Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5440 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/02/2020, (ud. 17/10/2019, dep. 28/02/2020), n.5440

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19564-2017 proposto da:

COMUNE DI MUGNANO DEL CARDINALE, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO CORVISIERI 22,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE RECUPITO, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANNIBALE SCHEITINO;

– ricorrente –

contro

C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO 285, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA CUCCINIELLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO PICCIOCCHI;

avverso la sentenza n. 1591/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 07/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARIO

CIGNA.

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza 1680/2010 il Tribunale di Avellino rigettò la domanda di risarcimento danni avanzata da C.R. nei confronti del Comune di Mugnone del Cardinale a seguito di caduta verificatasi il 30-7-2004 a causa di una buca non segnalata mentre camminava nel centro storico; in particolare il Tribunale, ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2043 c.c., ritenne non provata la non visibilità della buca ed escluse quindi che la caduta potesse essere ricondotta a colpa del convenuto Comune.

Con sentenza 1591/2017 la Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento del gravame proposto dalla C., ha condannato il Comune al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, della somma di Euro 14.922,24, oltre spese di lite; in particolare la Corte ha dapprima ritenuto inammissibile, perchè formulata in primo grado successivamente alla definizione del thema decidendum (e comunque, nel merito, infondata per mancanza di prova), l’eccezione del Comune secondo cui l’attrice sarebbe caduta in casa; quindi, dopo avere inquadrato la fattispecie in esame nell’art. 2051 c.c. e ritenuto provata sia l’esistenza della buca (che rendeva pericoloso il transito lungo la strada)sia la caduta dell’attrice nella detta buca, ha evidenziato che il mancato avvistamento di una buca di dimensioni ridotte (quale quella in questione) da parte dell’attrice (donna anziana di 70 anni) non poteva costituire evento imprevedibile ed eccezionale, tale da escludere la responsabilità del custode.

Avverso detta sentenza il Comune di Mugnano del Cardinale propone ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi.

C.R. resiste con controricorso, illustrato anche da successiva memoria

Il relatore ha proposto la trattazione della controversia ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.; detta proposta, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata, è stata ritualmente notificata alle parti.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2043,2051 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto dapprima inammissibile e poi infondata l’eccezione relativa alla circostanza secondo cui la donna sarebbe caduta in casa; al riguardo evidenzia che dal certificato di Pronto soccorso si evinceva che le lesioni riportate dall’attrice derivavano da un “incidente domestico”.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2043,2051 c.c. “nonchè – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, si duole che la Corte territoriale abbia in maniera acritica escluso l’applicazione del disposto dell’art. 2043 c.c. ed affermato la responsabilità del Comune ex art. 2051 c.c., senza preventivamente verificare che il custode avesse effettivamente sulla cosa il potere di sorveglianza, di modificarne lo stato e di escludere modifiche da parte di altri, finendo conseguentemente per svalutare la mancanza di prova circa la visibilità della buca.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2051 e 1227 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., si duole che la Corte territoriale, nonostante documentazione attestante l’insussistenza di dislivelli, anomalie o alterazioni, abbia escluso il caso fortuito.

Con il quarto motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2051 e 1227 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., si duole che la Corte territoriale, nonostante le riferite dimensioni della buca, abbia affermato la responsabilità del Comune. Con il quinto motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2056,2059 e 1123 c.c., si duole che la Corte territoriale abbia liquidato il danno con riferimento alle tabelle di Milano del 2014, che prevedevano però (rispetto a quelle precedenti) solo un aumento percentuale degli importi in base agli indici Istat e non una rideterminazione del valore-punto base.

Con il sesto motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. si duole che la Corte d’appello non abbia contenuto la domanda nei limiti di quanto richiesto.

Il ricorso è inammissibile.

Lo stesso, invero, non rispetta il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che, essendo considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione che deve garantire alla Corte di cassazione, di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. sez. un. 11653 del 2006).

La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. 2602 del 2003); stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata.

Il ricorso, nell’esposizione del fatto, non rispetta tali contenuti, ed è quindi inammissibile, non consentendo a questa S.C. una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, tale da bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato.

In ogni modo, qualora “per absurdum” (in quanto il rilievo di cui sopra è esiziale) si volesse comunque procedere allo scrutinio dei motivi, il ricorso sarebbe comunque inammissibile.

Il primo motivo è, invero, inammissibile, in primo luogo, in quanto non viene criticata la motivazione della sentenza che ha ritenuta tardiva la deduzione, con la conseguenza che la critica all’altra motivazione svolta nel motivo è inammissibile; il motivo, comunque, si risolve in una critica, non consentita in sede di legittimità, ad un apprezzamento in fatto operato al riguardo dalla Corte territoriale.

In ogni modo, in particolare, non sussiste la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), che, come precisato da Cass. 11892 del 2016 e ribadito da Cass. S.U. 16598/2016, è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando (e non è il caso di specie) il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime.

Nè sussiste la violazione dell’art. 115 c.p.c.., che, come precisato dalla cit. Cass. 11892/2016, può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche quando (come nella specie) il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

Non sussiste, inoltre, neanche la violazione dell’art. 2697 c.c., che, come ribadito da Cass. S.U. 16598, “si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”, e non quando, come invece viene sostenuto in ricorso, ci si duole solo che la Corte territoriale, a seguito del procedimento di acquisizione e valutazione del materiale probatorio strumentale alla decisione, abbia ritenuto raggiunta la prova dei fatti dedotti a fondamento della domanda risarcitoria avanzata.

I restanti motivi sono generici, in quanto non vengono articolati con la enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarli (Cass. 4741/2005; Cass. S.U. 7074/2017) e non individuano (e, quindi, non criticano) la motivazione della sentenza impugnata cui ogni motivo si vorrebbe riferire.

In ogni modo, il secondo motivo è inammissibile anche in quanto sollecita la rivalutazione delle risultanze istruttorie e, dunque, si risolve, sub specie di violazione di legge, in una censura alla ricostruzione della “questio facti” al di fuori dei limiti indicati da Cass. S.U. 8053 e 8054/2014, secondo cui “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”; fatto storico (nel senso su precisato) omesso non specificamente indicato nel ricorso in esame.

Il terzo ed il quarto motivo, tra loro connessi, sono inammissibili anche perchè si risolvono anch’essi, sia pure sotto forma di violazione di legge, in una critica, non consentita in sede di legittimità, alla ricostruzione del fatto per come operata dalla Corte territoriale; per le denunziate violazione degli artt. 115,116 e dell’art. 2697 c.c. valgono le stesse considerazioni evidenziate nel primo motivo.

Il quinto motivo è, comunque, infondato, atteso che correttamente la Corte territoriale ha liquidato il danno con un importo attualizzato al momento della decisione, facendo riferimento alle tabelle milanesi vigenti in quel momento.

Il sesto motivo è inammissibile anche in quanto non viene riportato in ricorso il preciso quantum risarcitorio richiesto in primo grado, sicchè la doglianza non è rispettosa dei requisiti richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 6. Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione in favore del difensore anticipatario.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato dichiarato inammissibile, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al

pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 1.800,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; con distrazione in favore del difensore anticipatario; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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