Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13299 del 31/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 31/05/2010, (ud. 13/05/2010, dep. 31/05/2010), n.13299

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TOSI PAOLO, giusta mandato a margine del

ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1185/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 11/07/2005 r.g.n. 354/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/05/2010 dal Consigliere Dott. MELIADO’ Giuseppe;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 16.6 – 11.7.2005 la Corte di appello di Torino, in accoglimento dell’appello proposto dalle Poste Italiane avverso la sentenza resa dal Tribunale di Torino l’11 – 26.2.2004, impugnata dalle Poste Italiane, rigettava la domanda proposta da R. M. per l’accertamento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in conseguenza della nullita’ della clausola di durata apposta ai contratti fra le parti stipulati.

Osservava in sintesi la corte territoriale, con riferimento al primo contratto, stipulato per il periodo 7.6.2001 – 30.9.2001, ai sensi del 25 del CCNL 2001, che lo stesso doveva ritenersi legittimo, essendo stato concluso nell’ambito del periodo di tempo considerato dalla norma contrattuale ed a fronte di esigenze di servizio determinate dalle assenze per ferie dei dipendenti; che parimenti legittimo doveva considerarsi il successivo contratto, stipulato per il periodo 15.5.2002 – 12.8.2002 (“per far fronte agli incrementi di attivita’ o esigenze produttive particolari e di carattere temporaneo, connesse alla gestione degli adempimenti ICI che non possono essere soddisfatti con il personale in servizio”), palesandosi le ragioni poste a base dell’assunzione idonee a giustificare l’apposizione del termine; che legittimo doveva ritenersi, infine, anche l’ultimo contratto, relativo al periodo 19.10.2002 – 31.12.2002 (“per esigenze tecniche organizzative e produttive connesse all’attuale fase di riorganizzazione dei Centri rete postali, ivi ricomprendendo una piu’ funzionale ricollocazione del personale sul territorio,nonche’ per far fronte ai maggiori flussi di traffico del periodo natalizio”), per rinvenirsi pure in tale contratto una adeguata giustificazione delle ragioni dell’assunzione a termine.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso R.M. con tre motivi. Resistono con controricorso le Poste Italiane.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 112 c.p.c. dell’art. 2697 c.c., della L. n. 230 del 1962, art. 3 nonche’ vizio di motivazione, osservando che la corte territoriale aveva omesso qualunque pronuncia in ordine all’accertamento del mancato rispetto del limite percentuale posto dalla contrattazione collettiva alla possibilita’ di assunzioni a termine, pur trattandosi di requisito indispensabile ai fini della sussistenza della fattispecie autorizzatoria prevista dalla L. n. 56 del 1987, art. 23.

Con il secondo motivo il ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla L. n. 230 del 1962, art. 3, alla L. n. 56 del 1987, art. 23 e ai canoni di interpretazione contrattuale, nonche’ vizio di motivazione, osservando come la corte territoriale avesse aprioristicamente ritenuto compatibili, con riferimento al primo contratto, le ragioni plurime e del tutto eterogenee cumulativamente ivi richiamate.

Con l’ultimo motivo, infine, si censura la sentenza impugnata, denunciando violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. per avere, con motivazione illogica e contraddittoria, ritenuto la durata del contratto proporzionata rispetto agli adempimenti connessi al pagamento dell’ICI, sebbene il dipendente avesse continuato a lavorare, dopo la scadenza del termine previsto per tali adempimenti, per ulteriori due mesi. Il primo motivo e’ fondato.

Prospetta, infatti, fondatamente il ricorrente (fornendone adeguata documentazione, in conformita’ alla regola di necessaria autosufficienza del ricorso per Cassazione) che, sebbene avesse nei precedenti gradi del giudizio rilevato l’invalidita’ della clausola di durata per mancato rispetto del limite percentuale posto dalla contrattazione collettiva alla possibilita’ di assunzione a termine, nessuna statuizione era stata, al riguardo, adottata dalla corte di merito, pur trattandosi di censura ritualmente formulata e decisiva ai fini della delibazione della questione controversa.

