla mutilazione genitale subita all’età di 13 anni. In proposito ritiene probabile che sia stato usato un rito alternativo, come la puntura del prepuzio, rito documentato dalle guide dell’alto commissario e afferma che la diversa dichiarazione effettuata nell’audizione era dovuta alla condizione di precarietà e turbamento nella quale si era venuta a trovare una volta giunta in Italia. La modificazione genitale integra una forma di persecuzione e di trattamento inumano e degradante così come le minacce da parte degli assassini del padre che avevano spinto la richiedente a lasciare la città.

In conclusione, la distanza temporale dei fatti relativi al padre non comportava la non attualità della persecuzione e vi era una buona probabilità di essere soggetta nuovamente a una tratta e di riportare una mutilazione genitale. Tutto ciò non sarebbe stato valutato dal Tribunale. Peraltro, era stata rappresentata anche l’impossibilità di rivolgersi alle forze dell’ordine come documentato da una pluralità di fonti riportate nel ricorso. Anche sulla base di tali fonti emergeva il pericolo di essere soggetta a persecuzione in quanto donna.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione, falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e art. 3, art. 14, lett. b) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

La censura ha ad oggetto il pericolo di subire un danno grave negato dal tribunale ed invece ritenuto sussistente ed attuale dalla ricorrente in relazione alla sua condizione personale e alla situazione sociale e politica della Nigeria come risultante dalle fonti riportate. Il Tribunale, dunque, non avrebbe effettuato riscontri rigorosi rispondenti al principio di stretta attualità sulla capacità delle istituzioni nigeriane di contrastare le fonti di pericolo esistenti sul territorio. Richiamata la storia personale della ricorrente e la situazione della Nigeria sussisterebbe il suddetto pericolo.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dell’art. 6 del Patto internazionale dei diritti economici sociali culturali adottato dall’assemblea generale dell’Onu il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con L. n. 881 del 1977, con riguardo alla esistenza di situazioni di vulnerabilità e della violazione dell’art. 3 CEDU, sotto il profilo della valutazione combinata dell’attuale condizione di vita raggiunta in Italia dalla ricorrente e delle gravi violazioni dei diritti umani cui andrebbe incontro tornando in Nigeria anche relazione al transito in Libia.

La censura attiene alla sussistenza delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari applicabile ratione temporis. Sussisterebbe una condizione di vulnerabilità per la serenità acquisita sul territorio italiano dove la richiedente ha fondato le basi per un futuro stabile e sereno, anche tenuto conto della condizione sociale e politica del paese di provenienza. Anche l’esclusione del reale radicamento sarebbe erronea e si dovrebbe tener conto anche della dedotta mutilazione genitale. La ricorrente ha partecipato a numerosi corsi di lingua italiana e di formazione lavorativa e nel paese d’origine correrebbe un grave pericolo sia personale sia di carattere generale per la condizione del paese.

4. I tre motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.

La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

Il Tribunale ha fatto esplicito riferimento a fonti qualificate dalle quali ha tratto la convinzione che la Nigeria non sia una zona rientrante tra quelle di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito quanto alla mutilazione genitale, come risultato inequivocabilmente dall’attività istruttoria di ufficio svolta, con relativa certificazione medica, e anche non idonea, quanto ai restanti fatti rappresentati (Cass. n. 14283/2019).

Deve ribadirsi che in tema di protezione sussidiaria, anche l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui alla norma citata, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018).

Inoltre, con riferimento alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), deve evidenziarsi che il racconto della richiedente non è stato ritenuto credibile – soprattutto si ripete in relazione alla presunta mutilazione genitale smentita dal certificato medico dell’ospedale (OMISSIS) del (OMISSIS) – e che, in tal caso, non si impone l’esercizio dei poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva.

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, anche in questo caso il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di integrazione da cui derivare una sua particolare vulnerabilità in caso di rientro forzoso. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa. In particolare, deve nuovamente evidenziarsi che la dichiarazione della ricorrente circa le mutilazioni genitali subite è stata smentita dalla visita medica disposta. Il rito alternativo ipotizzato dalla seconda valutazione ginecologica si fonda su una mera congettura e non ha alcun riscontro. La ricorrente non ha mai riferito di essere stata soggetta alla tratta e non ha allegato alcuna effettiva integrazione salvo il tirocinio presso (OMISSIS) e ha mostrato di non conoscere neanche la lingua italiana. La situazione della Nigeria è stata approfondita sia in relazione alla situazione generale che a quella soggettiva.

5. In conclusione il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2020

 

 

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