Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15399 del 20/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/07/2020, (ud. 30/10/2019, dep. 20/07/2020), n.15399

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13499/2015 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GRAMSCI 7,

presso lo studio dell’avvocato MICHELA CONCETTI, rappresentato e

difeso dall’avvocato DOMENICO MESITI;

– ricorrente –

contro

G.D.L. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

MARIA CATERINA INZILLO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1939/2014 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 18/12/2014 r.g.n. 369/2013.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVA

che:

con sentenza n. 1939 in data 28 novembre 2014, pubblicata il successivo 18 dicembre e notificata il 23 marzo 2015, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, definitivamente decidendo il gravame interposto da G.D.L. n. S.r.l. con ricorso del 12 aprile 2013 nei confronti di M.A., con riferimento alle pronunce n. 769 del 12 aprile 2012 e n. 752 emessa il 3 luglio 2009 dallo stesso giudice del lavoro di Palmi, disattesa ogni altra istanza, eccezione e deduzione, così provvedeva: 1) in parziale accoglimento dell’appello, annullava la sentenza n. 752 del 2009 ed in parziale riforma della pronuncia n. 769 del 2012, confermata quanto alla declaratoria di inefficacia della rinunzia-transazione sottoscritta ex art. 2113 c.c., dall’anzidetta M. in data 6 giugno 2007, alla disposta conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far luogo dal 20 maggio 2005, nonchè infine alla condanna della società appellante al ripristino del rapporto di lavoro, eliminava la statuizione di condanna di detta società al pagamento della somma di 9150,00 Euro e rideterminava nel numero di sei mensilità dell’ultima retribuzione di fatto da corrispondersi dalla stessa G.D.L. n. ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, a favore di M.A.; 2) dichiarava compensate per 1/3 tra le parti le spese di primo grado del giudizio liquidate per l’intero in Euro 4900,00 e condannava la società G.D.L. n. al pagamento della restante quota di 2/3, oltre accessori, con distrazione a favore del procuratore anticipatario costituitosi per la M., avv. Domenico Mesiti; 3) poneva definitivamente le spese di c.t.u., riferite al compenso dovuto al perito grafico, già liquidate con separato decreto indicato nella sentenza n. 752/2009, a carico di entrambe le parti, nella misura del 50% ciascuna; 4) dichiarava compensate per 2/3 tra le stesse parti le spese relative al secondo grado del giudizio, liquidate per l’intero in Euro 3310, con la condanna della M. al pagamento, in favore della società, della restante quota di 1/3, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e c.p.a.;

“dunque, la sentenza di appello confermava l’inefficacia della pretesa conciliazione, nonchè la declaratoria di nullità del contratto a termine con decorrenza 20 maggio 2015, rideterminando poi l’indennità di cui al cit. art. 32 nella misura di sei mesi mensilità.

In effetti, con il ricorso introduttivo del 25 gennaio 2008 l’attrice M.A. aveva convenuto in giudizio la S.r.l. G.D.L. n. con riferimento al rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di tale convenuta dal 20 maggio 2005 al 19 maggio 2007, però senza la sottoscrizione di alcun contratto, laddove poi in data 20 maggio 2006, quindi dopo un anno dall’assunzione, la lavoratrice aveva ricevuto da parte datoriale una lettera con la quale le si comunicava la proroga fino al 19 maggio 2007 di un contratto di lavoro a tempo determinato, asseritamente instaurato il 20 maggio 2005 con scadenza al 19 maggio 2006. Inoltre, l’attrice aveva dedotto che nelle buste paga relative all’intero arco temporale risultavano indicate somme al netto, effettivamente percepite e somme di importo variabile indicate come acconti, e quindi trattenute poichè già percepite in precedenza, però mai riscosse secondo la stessa M.. In data 7 giugno 2007, quindi dopo la scadenza del rapporto di lavoro, era stato sottoscritto un documento con il quale la lavoratrice dichiarava di percepire la somma di Euro 2056 a titolo di saldo del trattamento di fine rapporto per il servizio prestato dal 20 maggio 2005 al 19 maggio 2007 e di non aver altro pretendere, per cui ai sensi dell’art. 2113 c.c., accettava la somma indicata a totale e definitiva soddisfazione di ogni e qualsiasi diritto. Tuttavia, tale dichiarazione era stata impugnata con lettera del 12 luglio 2007, laddove era stato dedotto che il rapporto doveva intendersi instaurato fin dall’inizio a tempo indeterminato per carenza di forma scritta, e che era pure invalida la rinunzia in data 6 giugno 2007, sicchè parte datoriale doveva pagare le differenze retributive inerenti agli acconti mai riscossi, mettendo inoltre formalmente a disposizione della convenuta le proprie energie lavorative. Nel costituirsi in giudizio la società resisteva alle pretese avversarie, facendo presente che l’attrice aveva sottoscritto il contratto di lavoro, nonchè la lettera con la quale era stata comunicata l’assunzione in data 20 maggio 2005, producendo copia fotostatica di tali documenti. A seguito del disconoscimento operato dalla M., la società formulava istanza di verificazione e il giudice del lavoro adito disponeva perizia

