Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23930 del 29/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 29/10/2020, (ud. 15/07/2020, dep. 29/10/2020), n.23930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10274/2017 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che lA

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO ROMEI, ENZO

MORRICO, e FRANCO RAIMONDO BOCCIA;

– ricorrente –

contro

D.M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 91/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 21/02/2017, R.G.N. 1383/2015;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

– con sentenza del 21 febbraio 2017, la Corte d’Appello di Napoli ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da Telecom Italia S.p.A. volta ad ottenere la revoca del decreto ingiuntivo relativo alle spettanze retributive del mese di dicembre 2013, oltre alla tredicesima, in favore di D.M.M.;

– in particolare, il giudice di secondo grado ha ritenuto legittima la corresponsione delle somme atteso che il rapporto con la società ricorrente doveva reputarsi perdurante e mai venuto meno per effetto della dichiarazione di inefficacia della cessione di ramo d’azienda in favore della Società Ceva Logistics, pur essendo il rapporto con quest’ultima venuto meno in seguito al licenziamento del dipendente ed alla successiva conciliazione della lite;

– per la cassazione della sentenza propone ricorso Telecom Italia S.p.A. affidandolo a tre motivi;

– resiste, con controricorso, D.M.M.;

– il PG ha rassegnato conclusioni scritte;

– entrambe le parti hanno presentato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., nella parte in cui la sentenza ha ritenuto che Telecom Italia fosse decaduta dall’eccezione volta a far valere la risoluzione dell’unico rapporto di lavoro per avvenuta conciliazione fra il D.M. e la società Ceva alla data del 13 febbraio 2014;

– il motivo non può trovare accoglimento;

– la piana lettura della motivazione del giudice di secondo grado induce a ritenere inconferente la censura proposta;

– si legge infatti nella decisione della Corte d’appello testualmente che: “la transazione avvenuta tra l’appellato e la società cessionaria del ramo d’azienda non ha nessun effetto rispetto alla vicenda in esame sia perchè si è svolta tra due soggetti diversi sia perchè aveva un altro oggetto. D’altra parte l’appellato era stato formalmente licenziato dalla Ceva e nei confronti di essa aveva impugnato il licenziamento. Non poteva fare altrimenti pur avendo proposto una causa di legittimità della cessione dell’azienda. Una volta passata in giudicato la sentenza sulla illegittimità della cessione, la Telecom non può invocare l’estinzione del rapporto di lavoro avvenuto con la Ceva per non riassumere l’appellato perchè avrebbe dovuto farlo in quella sede processuale secondo il principio che il giudicato copre sia il dedotto che il deducibile. La causa tra l’appellato e la Ceva si era già conclusa al momento della discussione dell’altra causa in cassazione tra la Telecom e l’appellato. La Telecom era ben a conoscenza della rinunzia fatta dall’appellato alla reintegra nella causa di licenziamento con la Ceva. Infatti vi era stato un altro giudizio, dell’appellato contro la Ceva e la Telecom nel quale vi era stata riportata la circostanza della conciliazione intervenuta proprio tra la Ceva è l’appellato”;

– non coglie la censura, poichè ciò che conta è che la sentenza della Corte di cassazione che ha annullato il trasferimento d’azienda nei confronti dell’appellato travolge ovviamente ogni rapporto compreso quello con la cessionaria;

– congruamente il giudice ha evidenziato che la Telecom avrebbe potuto e dovuto far valere le proprie doglianze nel corso del giudizio sulla illegittimità della cessione, perchè solo in quella sede parte ricorrente avrebbe potuto far valere le vicende inerenti il rapporto fra cessionaria e dipendente ceduto;

– correttamente, quindi, il giudice ha ritenuto il licenziamento intimato dalla Ceva logistics tamquam non esset, e la transazione avvenuta tra la cessionaria e l’appellato improduttiva di effetti sul rapporto principale ripristinato, potendo operare solo fra le parti firmatarie della transazione stessa;

– con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 1406 c.c., nella parte in cui la sentenza ha ritenuto che gli atti estintivi posti in essere tra lavoratore e cessionario del ramo d’azienda siano irrilevanti per il presente giudizio, essendo il rapporto giuridico intercorso tra il lavoratore ed il cessionario del ramo un distinto rapporto rispetto a quello con Telecom Italia S.p.A.;

– il motivo è infondato, non essendo la Corte di merito incorsa in alcuna violazione dell’art. 1406 c.c.;

– osserva, infatti, correttamente il Collegio che fino alla sentenza dichiarativa della nullità della cessione del ramo d’azienda il rapporto non fosse unico con la Telecom ma che vi fosse stato un altro rapporto di fatto con la Ceva, impresa cessionaria anche sulla base del principio del legittimo affidamento;

