Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7299 del 26/03/2010
Cassazione civile sez. II, 26/03/2010, (ud. 14/01/2010, dep. 26/03/2010), n.7299
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –
Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –
Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –
Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere –
Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 1036/2005 proposto da:
M.F. (OMISSIS), G.R.
(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIUSEPPE
PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELETTI Alberto, che li
rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANGELERI LUCA;
– ricorrenti –
contro
V.A. (OMISSIS), P.M.
(OMISSIS), P.A. (OMISSIS),
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PAVIA 28, presso lo studio
dell’avvocato PORPORA Raffaele, che li rappresenta e difende
unitamente all’avvocato SCOTTA PIER GIORGIO;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1108/2004 della CORTE D’APPELLO di TORINO,
depositata il 08/07/2004;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del
14/01/2010 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE;
udito l’Avvocato PORPORA Raffaele, difensore dei resistenti che ha
chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso e
condanna alle spese.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 16 aprile 2002 il Tribunale di Torino – adito da M.F. e G.R., nonchè in via riconvenzionale da V.A., P.M. e P.A. – dichiarò legittimo il recesso degli attori dal contratto preliminare del (OMISSIS), con cui si erano obbligati ad acquistare un immobile dai convenuti; condannò questi ultimi al pagamento di 51.645,49 Euro, pari al doppio della caparra confirmatoria che avevano ricevuto, oltre agli interessi.
Impugnata da V.A., P.M. e P. A., la decisione è stata riformata dalla Corte d’appello di Torino, che con sentenza dell’8 luglio 2004 ha dichiarato legittimo il recesso compiuto a loro volta dai promittenti alienanti e sussistente il loro diritto a trattenere la caparra. A questa conclusione il giudice di secondo grado è pervenuto ritenendo: che era infondata l’eccezione di inammissibilità del gravame sollevata da M.F. e G.R., in quanto la richiesta di “revocare” la sentenza impugnata costituiva una semplice improprietà terminologica; che erano state formulate tardivamente le domande riconvenzionali di risoluzione di diritto del contratto e di risarcimento di danni, restando quindi ammissibile solo quella subordinata relativa alla legittimità del recesso e alla ritenzione della caparra, riproposta in appello; che dopo la scadenza del termine del 29 luglio 1997, inizialmente concordato per la stipulazione della vendita definitiva, le parti avevano manifestato l’interesse a mantenere in vita il rapporto; che gli impedimenti al rogito, attribuiti da M.F. e G.R. ai promittenti venditori, non erano a costoro addebitabili o avevano avuto incidenza nulla o scarsa; che erano stati quindi i promissari a rendersi inadempienti.
M.F. e G.R. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a sette motivi. V.A., P. M. e P.A. si sono costituiti con controricorso. Sono state presentate memorie dall’una parte e dall’altra.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso M.F. e G.R. lamentano che erroneamente il giudice a quo ha ritenuto ammissibile l’appello proposto da V.A., P.M. e P.A., pur se costoro avevano e-spressamente chiesto di “revocare” la sentenza del Tribunale.
La doglianza è infondata.
Correttamente la Corte d’appello, in presenza di un gravame diretto al giudice di secondo grado, inteso ottenere la riforma della decisione impugnata e basato su ragioni diverse da quelle indicate nell’art. 395 c.p.c., ha ravvisato “una mera improprietà terminologica” nella formulazione della conclusione di cui si tratta, in coerenza con il principio di conservazione. Non sono dunque pertinenti i precedenti giurisprudenziali richiamati dai ricorrenti, che si riferiscono alla diversa ipotesi di errore nella scelta del mezzo di impugnazione.
Il secondo e il terzo motivo di ricorso possono essere presi in esame congiuntamente, poichè con entrambi M.F. e G. R. rivolgono alla sentenza impugnata una stessa critica: avere la Corte d’appello ritenuto “ammissibile la domanda subordinata di risoluzione ex art. 1453 c.c., trasformata in domanda di recesso ex art. 1385 c.c., senza motivazione alcuna e senza che tale istanza mai fosse stata formulata dagli appellanti se non nell’atto conclusivo del procedimento di appello”, confondendo così due istituti ben distinti per presupposti ed effetti, che incongruamente erano stati invocati da V.A., P.M. e P. A. in via cumulativa anzichè alternativa.
Anche questa censura va disattesa.
Si verte in materia di interpretazione della domanda, riservata al giudice del merito e sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo dell’omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Ma per consentire la verifica della sussistenza di tali vizi, sarebbe stato necessario, in forza del principio di autosufficienza, che il ricorso contenesse la trascrizione delle conclusioni di cui si tratta, che invece non vi sono state riportate, sicchè questa Corte non è stata posta in grado di valutare se le affermazioni della sentenza impugnata, secondo cui già nel costituirsi in primo grado i convenuti avevano chiesto “l’accertamento del loro diritto a ritenere la caparra” e in appello avevano ribadito tale istanza in via subordinata, costituiscano idonea giustificazione del senso in cui la domanda in questione è stata intesa. Nè d’altra parte i ricorrenti hanno indicato le deduzioni che sul punto avessero eventualmente svolto nel giudizio a quo e che non abbiano trovato adeguata risposta da parte della Corte d’appello.
Investono accertamenti di fatto e apprezzamenti di merito anche il quarto, il quinto e il sesto motivo di ricorso, con i quali M. F. e G.R. si dolgono di ciò che con la sentenza impugnata si è ritenuto, per escludere il grave inadempimento in cui invece erano effettivamente incorsi V.A., P. M. e P.A..
Neppure queste censure possono essere accolte.
Tutti i punti cui esse si riferiscono sono stati presi in considerazione e vagliati dalla Corte d’appello, che su ognuno ha dato conto, in maniera esauriente e logicamente coerente, della relative proprie valutazioni, concordemente e univocamente convergenti nel senso che non vi era stato inadempimento dei promittenti acquirenti. I contrari assunti dei ricorrenti non possono costituire valida ragione di una pronuncia di cassazione, stanti i limiti propri del giudizio di legittimità, che sarebbero superati se questa Corte si facesse carico del compito che i ricorrenti pretendono in sostanza di demandarle, in ordine alla verifica della plausibilità dei loro assunti.
Con il settimo motivo di impugnazione M.F. e G. R. deducono che incongruamente il preteso loro inadempimento è stato meccanicamente fatto derivare dalla ritenuta insussistenza di quello di V.A., P.M. e P. A., insussistenza che comunque non poteva comportare, come conseguenza automatica, che inadempienti dovessero essere considerati i promittenti acquirenti.
La censura è da respingere, poichè in realtà a M.F. e G.R. è stata addebitata la mancata conclusione del contratto definitivo, per essere receduti ingiustificatamente dal preliminare, accampando ragioni che sono state giudicate pretestuose.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti – in solido, stante il comune loro interesse nella causa – a rimborsare ai resistenti le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in 200,00 Euro, oltre a 3.500,00 Euro per onorari, con gli accessori di legge.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido a rimborsare ai resistenti le spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00, oltre a Euro 3.500,00 per onorari, con gli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2010.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010