Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14697 del 18/06/2010

Cassazione civile sez. un., 18/06/2010, (ud. 18/05/2010, dep. 18/06/2010), n.14697

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Primo Presidente f.f –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2010 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

Q.A., C.M., elettivamente domiciliati in

ROMA, PIAZZA DEI MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio

dell’avvocato LUCIANO TAMBURRO, rappresentati e difesi dall’avvocato

BARRA CARACCIOLO Francesco, per procura speciale del notaio dott.

Giovanni Cesaro di Napoli, rep. 85374 del 05/05/10, in atti;

– resistenti con procura –

e contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 137/2009 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 10/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

18/05/2010 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito l’Avvocato Francesco BARRA CARACCIOLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I Dottori Q.A. e C.M. sono stati rinviati a giudizio innanzi alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, “perchè si sono resi responsabili dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. q), perchè, quali magistrati in servizio presso il Tribunale di Napoli con funzione di giudice, hanno violato i doveri di diligenza e laboriosità, rendendosi immeritevoli della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, così da compromettere il prestigio e la credibilità dell’Ordine giudiziario”. Nel periodo compreso tra il giorno 12 marzo 2002 ed il giorno 18 settembre 2007, sottoposto a verifica ispettiva, il Dr. Q. aveva omesso di rispettare il termine di deposito di 98 sentenze civili (di cui 14 non ancora depositate alla data d’inizio dell’ispezione) e di 119 ordinanze riservate, incorrendo in gravi ritardi, determinabili, per le sentenze, tra 100 e 200 giorni in 14 casi, tra 200 e 300 giorni in 16 casi, tra 300 e 400 giorni in 10 casi, tra 400 e 500 giorni in 19 casi, tra, 500 e 600 giorni in 12 casi ed oltre i 600 giorni in 10 casi; il Dr. C.M. aveva omesso di rispettare il termine di deposito di 49 sentenze civili e di 283 ordinanze riservate, incorrendo in gravi ritardi, determinabili, per le sentenze, tra 100 e 200 giorni in 28 casi, tra 200 e 300 giorni in 20 casi, e pari a 481 giorni in un caso, e per le ordinanze oltre un anno in 79 casi, di cui uno in quasi 3 anni.

All’esito del procedimento, nato dall’iniziativa del Ministro della giustizia, che ha promosso il procedimento disciplinare il 10 settembre 2008, la competente Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha assolto i magistrati, affermando il principio che i ritardi nel deposito delle sentenze, anche se consistenti e gravi non rilevano sotto il profilo disciplinare qualora i fatti ascritti siano stati determinati non da scarsa laboriosità o negligenza, ma dal carico di lavoro eccezionale gravante sul magistrato, dovendosi prendere in considerazione la complessiva situazione di lavoro dell’incolpato, dei suoi profili qualitativi e quantitativi, la complessiva organizzazione dell’ufficio di appartenenza e tutte le funzioni espletate dal magistrato, oltre a quelle interessate dal ritardo nel deposito.

Sulla base degli elementi raccolti, era emerso che i magistrati non possono essere considerati neghittosi e quindi censurabili, e il consiglio ha giudicato i ritardi contestati pienamente giustificati dalle particolari situazioni in cui essi hanno dovuto operare.

Per la cassazione della sentenza, pronunciata il 10 novembre 2009, ricorre il Ministero della giustizia con un atto affidato a quattro mezzi d’impugnazione.

Il difensore degli incolpati ha partecipato alla discussione orale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, concernente la posizione del Dr. Q., si denuncia la violazione di legge, ravvisatale nella valutazione della situazione della cancelleria del Tribunale di Casoria, della produttività e laboriosità del magistrato e del suo attaccamento al lavoro per escludere la responsabilità nella fattispecie del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. q, rispetto alla quale assume rilievo esclusivamente il mancato deposito dei provvedimenti da parte del magistrato.

Con il secondo motivo, pure concernente la posizione del Dr. Q., si denuncia la mancanza di motivazione della sentenza. Il consiglio si limita ad affermare l’esistenza di una situazione di dissesto del tribunale di Casoria, senza indicare in qual modo essa avrebbe inciso sulla possibilità di depositare tempestivamente i provvedimenti; afferma l’esistenza di un grave carico di lavoro senza dare indicazioni precise in ordine alla sua entità e alla sua incidenza nei ritardi, trascurando qualsiasi giudizio di comparazione con altri magistrati che, pur addetti al medesimo ufficio, hanno depositato tempestivamente le sentenze.

Gli altri due motivi riguardano la posizione del Dr. C.. Con l’uno si denuncia la violazione di norma di diritto, per aver ritenuto che il generico riferimento al carico di lavoro del magistrato, alla carenza di organico dell’ufficio e alla sopravvenienza di fascicoli e all’attività scientifica del magistrato siano idonee ad escludere la responsabilità per l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. q). Con l’altro si denuncia il difetto di motivazione, per avere il consiglio trascritto le dichiarazioni del teste, senza indicare le ragioni per le quali le circostanze riferite sarebbero rilevanti ai fini dell’incidenza causale sul mancato tempestivo deposito dei provvedimenti, e senza sottoporle a vaglio critico, in particolare attraverso il giudizio di comparazione rispetto ad altri magistrati dello stesso tribunale.