– grafica, per cui all’esito dell’espletata c.t.u. (in base alla quale le firme di cui alle anzidette copie dei documenti prodotti da parte convenuta risultavano del tutto identiche alle sottoscrizioni apposte dalla M. nelle buste paga di maggio e giugno 2006, sicchè doveva ritenersi che le grafie disconosciute erano il risultato dell’illegittima trasposizione, mediante operazioni di fotocomposizione, sugli atti prodotti in giudizio) il giudice del lavoro di Palmi all’udienza del 17 aprile 2009 sospendeva il giudizio principale e con sentenza n. 752 del 3 luglio 2009 “definitivamente”, pronunciando al riguardo, accertava che le sottoscrizioni ” M.A.” apposte sul contratto di lavoro a tempo determinato del 20 maggio 2005 e sulla lettera di assunzione in pari data non erano autentiche, condannando quindi la società G.D.L. n. al pagamento delle spese all’uopo liquidate in complessivi Euro 1600,00 con distrazione a favore del procuratore anticipatario costituitosi per l’attrice. Notificata l’anzidetta pronuncia in data 15 ottobre 2009, il procuratore della società notificava a sua volta alla M. comunicazione di riserva di impugnazione in data 13 novembre 2009. Quindi, la signora M. provvedeva alla riassunzione del giudizio precedentemente sospeso, per cui, espletata prova per testi in relazione alla vicenda degli acconti, la causa veniva decisa con la sentenza n. 769 del 12 aprile 2012, mediante cui l’adito giudice del lavoro dichiarava la nullità del termine finale del suddetto contratto a tempo determinato con conseguente conversione a tempo indeterminato. Condannava, inoltre, la società al ripristino del rapporto e al pagamento dell’indennizzo di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, nella misura di 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge, nonchè al pagamento della somma di Euro 9.150,00 a titolo di acconti per i quali non veniva riconosciuta alcuna prova di avvenuta corresponsione in favore della lavoratrice. Condannava, altresì, parte convenuta al pagamento delle spese del giudizio (per la parte successiva al deposito della sentenza n. 750 del 2009), liquidate in complessivi Euro 3300,00 con distrazione a favore del procuratore antistatario;

avverso le anzidette pronunce la società G.D.L. n. proponeva appello, quindi deciso come da succitata pronuncia n. 1939 del 2014;

secondo la Corte territoriale il gravame risultava in parte fondato. In primo luogo, la sentenza n. 752 del 2009 doveva qualificarsi – a prescindere dall’erronea denominazione adoperata dal primo giudicante – come decisione non definitiva o parziale, in quanto per il suo contenuto era tale da aver deciso in concreto soltanto la questione incidentale inerente alla verificazione delle sottoscrizioni apposte sulle anzidette copie di scritture private, sicchè non era tale da decidere definitivamente le domande formulate con il ricorso introduttivo del giudizio. Infatti, con l’istanza di verificazione si determinava l’inizio di un procedimento meramente incidentale, che si inseriva in quello principale, nel senso che non aveva una propria formale autonomia, dovendosi svolgere all’interno di quel processo e dovendo essere deciso con la stessa sentenza che definiva entrambe le cause (principio non rispettato dal giudice di primo grado). A tal riguardo veniva richiamata dalla Corte distrettuale la sentenza di Cass. 10 agosto 1979 n. 4651 (invero così massimata in via ufficiale Rv. 401193, in tema di PROVA CIVILE – DOCUMENTALE – SCRITTURA PRIVATA – VERIFICAZIONE – PRONUNCIA DEL COLLEGIO – ISTANZA DI VERIFICAZIONE IN VIA INCIDENTALE – PRONUNZIA NEL CONTESTO DELLA SENTENZA DEFINITIVA DELLA CAUSA PRINCIPALE – NECESSITA’: nell’ipotesi di proposizione dell’istanza di verificazione di una scrittura privata disconosciuta in via incidentale, la pronunzia su di essa non può non avvenire nel contesto della sentenza che definisce la causa principale, mentre la irrogazione di una pena pecuniaria a carico della parte che abbia infondatamente disconosciuto il documento costituisce una mera facoltà del giudice, tenuto solo a giustificarne l’esercizio;