– fino all’intervento della sentenza di legittimità che ha dichiarato l’inefficacia della cessione, il lavoratore ha fatto legittimo affidamento sulla regolarità della stessa ed ha agito a tutela del proprio posto di lavoro impugnando il licenziamento intimato dalla società cessionaria poi oggetto di successiva conciliazione;

– in seguito alla sentenza della Corte di cassazione, venuto meno ex tunc il rapporto con la cessionaria, sono riemerse le situazioni giuridiche soggettive di vantaggio nei confronti della cedente, diventando irrilevanti nei rapporti fra il dipendente e la Telecom sia il licenziamento da parte della CEVA logistics che la successiva conciliazione;

– osserva al riguardo questa Corte che il lavoratore il cui rapporto sia stato ceduto con atto nullo, in ragione dell’inapplicabilità dell’art. 2112 c.c. e della conseguente necessità del consenso del lavoratore ceduto ex 1406 c.c., ha interesse a far valere, nei confronti del cedente, il vizio dell’atto al fine di ottenere il ripristino del rapporto, restando irrilevante la conciliazione intervenuta con il cessionario: nè la cessazione del rapporto di lavoro con il cessionario preclude l’accertamento della continuazione del rapporto con il cedente in virtù di fatti riferibili a periodo precedente tale cessazione (nella specie, l’inefficacia dell’accordo di cessione del rapporto, nullo per difetto di consenso del lavoratore) in grado di inficiare la validità del trasferimento del rapporto di lavoro al cessionario (sul punto, Cass. n. 1317 del 13 giugno 2014; Cass. n. 25144 del 24/10/2017);

– non può, in particolare, ritenersi che il rapporto di lavoro sia unico e dunque si sia estinto per effetto di vicende risolutive (licenziamento o dimissioni) che hanno interessato il solo cessionario; l’unicità del rapporto, infatti, presuppone la legittimità della vicenda traslativa ex 2112 c.c.: accertata la nullità della cessione del rapporto, il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto e le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il solo cedente, sebbene quiescente di fatto per effetto dell’illegittima cessione fino alla declaratoria di nullità della stessa (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 21158 del 07/08/2019);

– con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1206,1207,1217,1223,1256,1454 e 1463 c.c., nella parte in cui la sentenza non ha detratto da quanto dovuto al lavoratore le somme a lui spettanti per effetto dell’ordinanza con cui ne era stata ordinata la reintegrazione presso la CEVA Logistics;

– va preliminarmente rilevato, in modo dirimente, che, secondo la Corte di merito, nessuna prova è stata offerta da parte ricorrente circa la sussistenza dell’aliunde perceptum, talchè va negata in radice la fondatezza della censura formulata;

– d’altro canto, con riguardo alla questione della compensatio lucri cum damno, va rilevato che principio cardine è quello secondo cui “in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, a decorrere dalla messa in mora”, insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sent. 7 febbraio 2018, n. 2990);

– a tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda;

– questa Corte ha già chiarito (Cass. n. 29091 dell’11/11/2019) che un legittimo trasferimento d’azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto;

– è evidente che l’unicità del rapporto venga meno qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare;

– come già rilevato supra, è insegnamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’unicità del rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c., talchè, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale);

– il trasferimento del rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale: in caso contrario, ove si verifichi una invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente (cfr. da ultimo, oltre alla già richiamata Cass. n. 21158/2019, Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le altre: Cass. Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario);

– orbene, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne è un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, e, pertanto, non meno rilevante sul piano del diritto;

– al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, tanto se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316);

– una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva;

– consegue da tali premesse che mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile ha posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari;

– ne consegue che l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato;

– nè tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (Cass. 8 aprile 2019, n. 9747; negli stessi termini, Cass. n. 16694 del 25/96/2018 che pur configura, in disparte, la detraibilità di quanto corrisposto), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi;

– deve quindi affermarsi che assunto che dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione e che tale conclusione valga anche nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il pagamento delle retribuzioni da parte della cessionaria sia stato corrisposto per effetto di definizione conciliativa giudiziale in seguito all’azione intentata dal dipendente per effetto dell’intervenuto licenziamento da parte della cessionaria;

– trova, quindi, applicazione, anche nell’ipotesi di specie il consolidato principio secondo cui, in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa (sul punto, fra le altre, Cass. 21158/2019 cit.; Cass. n. 17784 del 03/07/2019);

– alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto;

– le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;

– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 15 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2020

 

 

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