Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 23990 del 16/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 16/11/2011, (ud. 10/11/2011, dep. 16/11/2011), n.23990

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30885-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

TARQUINIA 5/D presso lo studio degli avvocati RIOMMI MAURIZIO e

MICHELI CARLO (Studio Avv.to FALLA TRELLA MARIA LUISA), che lo

rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 377/2007 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 13/06/2007 R.G.N. 1186/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO per delega RIOMMI MAURIZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 377/07 la Corte d’Appello di Perugia rigettava il gravame di Poste Italiane S.p.A. contro la sentenza del Tribunale della stessa sede che, dichiarata la nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato con L.M. il 1.3.2000, aveva affermato la vigenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della società alla riammissione in servizio del lavoratore e al risarcimento danni.

Per la cassazione della pronuncia della Corte territoriale ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a tre motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso il L..

Il Collegio ha autorizzato la stesura della motivazione in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Con il primo motivo la società ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2 nonchè vizio di motivazione nella parte in cui la Corte territoriale non ha ravvisato il mutuo consenso a non riattivare il rapporto di lavoro in fatti incompatibili con la volontà di mantenerlo in vita, come la prolungata inerzia del lavoratore dopo la scadenza del termine e l’accettazione del TFR. La prima delle suddette censure è infondata, mentre la seconda risulta assorbita.

Invero, la più recente giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – è ormai consolidata nello statuire che “Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2 di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio ha ritenuto che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto, restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e mezzo, dalla scadenza del termine dell’ultimo dei cinque contratti intervenuti).” (Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. 1.2.2010 n. 2279).

Ancora più di recente, Cass. n. 9583/2011 ha ribadito che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo”.

In senso conforme si vedano, altresì, Cass. 10.11.2008 n. 26935;

Cass. 28.9.2007 n. 20390; Cass. 17.12.2004 n. 23554; Cass. 11.12.2001 n. 15621 ed innumerevoli altre.

Aggiunge, ancora la cit. sentenza n. 9583/2011 che “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. ancora, in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).

Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame della S.C., ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici) l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.

Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: “D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c, è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). E’, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).” (v., altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).

Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

In conclusione, il mero decorso del tempo non avrebbe mai potuto dare luogo al mutuo consenso di cui parla la società ricorrente.

Quanto alla circostanza dell’asserita incontestata accettazione del TFR, basti notare che il ricorso non è nemmeno autosufficiente perchè non chiarisce in quale atto difensivo o verbale d’udienza la società ricorrente la avrebbe allegata.

2- Con il secondo motivo la società ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di contratti o accordi collettivi di lavoro, nonchè vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza avrebbe statuito la necessità che la contrattazione collettiva prevedesse un’efficacia temporale limitata alle deroghe alla previgente normativa di cui alla L. n. 230 del 1962 e che comunque l’accordo aziendale 25.9.97 avesse un’efficacia a tempo definito.

La doglianza è infondata.

L’impugnata sentenza ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in oggetto è stato stipulato – ai sensi dell’art 8 CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25.9.97 – in data ampiamente successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno la copertura autorizzatoria. Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 e al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’affermata nullità del termine apposto al contratto de quo.

A tale riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588 è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per ì lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063; cfr., altresì, Cass. 20.4.2006 n. 9245; Cass. 73.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).

Ove però – come accaduto nel caso di specie – un limite temporale (30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v., ex aliis, Cass. n. 316/2011; Cass. 23.8.2006 n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745;

Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (cfr., ex aliis, Cass. n. 316/2011, cit.; Cass. 1.10.2007 n. 20608; Cass. 28.1.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008 n. 21062; Cass. 27.3.2008 n . 7979; Cass. n. 18376/2006).

In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la statuita la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, il che assorbe ogni ulteriore argomentazione a riguardo svolta in ricorso.

3- E’, infine, inammissibile il terzo e ultimo motivo di ricorso, con cui la società deduce un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta esistenza del danno lamentato dal lavoratore e all’aliunde perceptum.

Il vizio di motivazione viene in sostanza prospettato non in ordine alla motivazione in punto di fatto, ma in rapporto a quella in punto di diritto (sempre suscettibile di essere corretta ex art. 384 c.p.c., u.c.), il che colloca la doglianza al di fuori dell’area dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

A ciò si aggiunga che si tratta di motivo di doglianza nuovo, in quanto non fatto valere con l’atto d’appello.

4- L’inammissibilità dell’ultimo motivo di ricorso assorbe la questione, ventilata da Poste Italiane S.p.A. in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., relativa all’eventuale incidenza, nella vicenda in esame, del sopravvenuto L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

5- In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 50,00 nonchè in Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 10 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2011

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