Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34118 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 19/12/2019, (ud. 13/12/2018, dep. 19/12/2019), n.34118

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23321-2014 proposto da:

V.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA 45, presso

lo studio dell’avvocato LUCIANO MARIANI, rappresentata e difesa

dall’avvocato FEDELE ALBERTI;

– ricorrente –

contro

ELETTROARREDI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL GESU’ 57, presso

lo studio dell’avvocato FILOMENA MOSSUCCA, rappresentata difesa

dall’avvocato FELICIANO PALMIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1142/2013 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 30/09/2013 R.G.N. 1028/2010.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che la Corte di Appello di Salerno, con sentenza pubblicata in data 30.9.2013, ha respinto il gravame interposto da V.R., nei confronti di Elettroarredi S.r.l., avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, resa il 26.4.2010, che aveva rigettato la domanda della lavoratrice, diretta ad ottenere la condanna della parte datoriale alla corresponsione della somma complessiva di Euro 203.684,52, a titolo di differenze retributive inerenti all’attività lavorativa prestata dalla ricorrente, dal gennaio 1980 al dicembre 2001, con mansioni di responsabile del punto vendita, addetta altresì alla cassa ed al coordinamento dei dipendenti;

che la Corte distrettuale, per quanto ancora in questa sede rileva, ha ritenuto infondato l’appello della lavoratrice, “anche se per motivi diversi da quelli posti dal primo giudice a base del proprio decisum”, rilevando che non si potesse fare conseguire il rigetto della domanda da un comportamento acquiescente, da parte della V., “al mancato pagamento delle somme” asseritamente dovute alla stessa dalla Elettroarredi S.r.l. – e, dunque, da una rinunzia, per (acta concludentia, a fare valere i diritti derivanti dall’intercorso rapporto di lavoro – e sottolineando, invece, che le risultanze probatorie “non hanno consentito di affermare che tra l’appellante e la Elettroarredi S.r.l. sia intercorso un rapporto di lavoro subordinato nel periodo indicato in ricorso, protrattosi dal gennaio 1980 al dicembre 2001″;

che per la cassazione della sentenza ricorre V.R. sulla base di due motivi contenenti più censure, cui resiste con controricorso la Elettroarredi S.r.l.;

che sono state comunicate memorie nell’interesse della lavoratrice;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (omessa, insufficiente e contraddittoria valutazione delle dieci testimonianze assunte nel corso del giudizio, di cui solo alcune – ed in particolare quelle rese da persone che hanno dichiarato di avere prestato lavoro alle dipendenze della società resistente in un periodo successivo a quello del rapporto dedotto in giudizio ovvero coincidente solo con il periodo finale del medesimo – sono state, erroneamente, considerate alla base del decisum), rilevante anche sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (per violazione degli artt. 2697,2094 e 2104 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., per non essere stato rilevato, attraverso gli assunti sostenuti dalla difesa della società resistente, che alcune circostanze erano evidenziate dalla documentazione versata in atti, dalla quale si desumeva agevolmente l’onerosità della prestazione, potendosi altresì ritenere dimostrato il vincolo di subordinazione sussistente nel rapporto dedotto in giudizio)”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, per ingiusta conferma della condanna alle spese relative al giudizio di primo grado, nonostante la fondatezza del ricorso in appello in punto di prescrizione, riconosciuto anche dalla Corte territoriale che ha corretto, almeno sotto questo aspetto la decisione del giudice di prime cure, per poi ritenere sussistenti, in relazione al secondo grado, giusti motivi ex art. 92, capoverso, c.p.c., per la compensazione delle spese del grado successivo, rilevante anche ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per motivazione evidentemente contraddittoria”: e ciò, in quanto, a parere della ricorrente, “il giudizio di primo grado si era arrestato sulla questione preliminare relativa alla presunta prescrizione della pretesa avanzata dalla V., ritenendo tardive le sue istanze e condannando la predetta al pagamento delle spese di causa”, mentre “l’esame delle statuizioni emesse dalla corte territoriale circa la regolamentazione delle spese di lite evidenzia una rilevante discrasia tra la motivazione ed il dispositivo della sentenza censurata”;

che il primo motivo è inammissibile, relativamente alla prima censura, innanzitutto, per la formulazione non più consona con le modifiche introdotte all’art. 360 c.p.c. dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile, ratione temporis, al caso di specie poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 30.9.2013; inoltre, il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito; per la qual cosa “la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito” (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014 citt.; Cass. n. 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso motivazionale del tutto condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici, sottolineando che è necessario che il lavoratore fornisca la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l’assoggettamento al potere direttivo – organizzativo altrui e l’onerosità (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 8364/2014; 9043/2011; 8070/2011; 17992/2010; per ciò che più specificamente attiene a tutti gli indici di subordinazione, cfr., ex multis, Cass. n. 7024/2015), ed ha, altresì, motivatamente affermato che “le risultanze istruttorie non hanno fornito alcun elemento per accertare il vincolo della subordinazione”; mentre la censura di cui si tratta appare, all’evidenza, finalizzata ad una nuova valutazione degli elementi di fatto, attraverso la mera contestazione della valutazione degli elementi probatori;

che la seconda denunzia formulata con il primo motivo non può essere accolta, perchè la parte ricorrente non ha indicato sotto quale profilo le norme menzionate sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi clelibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che deve rilevarsi, altresì, che la seconda censura del primo mezzo di impugnazione fa genericamente riferimento a “documentazione versata in atti”, che non è stata prodotta, nè trascritta (e neppure indicata tra gli atti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), in violazione del principio (di cui all’art. 366 c.p.p., comma 1, n. 6), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare la veridicità delle doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza;

che neppure le censure articolate con il secondo mezzo di impugnazione sono meritevoli di accoglimento, poichè, anche prescindendo dalla genericità della formulazione, è da rilevare che la sentenza di primo grado ha condannato la V. al pagamento delle spese di lite in base al criterio della soccombenza; e che la Corte di merito, nonostante “la integrale conferma della sentenza di primo grado, emendata, nella sua parte motiva, nei termini indicati”, con la quale era stata respinta la domanda della lavoratrice, ha ritenuto che ricorressero “giusti motivi ex art. 92 capoverso, c.p.c. nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 11), desumibili dalla natura e dall’oggetto della controversia, nonchè dalla circostanza che per la definizione della stessa si è resa necessaria una complessa ed approfondita istruttoria, per compensare integralmente tra le parti le spese” del giudizio di appello; pertanto, trattandosi di una decisione favorevole alla V., relativamente alle spese, non sussiste l’interesse della stessa a sollevare censure sulla detta statuizione;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va respinto;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 13 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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