Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19540 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. I, 18/09/2020, (ud. 17/07/2020, dep. 18/09/2020), n.19540

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30230/2018 proposto da:

Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

S.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1588/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/07/2020 dal Consigliere VELLA Paola.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Milano ha respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero della protezione sussidiaria o in subordine di quella umanitaria, proposta dal sig. S.S., nato a (OMISSIS), il quale aveva dichiarato di non aver studiato, di aver svolto il lavoro di imbianchino e di essere stato costretto a lasciare il suo Paese nell’aprile 2014, appena maggiorenne, a causa delle condizioni di estrema povertà della famiglia, per provvedere al mantenimento dei genitori (essendo il padre malato di cuore) e dei due fratelli più piccoli; di essersi recato dapprima in Libia e poi, a causa della guerra, in Italia, dove er arrivato nell’agosto del 2014.

La Corte di appello di Milano ha accolto parzialmente l’appello del ricorrente, riconoscendo solo il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Avverso tale decisione il Ministero dell’interno ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. L’intimato non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per avere la Corte d’appello “omesso di accertare la sussistenza di esigenze umanitarie specificamente riferibili alla persona dell’appellante” e riconosciuto il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari solo in considerazione del grado di integrazione potenziale del richiedente.

2.1. Il secondo mezzo prospetta la “nullità della sentenza per carenza e/o contraddittorietà della motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)” nel senso che essa sarebbe “priva di motivazione” per avere la corte d’appello fatto generico riferimento “al grado di integrazione sociale del richiedente ovvero alle sue difficoltà economiche in caso di rimpatrio” nonchè alla situazione generale del Bangladesh, non integranti una situazione di vulnerabilità personale.

3. Entrambi i motivi sono inammissibili.

4. Con riguardo alla censura motivazionale, occorre ricordare che, dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile nella specie ratione temporis – il sindacato di legittimità sulla motivazione si è ridotto, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, al “minimo costituzionale”, nel senso che “l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce – con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza” – nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”” (Cass. Sez.U, 8053/2014, 21216/2015; cfr. Cass. Sez.U, 33017/2018; v. Cass. 12928/2014, 13641/2016, 20207/2016).

4.1. Nessuna delle indicate evenienze riguarda la sentenza impugnata, la cui motivazione, lungi dall’essere inesistente o contraddittoria, supera ampiamente il suddetto livello minimo, articolandosi in una serie di valutazioni e apprezzamenti di fatto che, in quanto riservati al giudice del merito, non sono stati nemmeno correttamente censurati secondo i canoni del novellato art. 360 c.p.c., n. 5), i quali postulano l’indicazione di un fatto storico, principale o secondario – la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali – che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia, con onere del ricorrente di indicare (ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)) il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 8053/2014, 8054/2014, 1241/2015; Cass. 19987/2017, 7472/2017, 27415/2018, 6383/2020, 6485/2020, 6735/2020).

5. Quanto alla pretesa violazione di legge, la censura non coglie l’effettiva ratio decidendi della decisione impugnata, che ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria fa leva su una serie di aspetti di carattere personale tali da integrare, ad avviso del giudice a quo, un profilo di “particolare fragilità”, avendo il richiedente dovuto lasciare il paese di origine in giovanissima età per provvedere al sostentamento della famiglia, che “non era stata neppure in grado di fornirgli il sostentamento per il raggiungimento di un grado di istruzione minimo”; quindi, appena maggiorenne, “ha affrontato la traumatica esperienza della ricerca di migliori condizioni di vita per sè e dunque per la propria famiglia di origine, in un contesto ambientale lontanissimo e assai diverso da quello nel quale era nato e cresciuto”, ivi compresa “la traumatica esperienza dell’arrivo e del soggiorno in Libia, affrontando poi la traversata del mediterraneo in un barcone”; sin dal 2014 egli “in Italia è cresciuto e si è radicato e sta cercando di porre le basi per un’esistenza dignitosa”, lavorando come colf in forza di regolare contratto; un forzato rimpatrio esporrebbe quindi il giovane “ad una situazione di gravissima difficoltà personale ed economica, accentuata in ogni caso dalla rilevante criticità che caratterizza il Bangladesh”, una nazione in cui ancora un terzo della popolazione vive in condizioni di grave povertà e (come emerge dal rapporto di Amnesty International 2016-2017) sussistono “gravi violazioni dei diritti civili”, nonchè “arresti arbitrari, sparizioni forzate, uccisioni illegali, tortura nelle carceri e altre forme di maltrattamenti nonchè la compressione significativa della libertà di espressione”.

5.1. Orbene, la decisione così puntualmente motivata appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte e, in particolare, con il recente approdo delle Sezioni Unite, le quali, con la sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, hanno affermato i seguenti principi di diritto: 1) “In tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge”; 2) “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

5.2. Le stesse Sezioni Unite hanno altresì chiarito (dando continuità all’orientamento inaugurato da Cass. 4455/2018) che il permesso di soggiorno per motivi umanitari non può essere riconosciuto al cittadino straniero “considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia”, e che il diritto non può essere affermato “in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (v. Cass. 17072/2018), poichè altrimenti si avrebbe riguardo “non già alla situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto a quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti”, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, dovendosi invece procedere – come ha fatto il giudice a quo – “ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio” (v. Cass. 9304/2019).

5.3. In effetti, il “rilievo centrale” assegnato alla predetta valutazione comparativa ha proprio lo scopo “di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale” (Cass. Sez. U, nn. 29459, 29460, 29461 del 2019; Cass. 630/2020); verifica, questa, che il giudice può effettuare anche esercitando i propri poteri istruttori officiosi, purchè il ricorrente abbia assolto l’onere di allegare i fatti costitutivi del diritto azionato (Cass. 27336/2018, 8908/2019, 17169/2019).

6. Alla luce delle esposte considerazioni, va applicato il principio nomofilattico per cui deve ritenersi inammissibile il “ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (Cass. Sez. U, 34476/2019).

7. L’assenza di difese dell’intimato esonera dalla pronuncia sulle spese, mentre occorre dare atto della sussistenza in astratto dei presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (cfr. Cass. Sez. U, 23535/2019 e 4315/2020).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

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