Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13625 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/07/2020, (ud. 16/01/2020, dep. 02/07/2020), n.13625

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23179-2018 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE

FERRARI 12, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO GARRONI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ALBERTO CASELLI LAPESCHI;

– ricorrente –

contro

JUNGHEINRICH ITALIANA S.R.L., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI BETTOLO

17, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO RUFINI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICO MACCONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1596/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 30/01/2018, R.G.N. 1564/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/01/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FILIPPO GARRONI per delega verbale avvocato ALBERTO

CASELLI LAPESCHI;

udito l’Avvocato ALESSANDRO RUFINI.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 28 luglio 2018, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Pavia, ha dichiarato la legittimità del licenziamento, per giustificato motivo soggettivo, a P.S. dalla Jungheinrich Italiana s.r.l. con comunicazione del 14/10/2009, e, per l’effetto, ha condannato l’appellante società a corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso nella misura contrattualmente dovuta oltre rivalutazione monetaria e interessi legali statuendo, altresì, che il P. provvedesse alla restituzione della somma versatagli in esecuzione della sentenza di primo grado.

In particolare, il giudice di secondo grado ha posto in risalto le plurime inadempienze e trascuratezze circa le modalità di redazione del piano finanziario, da redigersi presso il servizio di tesoreria, che la Corte ha ritenuto costituire una delle competenze attribuite al P. già a decorrere dal momento della sua assunzione presso la società pur essendo la stessa, sulla base di una formazione professionale progressiva, diventata mansione centrale solo in occasione della redazione del piano valevole per l’anno 2010.

1.1. Valutando le risultanze probatorie acquisite il Collegio ha, quindi, ritenuto che la base giustificativa del licenziamento non andasse rinvenuta nella giusta causa, bensì nel giustificato motivo soggettivo, non vertendosi nell’ambito di trasgressioni tali da incidere sul vincolo fiduciario in modo da imporre il licenziamento per giusta causa, bensì di fattispecie di inadempimento e neghittosità rilevanti sotto il profilo di una affidabile resa lavorativa, in quanto determinate da mancanza di diligenza e impegno professionale.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.S. affidandolo a quattro motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, la Jungheinrich Italiana S.r.l.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione ed errata applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 220, commi 1 e 2 e art. 225 del CCNL Terziario Commercio del 18 luglio 2008 e della L. n. 300 del 1970 per aver posto a fondamento del licenziamento disciplinare il mancato o erroneo espletamento di una mansione che non era stata attribuita al lavoratore.

1.1. Sostiene, al riguardo, parte ricorrente che la redazione e revisione del piano finanziario aziendale ha costituito per il lavoratore, a decorrere dal mese di marzo 2009, una mansione nuova, la cui corretta esecuzione non può essere posta a base del licenziamento disciplinare.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Va premesso, al riguardo, che, secondo l’insegnamento di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 13534 del 2019 nonchè, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (ex plurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).

Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perchè, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).

Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.

Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).

Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonchè la giurisprudenza ivi citata).

2.1. Tale distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018).

E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

3. Nel caso di specie appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in realtà corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.

Parte ricorrente, infatti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede in realtà alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla sussistenza della lamentata negligenza mentre le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, con doglianze intrise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attività asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto tentandosi di portare di nuovo all’attenzione del giudice di legittimità una valutazione di merito, inerente il contenuto dell’accertamento compiuto circa l’attività svolta e il conferimento ab origine dell’incarico di redazione del piano finanziario.

3.1. In particolare, deve ritenersi che la Corte d’appello abbia accertato, sulla base degli elementi probatori precedentemente raccolti, che la mansione di redazione del piano finanziario era stata affidata al P. sin dalla data di ingresso nel “servizio per il quale era stato selezionato” e ciò risultava confermato, secondo il Collegio, da diversi indici rivelatori ed in particolare: dalla circostanza che tale attività era stata descritta e individuata sin dalla ricerca per l’assunzione; dal fatto che tale attività era stata in precedenza di competenza di altro addetto alla tesoreria, il S., e solo temporaneamente affidata alla B., poi sostituita dal P.; dal periodo di diversi mesi in cui il P. stesso era stato affiancato dai colleghi per essere addestrato alla redazione del piano.

