Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8367 del 29/04/2020

Cassazione civile sez. II, 29/04/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 29/04/2020), n.8367

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20077/2019 proposto da:

I.M., rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONINO

FICARRA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 796/2018 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 20/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/01/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

Fatto

IN FATTO

I.M., cittadino (OMISSIS), proponeva innanzi al Tribunale di Caltanissetta ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale di Siracusa, sez. di Caltanissetta, che aveva respinto la sua domanda di protezione internazionale o umanitaria. A base della domanda, l’essere stato costretto a lasciare il proprio Paese a causa delle minacce ricevute per aver intessuto una relazione sentimentale con una ragazza, osteggiata dalla famiglia e dal padre di lei, noto esponente politico del partito (OMISSIS). Soggiungeva che era fuggito a (OMISSIS) con la ragazza; che i familiari di lei li avevano scoperti ed avevano picchiato i suoi congiunti; che suo padre ed un suo fratello, dopo aver denunciato il fatto alla polizia, non avevano più fatto rientro a casa; che un altro suo fratello successivamente era stato ucciso per strada; che la ragazza era stata, a sua volta, rapita ed uccisa; e, infine, di aver appreso da una parente di lei di essere stato accusato dell’omicidio.

Ritenuto scarsamente credibile tale racconto, il Tribunale rigettava il ricorso.

Avverso detta decisione il richiedente proponeva appello innanzi alla Corte distrettale di Caltanissetta, che con sentenza n. 796/18 rigettava il gravame.

Riteneva la Corte d’appello che il racconto dell’istante non fosse attendibile, in considerazione della mancata richiesta di protezione alla polizia e della (non altrimenti spiegata) eccessività della pretesa reazione dei familiari della ragazza. Inoltre, in base alle fonti EASO (Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo) neppure ricorrevano le condizioni per la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, comma 3, lett. c), non ravvisandosi nel Punjab – zona di provenienza del richiedente – una situazione di violenza indiscriminata.

Infine, la Corte escludeva la protezione umanitaria per difetto d’integrazione nel tessuto sociale italiano, data la precarietà della situazione lavorativa del richiedente.

Per la cassazione di detta sentenza questi propone ricorso, affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Per la decisione del ricorso è stato attivato il procedimento camerale ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 24 Cost., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, art. 6, comma 3, lett. a) CEDU, art. 14, comma 3, lett. a) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, recepito con L. n. 881 del 1977 e art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. A base della doglianza, la mancata traduzione sia del provvedimento di diniego della Commissione territoriale sia “dell’impugnato decreto” (sic) e la conseguente, asserito, nullità.

1.1. – Il motivo è infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte: a) la comunicazione della decisione negativa della Commissione territoriale competente, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, deve essere resa nella lingua indicata dallo straniero richiedente o, se non sia possibile, in una delle quattro lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo, secondo l’indicazione di preferenza), determinando la relativa mancanza l’invalidità del provvedimento; tale vizio, tuttavia, analogamente alle altre nullità riguardanti la violazione delle prescrizioni inderogabili in tema di traduzione, può essere fatto valere solo in sede di opposizione all’atto che da tale violazione sia affetto, ivi compresa l’opposizione tardiva, qualora il rispetto del termine di legge sia stato reso impossibile proprio dalla nullità (da ultimo, ex multis, nn. 16470/19, 420/012 e 18493/011); b) il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 5, non può essere interpretato nel senso di prevedere fra le misure di garanzia favore del richiedente anche la traduzione nella lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio, in quanto la norma prevede la garanzia linguistica solo nell’ambito endo-procedimentale e inoltre il richiedente partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, in grado di comprendere e spiegargli la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano (n. 23760/19).

Ne deriva che lì dove – come nel caso di specie – l’opposizione sia stata tempestivamente proposta mediante la formulazione di censure di merito, ogni questione inerente alla mancata traduzione del provvedimento impugnato è priva di rilievo.

2. – Col secondo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369,2697 c.c. e segg., artt. 115,116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 156 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 6, 13 e 47 CEDU e 46 direttiva CE 2013/32, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 Sostiene parte ricorrente che le dichiarazioni rese dal richiedente erano precise, circostanziate e da contestualizzare nell’ambito delle vicende pakistane, per la cui verifica il giudice avrebbe dovuto attivare d’ufficio gli opportuni mezzi di cooperazione istruttoria.

2.1. – La censura non ha pregio.

Essa confligge con più indirizzi della giurisprudenza di questa Corte Suprema.

Il primo, che tale vaglio di credibilità, costituendo un apprezzamento di merito, si sottrae al controllo di sufficienza motivazionale, non più consentito dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5. La riformulazione del quale, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U. n. 8053/14).