Il ricorso, con riguardo ai denunciati vizi di violazione di norme di diritto, è fondato. Nella sentenza impugnata il principio di diritto applicabile alla fattispecie è così enunciato: i ritardi nel deposito delle sentenze, anche se consistenti e gravi non rilevano sotto il profilo disciplinare qualora i fatti ascritti siano stati determinati non da scarsa laboriosità o negligenza, ma dal carico di lavoro eccezionale gravante sul magistrato, dovendosi prendere in considerazione la complessiva situazione di lavoro dell’incolpato, dei suoi profili qualitativi e quantitativi, la complessiva organizzazione dell’ufficio di appartenenza e tutte le funzioni espletate dal magistrato, oltre a quelle interessate dal ritardo nel deposito.

E’ da premettere che, sebbene la condotta illecita contestata fosse cominciata prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 109 del 2006, essa è poi giunta a compimento nel 2007, sicchè è stato contestato l’illecito disciplinare contemplato nel D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. q), conformemente al disposto dell’art. 32 bis D.Lgs. cit., aggiunto dalla L. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3, lett. g, (Cass. Sez. un. 9 dicembre 2008 n. 28871 e Sez. un. 21 gennaio 2010 n. 967).

Il principio di diritto applicato dal giudice disciplinare riflette una giurisprudenza formatasi in relazione alla previsione del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, che configurava l’illecito disciplinare nel comportamento del magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario. La genericità di tale previsione, infatti, consentiva di qualificare come illecito disciplinare il ritardo nel deposito dei provvedimenti giudiziari solo subordinatamente alla condizione che ciò facesse venir meno la fiducia e la considerazione di cui il magistrato deve godere, o compromettesse il prestigio dell’ordine giudiziario. Il quadro normativo ha subito, però, un radicale mutamento a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, che con gli artt. 1 – 4 ha provveduto alla sistematica tipizzazione dell’illecito disciplinare del magistrato, eliminando gli elementi di valutazione discrezionale dell’idoneità della condotta tipizzata a ledere il bene tutelato. Di tale mutato quadro normativo non ha tenuto conto l’impugnata sentenza, che ha inserito nel fatto tipico previsto dalla legge elementi ad esso estranei nel nuovo quadro normativo, condizionando la sussistenza dell’illecito all’accertamento della scarsa laboriosità o negligenza dell’incolpato e richiedendo la valutazione della complessiva organizzazione dell’ufficio di appartenenza e di tutte le funzioni espletate dal magistrato, oltre a quelle interessate dal ritardo del deposito.

Questa corte, peraltro, ha già avuto occasione di affermare ripetutamente che il ritardo nel deposito delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari integra l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q), qualora risulti reiterato, grave e ingiustificato, mentre la scarsa laboriosità del magistrato, quale indice di non giustificabilità del ritardo, non costituisce condicio sine qua non ai fini della configurabilità dell’illecito (Sez. un. 1 ottobre 2007 n. 20602, 16 luglio 2009 n. 16557). Ne deriva che il principio di diritto applicato nell’impugnata sentenza si è tradotto in una violazione della norma la cui violazione è stata contestata, contenuta nel D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. q).

Per la citata disposizione, costituisce illecito disciplinare del magistrato il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, ricorrendo il quale l’illecito disciplinare deve ritenersi consumato, indipendentemente da ogni altro criterio di valutazione. Laddove poi non ricorra l’ipotesi contemplata nella seconda parte della citata disposizione – per cui si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto – la gravità del ritardo reiterato e non altrimenti giustificato non richiede una specifica dimostrazione. Circostanze di fatto quali l’eccessivo carico di lavoro possono bensì valere da causa di giustificazione, ma, fermo restando che esse devono essere adeguatamente dimostrate dall’incolpato (Cass. Sez. un. 27 luglio 2007 n. 16627), la soglia di giustificazione deve ritenersi sempre superata in concreto, quando il tempo di ritardo leda il diritto delle parti alla durata ragionevole del processo, di cui alle norme costituzionali e sovranazionali vigenti, esponendo lo Stato italiano ad una possibile condanna per opera della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cass. Sez. un. 27 luglio 2007 n. 16627; 23 agosto 2007 n. 17916).

La sentenza impugnata deve essere conseguentemente cassata, con rinvio al Consiglio superiore della Magistratura, che nel riesaminare i due casi si uniformerà ai principi di diritto appena enunciati.

Nel valutare l’esistenza di circostanze che abbiano determinato in concreto un giustificato ritardo nel deposito dei singoli provvedimenti, costituite in particolare dall’eccessivo carico di lavoro, il Consiglio potrà anche utilizzare dei criteri comparativi, mettendo a confronto il numero dei provvedimenti depositati dagli incolpati con quelli depositati da altri magistrati che abbiano operato in condizioni paragonabili, rispettando in ogni caso il limite di giustificazione sopra indicato.

Le spese del presente giudizio di legittimità sono compensate tra le parti, in considerazione della necessità di tener conto del mutato quadro normativo di riferimento, che ha reso obsoleta la giurisprudenza richiamata nell’impugnata sentenza.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e Rinvia la causa al Consiglio Superiore della Magistratura. Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, il 18 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2010

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