il procedimento incidentale di verificazione della scrittura privata disconosciuta, a differenza di quello proposto in via principale, ha funzione strumentale, avendo contenuto e finalità istruttori ed inquadrandosi nell’ambito dell’attività probatoria delle parti, in quanto non è fine a sè stesso, ma è preordinato alla utilizzazione nel processo della prova documentale. Pertanto, per la proposizione in via incidentale dell’istanza di verificazione della scrittura privata disconosciuta, non sono richieste determinate forme, potendo il giudice ravvisare la volontà di chiedere la verificazione e quindi di servirsi del documento disconosciuto in un comportamento concludente, anche senza l’uso di formule sacramentali;

anche nel giudizio di verificazione della scrittura privata disconosciuta il giudice, potendo e dovendo utilizzare tutti gli elementi di prova comunque acquisiti senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le fonti probatorie, non è obbligato a disporre una consulenza tecnica, qualora gli elementi di comparazione già acquisiti al processo siano, a suo giudizio, attendibili e conferenti per verificare l’autenticità della sottoscrizione e tali da consentirgli, in relazione all’evidente e manifesta conformità o difformità dei caratteri grafici usati per la sottoscrizione da verificare, rispetto a quelli delle scritture di comparazione, di ritenere provata o non provata la domanda di verificazione).

Pertanto, ad avviso della Corte reggina, correttamente era stata formulata riserva di appello, non potendosi affermare l’obbligo della società di proporre gravame immediato avverso una sentenza di per sè non definitiva. Inoltre, tale decisione era in radice affetta da vizio che ne determinava l’annullamento, siccome in contrasto con la finalità della procedura di cui agli artt. 214 c.p.c. e segg., essendo possibile richiedere la verificazione anche con riferimento a fotocopia di scrittura privata, dovendo però in tal caso la parte che abbia esibito la copia produrre l’originale del documento, ciò che nel caso di specie non era avvenuto ad opera della società e che il giudice adito non aveva neppure rilevato. Inoltre, la società convenuta non aveva fornito altrimenti la prova del contenuto del documento con i mezzi ordinari, nei limiti della loro la ammissibilità. Infatti – in tal modo esaminandosi il motivo di appello concernente la possibilità di dimostrare l’avvenuto perfezionamento del contratto asseritamente a termine, ancorchè non redatto per iscritto – occorreva richiamare la forma prevista, invece, ad substantiam dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 (L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta,

direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono altresì specificate le ragioni di cui al comma 1). L’inefficacia derivante dalla mancata adozione della forma scritta era quindi da parificarsi alla nullità. Trattandosi di forma scritta ad substantiam, la prova per testi o per presunzione del contenuto dell’atto contrattuale nullo poteva essere fornita unicamente nel caso in cui la società avesse dimostrato – onere però nella specie rimasto in adempiuto – di aver senza sua colpa smarrito il documento occorrente, ex artt. 2724 e 2725 c.c.. Per giunta, in base alla citata giurisprudenza occorreva che lo scritto fosse anteriore o quantomeno contestuale all’inizio del rapporto (a tempo determinato), formalità tuttavia non soddisfatta dalla richiesta del datore di lavoro ovvero dal provvedimento di avviamento del lavoratore da parte dell’ufficio di collocamento. Ne derivava l’ininfluenza, ai fini della decisione dell’assunzione della signora M., la richiesta della società all’ufficio del lavoro. Parimenti, la proroga, di cui allo scritto in data 20 maggio 2006, del rapporto a termine instaurato di fatto un anno prima, ossia dal 20 maggio 2005, ma senza la necessaria forma scritta era intervenuta allorquando, per carenza di tale forma, il rapporto già ab origine si era convertito in contratto a tempo indeterminato. Quanto, poi, alla misura dell’indennità di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, inizialmente dal primo giudicante liquidata nella misura di 10 mensilità in considerazione soprattutto del contegno di parte datoriale con l’introdurre documenti giudicati non autentici, la Corte distrettuale teneva conto dell’annullamento della sentenza che del tutto irritualmente aveva posto alla base dell’anzidetto giudizio di verificazione fotocopie di scritture private e, considerate pure le modeste dimensioni della società siccome affermate nell’atto d’appello e non contestate ex adverso, nonchè la durata biennale non breve, ma neppure lunghissima, del rapporto a termine, stimava congrua la rideterminazione dell’indennità in ragione di sei mensilità della retribuzione globale di fatto. Meritava, altresì, accoglimento il motivo di gravame inerente alla condanna al della somma di Euro 9150,00 per gli acconti che si assumevano mai di fatto corrisposti. Secondo la Corte territoriale, pur risultando corretta la statuizione circa il principio dell’onere probatorio a carico del debitore riguardo alla dimostrazione dei fatti estintivi dell’obbligazione, nel caso di specie occorreva considerare la struttura delle buste paga, pacificamente sottoscritte dalla lavoratrice, in ciascuna delle quali la somma indicata come acconto (variante da 250 a 800/900 Euro, di solito per importi di 400/450) era stata riportata tra le trattenute inerenti ad anticipi di retribuzione sulla stessa busta nella quale “tali acconti non figuravano al netto, bensì per l’appunto tra le trattenute, al pari di quelle fiscali. Lo spazio dove era posta la sottoscrizione della lavoratrice era proceduto dalla seguente dicitura “ritiro copia del presente prospetto unitamente all’importo dell’netto pagato dopo aver riscontrato esatte le voci e i tempi della retribuzione”. Secondo la Corte distrettuale, quindi, con tale dicitura inequivocabilmente la lavoratrice mediante la propria sottoscrizione aveva finito per ammettere di aver ricevuto la consegna dell’acconto prima della corresponsione dell’netto in busta paga, avendo riscontrato l’esattezza delle voci e dei tempi della retribuzione. Ne derivava che in casi come questo l’onere della prova di non aver ricevuto gli acconti de quibus, nonostante la sottoscrizione di una dichiarazione di scienza articolata nell’anzidetto modo impegnativo, gravava sulla lavoratrice, che nella concreta fattispecie non aveva chiesto di provare alcunchè. Le risultanze della prova testimoniale articolata dalla società non consentivano di ritenere che da esse fosse stata smentita la corresponsione di anticipazioni, avuto riguardo alle dichiarazioni rese dal teste C., ragioniere della società, il quale aveva confermato la consegna di acconti, previa autorizzazione del titolare dell’impresa, da parte sua ai diversi lavoratori, tra cui la M.. Nè decisiva appariva la deposizione della teste Ca.An. (indicata dalla società come persona che in alcune occasioni era stata delegata dalla M. al ritiro degli acconti da consegnarsi ad opera del suddetto ragioniere), la quale aveva riferito di una sola occasione in cui, senza far menzione di acconti, aveva ritirato lo stipendio mensile della M., nella circostanza impedita da malattia. Infatti, il teste C., secondo la Corte d’Appello, con maggiore precisione aveva fatto riferimento nel corso della sua deposizione alla persona della CA. come quella che, nel periodo di maternità della M., per conto di quest’ultima aveva ritirato la busta paga o gli acconti. Quanto, poi, al regolamento delle spese di lite, quelle di primo grado potevano essere compensate per 1/3 in ragione della prevalente fondatezza della domanda sotto il profilo della richiesta conversione, con la condanna quindi nella restante quota a carico della datrice di lavoro. Le spese inerenti al pagamento del compenso dovuto al c.t.u., liquidato come da separato provvedimento indicato nella sentenza n. 752 del 2009, potevano essere poste a carico di entrambe le parti, non avendo nessuna di loro fatto rilevare la superfluità di un accertamento del tutto eventuale su fotocopie di scrittura privata. Quanto, invece, alle spese di appello, il solo parziale accoglimento del gravame comportava che le stesse potessero essere compensate in ragione dei 2/3, con la condanna dell’appellata M. al pagamento del residuo terzo;