L’insieme di tali circostanze ha condotto il giudice di secondo grado a ritenere che la redazione del piano finanziario fosse stata affidata in via esclusiva al P. sin dal suo ingresso in Jungheinrich, accertamento, questo, eminentemente fattuale su cui nessuna diversa valutazione può essere effettuata in sede di legittimità non vertendosi nell’ambito della violazione di legge descritta nel motivo bensì, esclusivamente, in una diversa considerazione del materiale probatorio raccolto non ammessa in sede di ricorso per cassazione.

Nè può giungersi a diverse conclusioni in base al contenuto del mansionario richiamato da parte ricorrente atteso che trattasi esclusivamente di uno degli elementi da cui può arguirsi il conferimento dell’incarico, elemento che la Corte ha valutato unitamente agli altri non rivestendo lo stesso carattere assorbente ed anzi essendo reputato dalla Corte il riferimento ad esso come formalistico e non esauriente.

Va, quindi, rilevato che ci si trova di fronte ad una ricostruzione della vicenda storica effettuata dai giudici del merito cui esclusivamente compete e che è invece criticata da parte ricorrente ma il cui esito, non sconfinando in un risultato irragionevole, per i principi innanzi richiamati, si sottrae al sindacato di legittimità ed inoltre, non identificando quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, manca dell’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, così traducendosi in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito che ha ritenuto che la mancata adeguata redazione del piano finanziario si sia tradotta in un giustificato motivo soggettivo rilevante da legittimare il licenziamento del P. (sul punto si veda Cass. n. 13534/2019 cit.).

4. Con il secondo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e l’omessa motivazione circa la mancanza di diligenza e di impegno professionale del lavoratore alla luce della comunicazione del datore di lavoro del 07/09/2009 che individua la redazione del piano finanziario quale obiettivo rilevante ai fini della retribuzione variabile.

4.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

Giova sottolineare al riguardo, che, come ribadito anche di recente da questa Corte (cfr., sul punto, Cass. n. 28887 del 2019) l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

D’altro canto, la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta a suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione delle fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. S.U. 27 dicembre 1997, n. 13045 e, fra le tante: Cass. 18 marzo 2013, n. 6710) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità (dall’art. 360 c.p.c., n. 5) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

In particolare, nel caso di specie, la piana lettura del motivo di ricorso così come formulato, con il continuo richiamo alle dichiarazioni rese dai testi escussi, induce a vedere come prospettata una inammissibile diversa lettura delle risultanze istruttorie mentre la Corte, proprio sulla base di quelle risultanze, ha sì escluso la sussistenza di una giusta causa di licenziamento non rilevando trasgressioni incidenti sulla sfera di interessi integrante il vincolo fiduciario in modo tranchant, ma ha ritenuto la sussistenza del giustificato motivo soggettivo, avendo riscontrato un difetto di diligenza ed una incapacità rilevanti sotto il profilo di un’affidabile resa lavorativa, ritenendo provata, come già reputato in primo grado, la presenza di errori e gravi imperfezioni nel documento redatto dal ricorrente.

Va anzi rilevato che il Collegio si sofferma a lungo non solo sul rilievo dei sette mesi di affiancamento di cui il dipendente aveva goduto, ma, anche, sulle singole inesattezze riscontrate, afferenti l’incidenza degli interessi passivi con le banche, l’andamento dei rapporti di leasing, che avevano evidenziato gravi errori e connotati irrealistici nelle previsioni fondate sui dati trasmessi dagli uffici.

5. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 220, comma 1 e art. 225 CCNL Terziario commercio per sproporzionalità ed inadeguatezza della sanzione comminata.