Deve, infatti, ribadirsi, per come gia’ affermato da questa Suprema Corte in alcuni suoi precedenti (cfr. Cass. n. 839/2010; Cass. n. 6010/2009), che, nel sistema “autorizzatorio” della L. n. 56 del 1987, la previsione, da parte dei contratti collettivi, del numero percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori occupati a tempo indeterminato costituisce un preciso limite al potere negoziale delle organizzazioni sindacali, idoneo a condizionare la legittimita’ della deroga dalle stesse apportatale alla disciplina comune del contratto a termine, quale (al tempo) prevista dalla L. n. 230 del 1962.

Se, infatti, sulla scorta del diritto vivente giurisprudenziale, progressivamente derivante dall’elaborazione di questa Suprema Corte in materia (si veda per tutte Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588), deve ritenersi che l’attribuzione alla contrattazione collettiva del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discendendo dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessita’ del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti, prescinde dalla necessita’ di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di far riferimento a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero ancora di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione alla assunzione a tempo determinato, con la prefigurazione di una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non puo’, al tempo stesso, ritenersi che tale potere di deroga resti insensibile all’unico limite espressamente configurato dal legislatore all’intervento dell’autonomia collettiva, ed, in particolare, che tale limite risulti (esterno e, dunque,) estraneo al nuovo sistema delineato, e cioe’ ai requisiti della fattispecie che ne condiziona l’operativita’.

Si tratta, infatti, a fronte della significativa inversione di tendenza operata in ordine al ruolo che puo’ svolgere la contrattazione collettiva nella rimozione di limiti legali dell’autonomia contrattuale del datore di lavoro, di un contrappesso, per come notato da autorevole dottrina, non poco pregnante agli ampi poteri della contrattazione medesima, nella prospettiva di un uso ragionevole e razionalmente verificabile dei contratti di autorizzazione e della loro incidenza sull’organizzazione di lavoro.

Il che porta ad escludere, differentemente da quanto prospetta la societa’ resistente, che la clausola di contingentamento (e la sua violazione) sia inidonea ad incidere sul piano della relazione negoziale tra le parti del rapporto, dal momento che, al contrario, la mancata previsione della clausola o la sua inosservanza, determinando il venir meno dell’autorizzazione alla rimozione di vincoli legali alla apposizione del termine, fa riespandere questi ultimi, con conseguente applicazione della sanzione della nullita’, secondo quanto previsto dalla L. n. 230 del 1962. Coerente con tali presupposti, quanto alla prova dell’osservanza del limite percentuale in esame, e’, quindi, pure l’affermazione che il relativo onere e’ a carico del datore di lavoro, in base alla regola posta dalla L. n. 230 del 1962, art. 3 secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (in tal senso gia’ Cass. n. 839/2010).

Sicche’ conclusivamente deve confermarsi il principio che spetta al datore di lavoro provare il rispetto del limite percentuale posto dalla contrattazione collettiva alla possibilita’ di assunzioni a termine, trattandosi di condizione necessaria, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, comma 1, per il conferimento alla contrattazione collettiva di una valida autorizzazione alla rimozione dei limiti legali connessi alla apposizione del termine e per la conseguente legittimita’ della clausola di durata prevista nel contratto di lavoro stipulato in forza di tale autorizzazione. Il primo motivo del ricorso va, pertanto, accolto, con conseguente assorbimento dei residui, la sentenza cassata e la causa rinviata ad altro giudice di pari grado, configurandosi il vizio di omessa pronuncia, correlato alla violazione dell’art. 112 c.p.c..

Vizio, come noto, che ricorre ogni volta che sia completamente omesso il provvedimento che si palesa necessario in relazione al caso concreto e non ricorra una pronuncia, nemmeno implicita, sull’istanza o il suo assorbimento in altra statuizione (v. ad es., Cass. n. 264/2006; Cass. n. 5562/2004).

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Genova.

Cosi’ deciso in Roma, il 13 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2010

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