Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21315 del 05/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 05/10/2020, (ud. 16/07/2020, dep. 05/10/2020), n.21315

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12187-2014 proposto da:

A.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 74,

presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

BE THINK SOLVE EXECUTE S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 109,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE FONTANA, che la rappresenta

e difende;

– controricorrente –

nonchè contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 3475/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/05/2013 R.G.N. 322/2010.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. A.L. ha convenuto in giudizio, innanzi al Tribunale di Roma, il Ministero della Giustizia e Data Service spa (poi Bee Team s.p.a., ora BE, Think, Solve, Execute s.p.a.), esponendo, in sintesi, di essere stato assunto alle dipendenze di Data Service prestando lavoro in diversi uffici giudiziari presso il Ministero della Giustizia, nello svolgimento di funzioni non rientranti nei contratti stipulati tra la P.A. e il datore di lavoro formale, continuando a prestare ininterrottamente l’attività lavorativa anche oltre le relative scadenze contrattuali, il tutto con inserimento dell’organizzazione degli uffici e svolgimento del lavoro sulla base di direttive, istruzioni ed ordini provenienti esclusivamente dal personale del Ministero;

egli insisteva quindi perchè fosse accertata:

nella vigenza della L. n. 1369 del 1960, la sussistenza di un’ipotesi vietata di manodopera e, per il periodo di vigenza del D.Lgs. n. 276 del 2003, la sussistenza di un appalto non genuino o di somministrazione di lavoro fraudolenta o irregolare;

per effetto di ciò, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con il Ministero della Giustizia, a decorrere dalla prima data di assegnazione agli Uffici giudiziari, con condanna del Ministero all’inquadramento secondo la disciplina del CCNL del Comparto Ministero e alla regolarizzazione contributivo – previdenziale, nonchè condanna di entrambi i convenuti in solido al pagamento di tutte le differenze retributive correlate all’applicazione del CCNL comparto Ministeri, a far data dalla costituzione del rapporto di lavoro;

in via subordinata, il ricorrente chiedeva:

l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con il Ministero e il diritto alla costituzione di un rapporto di lavoro con il Ministero ovvero a vedersi riservata una quota pari al 60% dei posti nelle assunzioni che in futuro il Ministero avesse effettuato;

in ogni caso, la condanna dei convenuti al risarcimento del danno per mancata costituzione del rapporto di lavoro in misura pari alla differenza tra le retribuzioni spettanti al dipendente del Ministero inquadrato nel livello B2 ovvero nel livello B1 del CCNL Comparto Ministero;

2. il Tribunale di Roma respinse le domande e la Corte di Appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la sentenza di primo grado;

La Corte territoriale ha:

ritenuto infondato l’assunto del lavoratore secondo cui, essendo la domanda volta all’inquadramento nell’area B, la regola della necessità del pubblico concorso, di cui all’art. 97 Cost. e al D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, poteva ritenersi derogata dalla L. n. 56 del 1987 e tanto sul rilievo che la L. n. 56 disciplina procedure eccezionali di selezione, tassativamente previste in presenza di presupposti fissati ex lege, sulla base di determinate graduatorie, procedure che non possono trovare applicazione al di fuori dei casi espressamente disciplinati;

richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 89 del 2003, ritenendo che l’assunzione alle dipendenze della P.A. può avvenire solo nel rispetto della regola del pubblico concorso, imposta dall’art. 97 Cost. e dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35;

affermato che la conversione del contratto, come regola generale prevista in caso di violazione di norme imperative di cui alla L. 1369 del 1960, art. 1 e al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 1, non è applicabile al pubblico impiego, ostandovi la disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, ed ha osservato che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 9, esclude la applicabilità della sanzione della conversione prevista dall’art. 21, comma 4 (recte 27 comma 1) alle Pubbliche Amministrazioni;