Va riaffermato al riguardo che, secondo questa Corte, spettano al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, nonchè la giurisprudenza ivi citata).

Nell’ambito delle clausole generali come la giusta causa, quindi, innanzitutto è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito (tra le più recenti: Cass. n. 13534 del 2019 cit. e Cass. n. 6035 del 2018), altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici; dal momento, poi, che gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono stati commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.) occorre guardare, nel sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell’ambito della clausola generale.

Poichè si tratta di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715/2016 cit.) o, per il caso che qui interessa, ai giustificato motivo soggettivo.

D’altra parte secondo quanto affermato dalle Sezioni unite, “il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto” (in termini, Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010; Cass. SS.UU. n. 1414 del 2004, n. 20024 del 2004, n. 19075 del 2012; per i notai: Cass. SS.UU. n. 4720 del 2012, n. 6967 del 2017) e, pertanto, va ribadito che la Corte non può, “sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati… se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza” e “il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione” (così Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010);

Orbene, nel caso di specie, la Corte, escludendo la sussistenza di una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario ai fini del licenziamento per giusta causa, ha, tuttavia, riscontrato una significativa incapacità e negligenza nello espletamento dell’attività lavorativa rilevante, così concludendo per la legittimità della sanzione espulsiva e tale valutazione, immune da vizi logici, non può essere censurata in sede di legittimità.

D’altro canto, non appare dirimente il riferimento all’inclusione della retribuzione corrisposta per la redazione del piano finanziario nell’ambito della retribuzione variabile poichè non può ritenersi discendere tout court da tale circostanza un rilievo relativo della mansione considerata tale da escludere la possibilità di licenziamento in caso di erroneo ed inadeguato svolgimento di essa.

In sostanza, parte ricorrente ribadisce che secondo il suo giudizio – che è solo quello personale della parte che vi ha interesse – il fatto addebitato non sarebbe idoneo a costituire giustificato motivo soggettivo, criticando l’apprezzamento diverso dei giudici d’appello in ordine alla proporzionalità della sanzione, il che tuttavia esula dal controllo di questa Corte (ex pluribus: Cass. n. 2289 del 2019; Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003), la quale in queste valutazioni “non può sostituirsi al giudice del merito”, come ammoniscono le sentenze delle Sezioni unite civili citate.

6. Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e degli artt. 2049 e 2087 c.c. nel non aver configurato la Corte l’esistenza di un danno biologico subito dal lavoratore per effetto di condotte vessatorie operate da un superiore e tollerate dall’azienda pur circoscritte ad un periodo di tempo limitato.

6.1. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello muove, infatti, dalla stessa formulazione dei capitoli di prova proposti in sede di appello incidentale per escludere “in radice” il fenomeno del mobbing per assenza di condotte vessatorie sistematicamente orientate a causare offese di ordine professionale e/o rilevati sul piano psichico e morale.

Anche con riguardo a tale aspetto, il ricorrente invoca una diversa valutazione fattuale dell’accaduto ed in particolare critica le conclusioni circa l’assenza di sistematici comportamenti vessatori raggiunta dalla Corte che invece da congruamente conto del proprio iter motivazionale nell’affermare che pur potendo ravvisarsi “qualche aspra invettiva e offesa esternata dal F.” ha escluso la configurabilità di qualsivoglia ipotesi di mobbing trattandosi, al più, di “isolato e circoscritto dissidio sorto solo durante uno stato avanzato del rapporto di lavoro e, in ragione dei pochi elementi a disposizione, privo di apprezzabile continuità”.

Il dato di partenza da cui muove il ricorrente e, cioè, le “condotte vessatorie operate da un superiore” risulta escluso in punto di fatto dalla Corte e, pertanto, non ne può essere riesaminata la conclusione da questa Corte senza illegittimamente invadere il campo delle indagini fattuali precluso al giudice di legittimità.

7. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto.

7.1. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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