avverso l’anzidetta pronuncia d’appello ha proposto ricorso per cassazione la sig.ra M., come da atto del 19 maggio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la G.D.L. n. s.r.l. mediante controricorso del 27 giugno 2015 (notifica perfezionata il 2 luglio 2015), in seguito illustrato da memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la violazione falsa applicazione degli artt. 220,324,325 e 326 c.p.c., in relazione agli artt. 295 e 297 c.p.c. (errores in procedendo, per non aver ritenuto il passaggio in giudicato nella prima sentenza, a suo tempo notificata e non tempestivamente appellata, con la quale l’adito giudice del lavoro aveva accertato la contraffazione delle scritture private, prodotte in copia dalla società convenuta per dimostrare la forma scritta dell’opposto contratto a tempo determinato, forma scritta ad substantiam per altro verso giudicata non provata dalla Corte d’Appello). Il giudizio era stato infatti riassunto come da atto depositato in data 11 gennaio 2010, soltanto dopo il decorso del termine breve dalla notificazione della sentenza n. 752/09, a nulla rilevando la riserva d’impugnazione comunicata ex adverso in data 13.11.2009, tenuto altresì conto dell’attestazione di passaggio in cosa giudicata da parte della cancelleria nonchè del formale provvedimento di sospensione emesso dal giudice ex art. 295 c.p.c.;

con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 8, nonchè dell’art. 111 Cost., per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. Infatti, la Corte d’Appello da un lato aveva rilevato l’annullamento della sentenza, che del tutto irritualmente aveva posto alla base del giudizio di verificazione fotocopie di scritture private, nonchè considerato le modeste dimensioni della società siccome non contestate unitamente alla breve durata del rapporto a termine, per cui indennizzo era stato determinato nella misura di sei mensilità, mentre d’altro canto aveva rilevato la possibilità di chiedere la verificazione anche con riferimento alla fotocopie di una scrittura privata, dovendo tuttavia in tal caso la parte interessata produrre l’originale, ciò che non era avvenuto da parte della società convenuta, la quale pure aveva fornito la prova del documento con i mezzi ordinari.

D’altro canto, per effetto del rinvio da parte della L. n. 604 del 1966, art. 32, comma 5, art. 8, la Corte d’Appello avrebbe dovuto tenere conto anche del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, nonchè del comportamento delle condizioni delle parti. Ai fini del comportamento processuale occorreva rilevare che la società convenuta aveva cercato di utilizzare come prova una scrittura privata con firma non autenticata e accertata con sentenza passata in giudicato. Ad ogni buon conto, apparivano irriducibili e inconciliabili le affermazioni contenute nella sentenza impugnata, laddove si dava atto che la società aveva prodotto in giudizio fotocopia del contratto di lavoro a tempo determinato e fotocopia della lettera di assunzione, mentre d’altro canto la pronuncia de qua si era limitata ad affermare che l’elemento del comportamento processuale della GDL non era stato tenuto in considerazione ai fini della determinazione dell’indennità risarcitoria in quanto occorreva tener conto dell’annullamento della sentenza che del tutto irritualmente aveva posto a base del giudizio di verificazione mere fotocopie. Se infatti prima si sosteneva il tentativo di una parte di fornire una prova risultata non idonea e non vera, non era sarebbe stato poi possibile sostenere la non esistenza di un comportamento valutabile a fini della determinazione dell’indennità di cui all’art. 32, comma 5;

con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello circa l’onere probatorio posto a carico di parte attrice in ordine agli acconti che si assumevano dimostrati, mediante le firme apposte sulle buste paga precedute dalla “suddetta dicitura (ritiro copia del presente prospetto unitamente all’importo netto pagato dopo aver riscontrato esatte le voci e i tempi della retribuzione), sicchè in tal modo la M. avrebbe ammesso di aver ricevuto la consegna della conto prima della corresponsione del netto in busta paga;

infine, con il 4 motivo la ricorrente ex art. 360 c.p.c., n. 3, ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., circa la disposta compensazione delle spese di lite, segnatamente con riferimento a quelle di secondo grado per effetto dell’invocato rigetto dell’appello avversario;

tanto premesso, le anzidette doglianze vanno disattese per le seguenti ragioni;

invero, il primo motivo appare in primo luogo inammissibile (oltre che infondato per quanto correttamente motivato sul punto dalla Corte di merito in ordine all’indebita apertura di separato procedimento in caso di istanza di verificazione in via incidentale a seguito di disconoscimento del documento prodotto, donde l’unitarietà di quest’ultimo, per cui correttamente operava la riserva di gravame sulla prima decisione, comunicata alla controparte, sicchè la stessa non era dotata di piena autonomia e non poteva decidere in via definitiva la controversia). Infatti, risultando dedotta la violazione di errores in procedendo, irritualmente la censura è stata formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e non già ai sensi nel n. 4 dello stesso art. 360, comunque non univocamente in termini di nullità;