richiamato i principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 12964/2008; ritenuto irrilevante la questione di illegittimità costituzionale della L. n. 1369 del 1960, art. 1, della L. n. 196 del 1997, art. 10, del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, della L. n. 30 del 2003, art. 6, del D.Lgs. n. 76 del 2003, art. 1, comma 2 e art. 29, comma 3 bis, del art. 86, comma 9, nella parte in cui escludono che la violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione e l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni comporti la costituzione di un rapporto di lavoro con queste ultime anche ove si tratti di qualifiche per le quali non è obbligatorio l’accesso per pubblico concorso, sul rilievo che la fattispecie dedotta in giudizio non rientrava tra le ipotesi per le quali non è richiesto l’accesso mediante pubblico concorso;

ritenuto infondata la domanda di risarcimento del danno patrimoniale in misura pari alle differenze retributive tra quanto spettante secondo il c.c.n.l. Ministeri e Guanto in concreto ricevuto durante il rapporto di lavoro, non avendo il ricorrente neppure indicato quanto fosse stato da lui percepito;

4. il ricorrente ha impugnato per cassazione la predetta sentenza con nove motivi, poi illustrati da memoria;

Be Think ha resistito con controricorso, mentre il Ministero ha depositato soltanto atto di costituzione, le cui copie si riferiscono a tale V.A., mentre l’originale nel fascicolo di parte riguarda correttamente A.L..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. con il primo motivo il ricorrente adduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1, della L. n. 196 del 1997, del D.Lgs. n. 276 del 2003, del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, della L. n. 57 del 1987, in relazione all’art. 97 Cost., degli artt. 112 e 113 c.p.c., anche in relazione alla L. n. 56 del 1987;

con il secondo motivo è invece dedotta l’omessa considerazione di un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5) in merito all’impossibilità di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del Ministero della Giustizia, sulla base dell’affermazione apodittica che la L. n. 56 del 1987 fisserebbe procedure eccezionali non applicabili al di fuori dai casi tassativamente previsti e sulla base dell’esclusione, in forza di motivazione insufficiente, dell’applicabilità al caso di specie della sanzione della conversione prevista dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29;

con il terzo motivo è addotto “error in procedendo” (art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione all’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., con nullità della sentenza, insufficiente ed incongrua esposizione delle ragioni di fatto e di diritto in punto di esclusione dell’applicabilità della regola generale della conversione del rapporto, di tassatività delle ipotesi previste dalla L. n. 56 del 1987, di esclusione della applicabilità della sanzione di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29;

1.1 i motivi sopra indicati, riguardando tutti la questione sul riconoscimento, se del caso previa conversione, di un rapporto di lavoro subordinato con il Ministero, possono essere esaminati assieme e sono da disattendere;

1.2 quanto al terzo motivo, si osserva come l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. SS.UU n. 8053 e n. 8054 del 2014), quest’ultima ravvisabile nei soli casi in cui la sentenza non renda percepibili le ragioni della decisione, perchè tale da consistere in argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016);

ipotesi che, nel caso di specie e rispetto ai profili giuridici coinvolti dai motivi qui in esame, non ricorre, avendo la Corte territoriale motivato, nei termini riepilogati nell’ambito della narrativa processuale, le ragioni delle proprie decisioni;

1.3 il secondo motivo è inammissibile perchè le censure, per essere correlate a questioni giuridiche (affermata impossibilità della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del Ministero della Giustizia), esorbitano dal perimetro del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che, nel testo applicabile ratione temporis (la sentenza impugnata è stata pubblicata il 1 ottobre 2012), prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (Cass. SSUU n. 8053 e n. 8054 del 2014);

1.4 come già ritenuto da Cass. 17 gennaio 2019, n. 1200 e Cass. 8 ottobre 2019, n. 25169, rese in controversie analoghe alla presente, le cui motivazioni sul punto vanno qui ribadite perchè condivise, sono altresì infondate le censure, formulate nel primo motivo, con le quali il ricorrente addebita alla Corte territoriale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1, della L. n. 196 del 1997, delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 276 del 2003, del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, della L. n. 56 del 1987;