Il secondo, che in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (n. 15794/19; in senso conforme, n. 19197/15). Pertanto, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (nn. 16925/18 e 28862/18).

Il terzo, che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (n. 9043/19; solo apparentemente difforme la n. 3758/18, perchè in realtà riferita ad un caso di persecuzione da parte di una setta religiosa, caso in cui occorreva verificare se le autorità del Paese di provenienza fossero in grado di offrire adeguata protezione al ricorrente).

I precedenti citati dal ricorrente (nn. 26056/10 e 17576/10) non sono in contrasto con i suddetti arresti. Negli specifici e rispettivi casi tali precedenti si sono limitati ad escludere che sul richiedente gravasse anche l’onere di provare il fumus persecutionis, che il giudice può desumere, invece, dalle informazioni esterne e oggettive relative alla situazione reale del Paese di provenienza, avvalendosi dei poteri officiosi d’indagine ed informazione indicati nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Poteri istruttori che, in definitiva, devono riguardare il c.d. rischio Paese e non la veridicità di una vicenda personale in partenza giudicata non plausibile.

Ciò posto, va rilevato che la Corte territoriale: a) ha esplicitato in maniera del tutto comprensibile le ragioni di non credibilità del racconto del richiedente, evidenziandone contraddizioni non marginali; b) ha condiviso il giudizio operato dal Tribunale, secondo cui quanto narrato dal richiedente ha per oggetto un vissuto che, ove anche fosse ritenuto reale, non prospetta alcun impedimento alla tutela da parte delle autorità statuali pakistane. Affermazioni entrambe non scalfite dalla censura in esame, che mira a provocare (i) una diversa – ed inammissibile in questa sede di legittimità – valutazione di credibilità del racconto e (ii) un giudizio – altrettanto meritale e non apprezzabile innanzi a questa S.C. – di persistenza del pericolo di vendette private (citando a mò d’esempio, ma in maniera non pertinente, una nota fatwa emessa dalle autorità iraniane a carico di uno scrittore di quel diverso Paese).

3. – Il terzo mezzo espone la violazione o falsa applicazione degli artt. 1364,1365,2697 c.c. e segg., artt. 115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 6 e 13 CEDU, art. 47Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e art. 46 direttiva CE n. 2013/32, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene parte ricorrente che la Corte distrettuale non avrebbe indicato la fonte da cui avrebbe attinto l’inesistenza, nel luogo d’origine del richiedente, di una situazione di violenza indiscriminata.

3.1. – Anche tale censura è infondata.

A pag. 9 la sentenza impugnata cita le fonti EASO del 2017, secondo cui, sebbene nelle province del Punjab (regione di provenienza del ricorrente) e del Sindh si siano verificati episodi di violenza armata e nel sud del Punjab siano presenti reti militari ed estremisti in grado di programmare e condurre attentati terroristici, non vi è una situazione di violenza indiscriminata.

Anche tale affermazione della Corte distrettuale va esente da critica, atteso che in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia Europea (v. sentenze 30 gennaio 2014 nella causa C-285/12 e 17 febbraio 2009 nella causa C-465/07) la violenza indiscriminata è quella che raggiunge un livello tale che il richiedente, per la sua sola presenza sul territorio di cui trattasi, corre un rischio effettivo di subire una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona.

Nè il ricorrente indica fonti più recenti e di segno opposto per inficiare le informazioni cui ha fatto riferimento la Corte nissena.

4. – Col quarto motivo si rappresenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1364,1365,2697 c.c. e segg., artt. 115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 3 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Parte ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non abbia riconosciuto il buon grado d’integrazione del richiedente a cagione della precarietà del lavoro da lui svolto, senza però, considerare che egli ha non di meno lavorato in maniera continuativa durante il suo soggiorno nel territorio dello Stato, e trascurando la comparazione con la grave situazione esistente nel Pakistan, in cui è diffusa la schiavitù lavorativa per debiti.

4.1. – Anche tale motivo non può essere accolto.

In disparte che la servitù lavorativa per debiti è un quid novum rispetto alla complessiva vicenda personale del richiedente così come dedotta, tutta incentrata su pretese violenze collegate ad una contrastata relazione sentimentale; e che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (così, n. 21123/19); tutto ciò a parte, va rimarcato che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. S.U. n. 29459/19), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (n. 4455/18).

Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, a sua volta, non può derivare dal solo svolgimento in quest’ultimo di un’attività lavorativa, in difetto di qualsiasi altro elemento di valutazione, che il ricorrente non dimostra di aver dedotto, essendosi limitato ad una generica mozione protettiva.

5. – In conclusione il ricorso va respinto.

6. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo, e il raddoppio del contributo unificato se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2020

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