parimenti va detto per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, in relazione alla pretesa violazione dell’art. 111 Cost., in ordine al vizio di motivazione sul punto ipotizzato, anch’esso ormai denunciabile – a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, dal parte del legislatore del 2012, nella specie ratione temporis applicabile in relazione alla sentenza de qua, risalente all’anno 2014 – soltanto univocamente in termini di nullità ai sensi del cit. art. 360, n. 4, ciò che nemmeno è stato per la seconda doglianza quanto all’art. 111. E parimenti inammissibile appare la censura di cui al secondo motivo quanto alla pretesa violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 8, circa la quantificazione dell’indennizzo ivi previsto, posto che detta valutazione in effetti investe valutazioni riservate al solo giudice di merito, unico organo giudicante compente al riguardo, con conseguente loro insindacabilità in questa sede (cfr. Cass. lav. n. 1320 del 22/01/2014, secondo cui in tema di sindacato della Corte di cassazione sulla misura dell’indennità di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, in caso di illegittima opposizione del termine al contratto di lavoro, la determinazione, operata dal giudice di merito, tra il minimo ed il massimo è censurabile -al pari dell’analoga valutazione per la determinazione dell’indennità di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 – solo in caso di motivazione assente, illogica o contraddittoria. In senso conforme Cass. Sez. 6-L, ordinanza n. 25484 del 10/10/2019. Ne deriva che anche sotto questo profilo la censura de qua, formulata ex cit. art. 360, n. 3, è inammissibile, visto che il preteso vizio di motivazione, denunciabile quale error in procedendo per l’ipotesi di violazione del c.d. minimo costituzionale occorrente a norma dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4, non risulta, come già detto, essere stato ritualmente denunciato);

analogamente deve osservarsi per il terzo motivo di ricorso quanto agli acconti di cui alle buste paga sottoscritte per ricevuta dalla sig.ra M., avendo la Corte di merito con ampia e adeguata motivazione accertato in punto di fatto, ed indipendentemente dalla disciplina dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., il loro avvenuto pagamento in via anticipata rispetto alle buste paga che ne davano conto, di guisa che tale apprezzamento non è sindacabile in questa sede di legittimità, nemmeno ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo evidentemente la suddetta Corte valutato la circostanza, sicchè non sussiste alcun omesso esame del fatto in questione (ossia l’avvenuta corresponsione di acconti poi contabilizzati nelle buste paga, negata invece da parte attrice);

deve, infine, disattendersi anche l’ultimo motivo di ricorso, laddove genericamente si assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., perchè il rigetto dell’appello della G.D.L. n. avrebbe dovuto comportare non solo la conferma delle impugnate sentenze, pure in ordine al regolamento delle relative spese, ma anche la condanna della società appellante al rimborso di quelle di secondo grado, mancando all’evidenza il presupposto di tale deduzione, visto che invece il gravame della s.r.l. G.D.L. n. veniva accolto, ancorchè in parte, con conseguente riforma delle due precedenti decisioni, per cui la prima (sent. n. 752/09) veniva addirittura per intero annullata. Per altro verso, l’estrema genericità con la quale è stata formulata la suddetta censura (a parte l’erroneo riferimento al preteso rigetto dell’appello), non risultando sul punto sufficiente il mero richiamo dell’art. 91 c.p.c., rende la doglianza carente sotto il profilo della specificità, occorrente ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, invero mancante al fine di poter valutare se nel caso di specie risulti complessivamente violato il principio della soccombenza, che come è noto va rapportato all’esito finale dell’instaurato contenzioso (cfr. tra le altre Cass. 6-3, n. 6369 del 13/03/2013, secondo cui il criterio della soccombenza, al fine di attribuire l’onere delle spese processuali, non si fraziona a seconda dell’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole. In senso conforme v. pure Cass. nn. 15787 del 2000, 9060 del 2003, 11599 del 2004 e 19880 del 2011);

pertanto, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della società soccombente al rimborso delle relative spese;

atteso, infine, l’esito negativo dell’impugnazione de qua, sussistono i presupposti processuali di cui del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore della società controricorrente, in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per

esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2020

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