il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369 (nel testo vigente ratione temporis), trova applicazione anche nel caso in cui il rapporto intercorra con enti pubblici economici, in relazione alle sole attività che presentino, per i loro contenuti sostanziali, carattere imprenditoriale; pertanto le disposizioni che stabiliscono detto divieto, e le relative conseguenze, non sono applicabili alle Amministrazioni dello Stato non organizzate in forma di azienda, quali il Ministero della Giustizia, che restano soggette alle disposizioni di legge che limitano o escludono la facoltà delle Amministrazioni di assumere personale, senza le formali e pubbliche procedure prescritte dal legislatore ed imposte dall’art. 97 Cost., (Cass. n. 28260 del 2017, n. 20314 del 2015, n. 11383 del 2014, n. 6351 del 2013, n. 15783 del 2004, n. 5800 del 1985, n. 7110 del 1986); il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 1, comma 2, nel prevedere che “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale” è chiaro nell’individuare il destinatario della esclusione, riferita all’intero decreto, innanzitutto nell’ente pubblico (Cass. n. 9741 del 2018, n. 20327 del 2017);

nè la costituzione di un rapporto di lavoro in capo al Ministero può ammettersi ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 20 e 27, posto che il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 9, dispone espressamente che la previsione della trasformazione del rapporto di lavoro di cui all’art. 27, comma 1, non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni (Cass. 6394/2017);

La L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 16, è stato sostanzialmente trasfuso nel D.Lgs. 29 febbraio 1993, n. 29, art. 36, pro parte, poi recepito dall’attuale del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 35, il quale testualmente prevede che “l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro: a) tramite procedure selettive, conformi ai principi del comma 3, volte all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno; b) mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della legislazione vigente per le qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo, facendo salvi gli eventuali ulteriori requisiti per specifiche professionalità” (comma 1);

Il richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, nella parte in cui prevede che le assunzioni di alcune categorie di pubblici dipendenti possano avvenire mediante espletamento di procedure selettive, o mediante avviamento dei soggetti iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta solo una semplificazione dello strumento tecnico (il pubblico concorso), ma non il superamento delle esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel concetto di concorsualità e imposte dall’art. 97 Cost., (Corte Costituzionale n. 159 del 2005);

a tanto consegue che le assunzioni nella P.A. mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35), vanno effettuate nel rispetto della graduatoria risultante dalle liste delle circoscrizioni territorialmente competenti, avuto riguardo agli iscritti alla prima classe delle liste medesime, secondo quanto precisato dalla L. n. 56 del 1987, art. 10, comma 1, lett. a) e cioè lavoratori disoccupati o in cerca di prima occupazione, ovvero lavoratori con occupazione temporanea subordinati o autonomi (Cass. SSUU n. 4685 del 2015; Cass. nn. 12961/2008, 19108/2003);

1.5 ancora Cass. 1220/2019 e Cass. 25169/2019, citt., sottolineano, ed è qui condiviso al fine di rispondere alla questione di legittimità costituzionale prospettata, come non sussista alcun contrasto fra D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2 e la Legge Delega 14 febbraio 2003, n. 30 perchè l’art. 1, comma 1 del decreto delegato, nel disporre che “Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale” si limita ad esplicitare ciò che era già contenuto nella L. n. 30 del 2003, art. 6, che aveva disposto che le disposizioni contenute negli artt. da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate;

nè è ravvisabile alcun contrasto delle disposizioni contenute nella L. n. 1369 del 1960, art. 1, nella L. n. 196 del 1997, art. 10, nel D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, nel D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2, art. 29, comma 3 bis, art. 86, comma 9, avuto riguardo ai principi affermati dalla Corte Costituzionale e gli artt. 3 e 97 Cost. (Corte Costituzionale C. Cost. nn. 180/2015, 134/2014, 277/2013, 217/2012, 310/2011, 9/2010, 293/2009, 215/2009, 81/2006, 190/2005, 159/2005);

