Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6848 del 22/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 22/03/2010, (ud. 03/02/2010, dep. 22/03/2010), n.6848

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IMPREGILO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO LEOPOLDO FREGOLI 8, presso

lo studio dell’avvocato SALONIA ROSARIO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato COZZOLINO FABIO MASSIMO, giusta delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CALAMATTA

27, presso lo studio dell’avvocato GRECO LUIGI, rappresentato e

difeso dagli avvocati RICCIO EUGENIO, BENEDETTO IANNITTI, giusta

delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1853/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 12/12/2005 R.G.N. 1365/05;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

03/02/2010 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito l’Avvocato COZZOLINO FABIO MASSIMO;

udito l’Avvocato IANNITTI BENEDETTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO CARLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 12 dicembre 2005 la Corte d’appello di Torino, in riforma della decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Aosta, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Impregilo s.p.a. a V.L. il 19 febbraio 2004 e condannava la società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non corrisposte.

In particolare, per quanto rileva nella presente sede, i giudici d’appello osservavano che: a) la condotta contestata al dipendente, rimasta pacificamente accertata in giudizio, era consistita nell’avere utilizzato un’auto aziendale per allontanarsi, insieme al collega R.F., dal campo-base situato a pochi chilometri dal cantiere ove essi prestavano la loro attività per i lavori di costruzione di due gallerie dell’autostrada Monte Bianco-Aosta;

b) nell’occasione, l’auto, condotta dal R., era rimasta coinvolta in un incidente stradale che aveva causato il decesso del guidatore e gravi lesioni al V., nonchè ingenti danni allo stesso automezzo; c) tale condotta, pure comportando la violazione delle disposizioni impartite dalla società in ordine al divieto di usare autovetture aziendali per uso privato, non era comunque tale da giustificare la sanzione del licenziamento, tenuto conto dell’assenza di precedenti violazioni commesse dal dipendente nonchè delle particolari contingenze del fatto, fra cui le condizioni di lavoro particolarmente disagiate nelle quali egli s’era trovato ad operare (in un campo-base lontano da centri abitati, ove i dipendenti dovevano rimanere per più settimane) e la circostanza che era stato il suo collega a prelevare l’autovettura dell’azienda.

2. Di questa sentenza la società domanda la cassazione deducendo due motivi di impugnazione, illustrati con memoria, cui il lavoratore resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 112 e 434 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, senza esaminare la sua relativa eccezione puntualmente sollevata e senza fornire al riguardo alcuna motivazione, non abbia rilevato il giudicato interno formatosi sul punto in conseguenza della assoluta genericità dell’atto di appello (sostanzialmente riproduttivo dell’originario ricorso introduttivo).

2. Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 115, 166 e 421 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione. Si lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto la ricorrenza di circostanze attenuanti non acquisite in giudizio, e comunque non provate dal lavoratore, e, peraltro, configurando erroneamente un minore grado di responsabilità del medesimo sulla base di considerazioni inadeguate, inidonee ad escludere la gravità dell’improprio uso dell’autovettura aziendale, e differenziando erroneamente – in contrasto con quanto accertato dal giudice di primo grado – la condotta del V. rispetto a quella del suo collega;

la Corte, poi, ha motivato in maniera apodittica la sua conclusione, senza riferimenti, fra l’altro, alle previsioni della contrattazione collettiva, e avrebbe dovuto comunque procedere, d’ufficio, alla conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

3. Il primo motivo non è fondato.

La deduzione di inammissibilità dell’appello, e di conseguente formazione del giudicato interno, è smentita dall’accertamento – contenuto nella sentenza qui impugnata – della avvenuta proposizione con l’atto di gravame di “considerazioni, comunque introdotte, sia pur succintamente” circa la proporzionalità della sanzione irrogata;

e la conseguente valutazione operata al riguardo, che ha presupposto la implicita reiezione dell’eccezione formulata dalla società appellata, si sottrae alle censure mosse in questa sede, poichè la esclusione del giudicato si fonda, evidentemente, sulla ritenuta devoluzione della anzidetta questione di proporzionalità del licenziamento (non essendo necessaria, ai fini della valutazione della specificità dell’appello, una analitica disamina e trascrizione di tutte le censure formulate). Lo stesso contenuto dell’appello – come riportato in parte qua dalla società ricorrente – esclude, d’altra parte, l’asserita genericità, essendovi precisi riferimenti alle modalità di svolgimento della prestazione e a specifiche circostanze di fatto che dovevano far ritenere, a dire del lavoratore appellante, la eccessività della reazione datoriale.

4. Anche il secondo motivo è infondato.

In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che della mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia. In particolare, con riferimento a fattispecie analoghe a quella in esame, nella giurisprudenza di questa Corte si è esclusa la proporzionalità del licenziamento ove la condotta del lavoratore (per esempio, l’abbandono momentaneo del posto di lavoro in orario notturno), se pure in contrasto con obblighi imposti dal contratto di lavoro, non determini il blocco del lavoro o un grave danno per l’attività produttiva, tenuto anche conto delle modalità del rapporto e della mancanza di precedenti disciplinari (cfr., da ultimo, Cass. n. 14586 del 2009).

Nella specie, la configurazione di una sproporzione della sanzione irrogata muove dalla considerazione di molteplici circostanze, che si sottrae in ogni profilo alle censure della società. In primo luogo, la circostanza che il V. era stato invitato dal suo collega a salire sull’autovettura aziendale era acquisita agli atti, come riferisce la stessa ricorrente riportando le motivazioni dell’ordinanza cautelare intervenuta fra le parti, e la sua valorizzazione da parte dei giudici d’appello non può ritenersi preclusa per effetto di alcun giudicato, essendo finalizzata non tanto ad escludere la illiceità della condotta del lavoratore quanto a specificarne i contenuti soggettivi in relazione alle conseguenze sanzionatone. Parimenti, la valutazione delle condizioni di lavoro, di particolare disagio, nelle quali il V. e gli altri lavoratori erano chiamati ad operare appare sorretta da adeguata motivazione e non è suscettibile di censure – come quelle mosse dalla ricorrente – che si risolvono in una valutazione diversa delle medesime circostanze di fatto esaminate dal giudice di merito.

Infine, quanto alla assenza di precedenti violazioni, la considerazione della sentenza impugnata, sebbene non contenga specifici riferimenti a risultanze acquisite in giudizio, non viene comunque smentita dalla società, neanche in questa sede.

4.1. Infine, la considerazione della sentenza impugnata in ordine alla non proporzionalità del licenziamento, “apparendo più idonea una sanzione di minor gravità”, è scaturita dall’esame della contrattazione collettiva (in relazione alla quale la stessa ricorrente non invoca una automaticità sanzionatoria) ed ha evidentemente comportato una valutazione di non convertibilità delle ragioni del licenziamento, essendosi comunque escluso la sussistenza dei presupposti della sanzione espulsiva; e la valutazione appare conforma al generale principio enunciato da questa Corte in fattispecie relative ad indebito uso di beni aziendali, secondo cui, ai fini del licenziamento, l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, (cfr. Cass. n. 25743 del 2007).

5. In conclusione, il ricorso è respinto. La ricorrente va condannata al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, con liquidazione come in dispositivo (rivelandosi inammissibile, in mancanza di impugnazione, l’istanza del resistente intesa alla condanna della società alle spese “di tutti i gradi di giudizio”).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 16,00 per esborsi e in euro duemila per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2010

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