2. con il quarto motivo il ricorrente afferma la violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) per omessa pronuncia sulla domanda volta alla condanna dei convenuti al pagamento delle differenze retributive ed alla regolarizzazione contributiva, anche ai sensi dell’art. 2126 c.c.;

il motivo è infondato, in quanto la pronuncia della Corte territoriale non può essere intesa nel senso di avere omesso di decidere sulla questione relativa al pagamento delle retribuzioni per l’attività che, di fatto ed a prescindere dalla possibilità giuridica di costituire un valido rapporto di lavoro formale, sarebbe stata svolta con modalità subordinate in diretta dipendenza dal Ministero;

la pronuncia di appello va viceversa intesa come tale da aver ricompreso la reiezione di tale pretesa nella complessiva pronuncia di rigetto delle domande patrimoniali di differenze retributive, quale che fosse il titolo giuridico esatto di esse, per essere mancata sufficiente prova del perceptum;

il fatto che tale assimilazione comporti un errore rispetto alla domanda ex art. 2126 c.c., per quanto si dirà subito di seguito rispetto al quinto motivo, nulla ha a che vedere con il vizio di omessa pronuncia, che erroneamente è stato quindi posto a fondamento del motivo qui in esame;

3. in effetti il quinto motivo, adducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. ed agli artt. 414,421,437 e 345 c.p.c. e omessa valutazione delle prove documentali con riferimento alla domanda volta al pagamento delle differenze retributive per le prestazioni di fatto rese alle dipendenze del Ministero, è in sè fondato nella parte in cui imputa alla sentenza impugnata in via diretta, e non per il tramite dell’omessa pronuncia, l’errore di diritto nell’applicazione del predetto art. 2126 c.c.;

3.1 in primo grado, il ricorrente ha agito insistendo per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con il Ministero, in ragione dell’illegittima interposizione o somministrazione da parte del proprio formale datore di lavoro e dello svolgimento di fatto delle prestazioni alle dipendenze dirette di personale ministeriale anche al di là delle previsioni dei contratti di fornitura di manodopera ed oltre il termine finale degli stessi, con la consequenziale condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive rispetto a quanto percepito dalla propria datrice formale (Data Service s.p.a., ora BE s.p.a.);

appellando la pronuncia di rigetto del Tribunale, il ricorrente ha censurato la sentenza di primo grado per non avere esaminato, pur se il rapporto di lavoro formale non poteva essere riconosciuto, la domanda di pagamento delle differenze retributive sub specie dell’art. 2126 c.c., in ragione dell’attività in concreto svolta in un rapporto di fatto munito delle sembianze proprie della subordinazione diretta con il Ministero; tale pretesa poteva essere fatta valere con l’atto di appello, in quanto essa costituisce un minus ricompreso nell’ambito della più ampia domanda dispiegata sui medesimi presupposti fattuali;

la domanda di accertamento, in ragione delle modalità di attuazione delle prestazioni, dell’esistenza di un rapporto di lavoro con un certo datore di lavoro, si fonda, in fatto, sulla deduzione delle predette modalità come tali da far ravvisare in capo ad una parte la posizione datoriale ed in capo all’altra quella del lavoratore dipendente;

l’effetto giuridico del sorgere di un rapporto di lavoro dipendente con chi operi come datore può poi essere ipotizzato quale conseguenza della fattispecie minima del verificarsi, in sè solo, di tale relazione di fatto, come anche essere, nei casi in cui si manifestino vicende di interposizione, da possibili invalidità dell’interposizione o fornitura di manodopera o quant’altro;

se da tali fatti deriva il sorgere di un rapporto di lavoro, le differenze retributive sono dovute quale effetto dello stesso;

se però da tali fatti, per divieti normativi che lo impediscono, quel rapporto non sorge, la previsione dell’art. 2126 c.c., è essa stessa fonte del diritto al trattamento retributivo dovuto per il lavoro in concreto prestato;

come già ritenuto da Cass. 25169/2019 cit., la pretesa di riconoscimento di quest’ultimo diritto, quale conseguenza di quei fatti storici, non introduce dunque elementi nuovi nel contraddittorio delle parti, nè altera la connotazione della causa petendi, ma solo ne valorizza un unico aspetto minore (svolgersi di fatto della prestazione subordinata) che, in diritto, secondo il principio iura novit curia, va soltanto giudizialmente qualificato come tale da produrre l’effetto perseguito (differenze retributive), in ragione del disposto della corrispondente norma che lo prevede, ovverosia dell’art. 2126 c.c.;

caso diverso sarebbe quello in cui l’azione di pagamento fosse stata intentata in ipotesi sull’esclusivo fondamento della sottoscrizione di un contratto di lavoro, potendosi in tal caso sussistere un disallineamento tra causa petendi originaria (esistenza di un formale contratto) e fattispecie di cui all’art. 2126 c.c., (attuazione della prestazione pur in assenza di un valido contratto o rapporto) che non consentirebbe di ravvisare quella relazione tra allegazioni che sta a fondamento della valutazione di continenza che fonda il decisum;

nel caso di specie l’intera causa petendi è stata palesemente centrata sulle modalità di fatto di svolgimento del rapporto e dunque non vi è ostacolo alla disamina della domanda di pagamento delle retribuzioni ex art. 2126 c.c.;

3.2 ciò premesso, in analogia a quanto deciso da Cass. 25169/2019 cit., va affermata la fondatezza del quinto motivo, nella parte in cui con esso si fa rilevare come, avendo l’azione ex art. 2126 c.c., natura non risarcitoria, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare i fatti costitutivi dello svolgimento delle prestazioni lavorative, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare quanto percepito in ragione della medesima vicenda sostanziale;

si tratta di fare applicazione degli ormai risalenti e più che consolidati principi generali per cui in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per (…) l’adempimento o che agisca deducendo anche solo l’inesatto adempimento “deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto…, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento” (Cass., S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533), poi applicati anche a vicende di ambito lavoristico (v. ad es., in sostanza Cass. 27 marzo 2009, n. 7524, in tema di mansioni superiori); è del resto pacifico che l’azione ex art. 2126 c.c., quale fonte di un’obbligazione prevista direttamente dalla legge e non derivante (come è per la responsabilità extracontrattuale da fatto illecito) dalla violazione del principio generale del neminem laedere, ha titolo lato sensu contrattuale (secondo argomenti già in parte desumibili da Cass., S.U. 26 giugno 2007, 14712) e natura retributivo – corrispettiva (Cass. 13 marzo 2018, n. 6046; Cass. 3 febbraio 2012, n. 1639);

nè ha rilievo il fatto che, in casi come quello di specie, i pagamenti da detrarre provengano da un terzo, ovverosia dalla società interposta;

infatti, nulla osta a che il debitore, al fine di dimostrare il percepito, insti per le opportune esibizioni da parte del solvens, se del caso disponibili anche ex officio ai sensi degli artt. 421 o 437 c.p.c. o attraverso il licenziamento di c.t.u. mirata, in occasione dell’incarico inerente i corrispondenti calcoli, all’acquisizione anche dei documenti a ciò necessari (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32265), ferma altresì la possibilità di ricorrere, ove se ne diano i presupposti di gravità, precisione e concordanza, alla prova presuntiva, sempre per la deroga che l’art. 421 c.p.c., consente anche rispetto all’art. 2726 c.c. e art. 2729 c.c., comma 2;

4. vanno invece disattesi, come già fu per analoghi motivi proposti nella causa decisa da Cass. 25169/2019 cit., il sesto, il settimo e l’ottavo motivo;

4.1 essi sono formulati con riferimento alla domanda proposta “in ogni caso” di risarcimento del danno conseguente al comportamento tenuto dalla P.A., in particolare, il sesto motivo afferma la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, anche in relazione agli artt. 2727 e 2697 c.c. e agli artt. 115 e 116 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 36 Cost., nonchè omessa ed errata valutazione delle prove documentali in relazione alla domanda di risarcimento dei danni;

il settimo motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, assume invece l’omesso esame di un fatto decisivo, avendo la Corte d’Appello deciso “su di una realtà diversa da quella processualmente ricavabile dagli atti del giudizio” ed infine l’ottavo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c. ed afferma la nullità della sentenza e l’insufficiente ed incongrua esposizione delle ragioni di fatto e di diritto in punto di mancato assolvimento dell’onere probatorio;

4.2 da un primo punto di vista, la sentenza di appello ha disatteso le pretese risarcitorie ritenendo che quanto afferente alla c.d. precarizzazicne fosse stato oggetto di deduzione assolutamente generica, senza contare che le lavoratrici non avrebbero potuto vantare alcun diritto all’assunzione;

rispetto a tale profilo, il sesto motivo di ricorso è parimenti del tutto generico, fondandosi sull’apodittica e non meglio motivata affermazione secondo cui tale danno, come anche quello per le differenze retributive perdute, sarebbe in re ipsa, il tutto senza reale aggancio critico rispetto alla motivazione del giudice di merito, mancano dunque i minimi estremi utili allo scrutinio di tale aspetto in sede di legittimità;

4.3 da altro punto di vista la Corte territoriale, pur ritenendo fondato il rilievo del ricorrente secondo cui il trattamento retributivo da prendere a riferimento avrebbe potuto essere acquisito anche d’ufficio da parte del giudice, ha affermato che sarebbe difettata, nel caso di specie, l’indicazione di quanto fosse stato già percepito nel corso del rapporto di lavoro;

tale affermazione è corretta in fatto ed in diritto;

lo stesso ricorrente fa riferimento, per gli importi percepiti, alle retribuzioni desumibili dalle buste paga, ma egli stesso, nel riferirsi alla corrispondente produzione (n. 85) precisa (v. pag. 44 del ricorso) che si trattava di una sola busta paga, come tale del tutto inidonea a comprovare l’effettiva percezione di somme verificatasi nell’arco di tutto il rapporto di lavoro;

pertanto, sul punto, la critica mossa alla sentenza impugnata – che esprime una ben precisa motivazione, il che evidenzia l’assoluta infondatezza anche dell’ottavo motivo con cui è addotta la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – va disattesa e ciò anche al di là del fatto, comunque da rilevare, che “in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno subito dal lavoratore nell’ipotesi di contratto di lavoro nullo per violazione delle disposizioni che regolano le assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, di cui sia chiesto il risarcimento ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, … non coincide con le retribuzioni ed i correlati oneri contributivi e previdenziali, dal momento che tali voci sono comunque dovute, in virtù del principio di corrispettività di cui all’art. 2126 c.c., per le prestazioni eseguite durante lo svolgimento in via di fatto del rapporto di lavoro” (Cass. 6046/2018, cit.); deve del resto considerarsi la diversità che sussiste tra azione risarcitoria, in cui il presunto danneggiato deve allegare e dimostrare il danno (sicchè, ove per danno si dovessero intendere differenze retributive, effettivamente il lavoratore sarebbe onerato dell’allegazione anche del perceptum, onde fissare il ristoro nella differenza rispetto al percipiendum) e l’azione di adempimento, quale è quella ex art. 2126 c.c..

ove, per le regole generali sopra richiamate, chi agisce è tenuto solo ad allegare quanto spettante ed è il debitore a dover provare il percepito, quale fatto estintivo del proprio debito;

5. in definitiva, con la reiezione dei primi tre motivi di ricorso, resta confermato il rigetto della domanda di accertamento del sorgere di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra il ricorrente ed il Ministero convenuto, mentre la reiezione del sesto, settimo e ottavo motivo rende definitivo il rigetto della domanda a titolo risarcitorio; resta invece da esaminare in sede di rinvio, per effetto dell’accoglimento del quinto motivo, la domanda di adempimento ex art. 2126 c.c., previa verifica in merito alla ricorrenza di un rapporto lavorativo di fatto tra il ricorrente ed il Ministero e quindi, in caso positivo di tale scrutinio, con valutazione dei profili istruttori e dei rispettivi oneri probatori secondo l’assetto delineato al punto 4 che precede;

va da sè l’assorbimento del nono motivo, con cui si lamenta il mancato accoglimento delle istanze istruttorie, in quanto l’esame di esse, omesso anche perchè la domanda ex art. 2126 c.c. è stata respinta dalla Corte d’Appello per valutazioni sulla prova del quantum ritenute assorbenti ma erroneamente impostate in diritto, dovrà avere corso a cura del giudice del rinvio.

PQM

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, rigetta i primi quattro motivi nonchè il sesto, il settimo e l’ottavo motivo, assorbito il nono, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nelle Camere di Consiglio, il 16 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020

 

 

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