Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10617 del 13/05/2011
Cassazione civile sez. lav., 13/05/2011, (ud. 06/04/2011, dep. 13/05/2011), n.10617
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente –
Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –
Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 26265-2009 proposto da:
CO.MI.P. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 28, presso lo studio
dell’avvocato MARINO SALVATORE, rappresentata e difesa dall’avvocato
DIMARTINO GIUSEPPE, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
S.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
BRESSANONE 3, presso lo studio dell’avvocato CASOTTI CANTATORE MARIA
LUISA, rappresentata e difesa dall’avvocato DI PIETRO ALFIO, giusta
delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1048/2008 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,
depositata il 21/11/2008 r.g.n. 1508/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
06/04/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;
udito l’Avvocato MARIA LUISA CASOTTI CANTANTORE per delega ALFIO DI
PIETRO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
APICE Umberto per l’inammissibilità in via principale, in subordine
rigetto.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 21.11.2008, la Corte di Appello di Catania, quale giudice di rinvio, ha rigettato l’appello proposto dalla CO.MI.P. srl nei confronti della S. avverso la sentenza non definitiva emessa dal Pretore di Ragusa – Sez. Vittoria, emessa in data 13 marzo 1997 e la sentenza definitiva dello stesso Pretore emessa in data 16 aprile 1999 ed ha condannato alla rifusione delle spese di lite la suddetta società in base ai criterio della soccombenza.
Per quanto rileva in questa sede, il giudice d’appello, sulla premessa della illegittimità del licenziamento intimato alla S. dalla società, ha ritenuto che correttamente erano state riconosciute dal primo giudice le superiori mansioni e che, nonostante che fossero state acquisite agii atti le buste paga, gli importi indicati nelle stesse non corrispondevano alla realtà, essendo superiori a quelli che dovevano essere percepiti dalla lavoratrice sulla base della istruttoria correttamente svolta dal Pretore di Ragusa.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la CO.MI.P. srl, affidando l’impugnazione a quattro motivi.
Resiste con controricorso la S., che, in primo luogo, eccepisce l’inammissibilità del ricorso per essere stato lo stesso notificato il 23 novembre 2009, laddove il deposito dell’impugnata sentenza recava la data dei 21 novembre 2008.
Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va, in primo luogo, dichiarata infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente, perchè il ricorso ha rispettato il termine di cui al disposto dell’art. 327 c.p.c., essendo stato il ricorso della società – come emerge dalla stessa relata di notifica – presentato all’ufficio notifiche già in data 21 novembre 2009, Con il primo motivo la società deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115, 116, 117, 229 e 420 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sostenendo che ingiustificatamente era stato attribuito valore confessorio alle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio dal rappresentante legale della società.
Osserva che il giudice può trarre dalle stesse solo argomenti di prova ed assume il carattere non spontaneo delle dichiarazioni stesse, in quanto provocate dalle domande del giudice. Rileva, ancora, che non era stato valutato l’intero contenuto delle dichiarazioni che, ove correttamente interpretate, avrebbero condotto a conclusioni diverse e formula, all’esito della esposizione del motivo, quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..
Con il secondo motivo, la ricorrente censura la decisione per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1 e art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè per l’errata ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Rileva che in merito alla realtà fattuale, contraria al contenuto delle buste paga quietanzate, erroneamente il primo giudice aveva ritenuto raggiunta la prova sulla base delle dichiarazioni del legale rappresentante legale della società ed in base a mere presunzioni, riferendosi gli assegni acquisiti ad un periodo più ridotto rispetto a quello cui si riferiva la pretesa. Nel quesito domanda se possano valere come presunzioni gravi precise e concordanti i rilievi relativi all’ammontare di assegni emessi per il periodo 1990-92 in riferimento anche al periodo antecedente.
Con il terzo motivo la società denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 2729 c.c., comma 5, artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè l’omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 assumendo la mancanza di ogni prova per il periodo precedente al 1990, quanto alla mancata percezione degli importi ritenuti dovuti.
I suddetti motivi, da esaminarsi congiuntamente per comportare la soluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento, anche se la decisione impugnata va nella motivazione corretta alla stregua dell’art. 384 c.p.c., u.c. nella parte in cui assegna al libero interrogatorio del rappresentante legale della società, il valore di confessione.
E’ giurisprudenza costante, infatti, che le dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio non possono assumere la portata ed il valore di quelle rese in sede di interrogatorio formale (cfr., tra le altre, Cass. 13 settembre 2000 n. 12125, secondo cui le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio formale, pur se prive di valore confessorio, possono costituire il fondamento del convincimento del giudice, specialmente nelle controversie di lavoro, nelle quali il suddetto interrogatorio è previsto e regolato come atto istruttorie obbligatorio per il giudice di primo grado), ma l’affermazione censurata con il ricorso non ha avuto una rilevanza decisoria, perchè si configura – come emerge anche dall’intero iter argomentativo della sentenza impugnata -, a ben vedere, come una mera inesattezza definitoria. Ed invero, il giudice d’appello ha supportato le sue statuizioni, sui singoli punti oggetto di censura da parte della società, con corrette e congrue argomentazioni, che si sottraggono ad ogni doglianza in questa sede di legittimità.
In particolare, per quanto attiene le superiori mansioni che la S. ha rivendicato at fine di ottenere il corrispondente trattamento retributivo – poi riconosciutole sulla base della contrattazione collettiva -, il giudice d’appello ha correttamente attribuito il dovuto valore alle dichiarazioni del rappresentante legale della società, che, anche se rese in sede di interrogatorio libero, non potevano, comunque, non assumere rilevanza facendo riferimento a circostanze obiettive, che evidenziavano il carattere delle mansioni svolte dalla S., le quali erano espressione non già di conoscenze semplici, ma anche “di una preparazione e pratica d’ufficio”, confermata – come correttamente osserva il giudice d’appello – dall’acquisizione di un diploma di ragioniere”.
E la stessa tenuta sul piano logico e giuridico – capace di sottrarre ancora una volta la sentenza impugnata ad ogni censura in sede di legittimità – presenta la parte della decisione della Corte territoriale in cui – pur premettendosi che erano state acquisite agli atti le buste paghe firmate dalla lavoratrice – è stato rilevato che la non corrispondenza delle somme riportate in dette buste a quelle effettivamente versate alla S. era emersa a seguito di “una complessa ed approfondita indagine istruttoria” condotta dal primo giudice, che aveva rilevato come gli assegni, attraverso i quali venivano pagate le spettanze lavorative, attestavano, con il loro importo e con la loro frequenza temporale, che le somme in concreto corrisposte alla S. erano pressocchè equivalenti a quelle indicate dalla stessa lavoratrice nei propri atti difensivi e che ne legittimavano la domanda di differenze retributive.
Anche l’ultimo motivo di ricorso, prospettato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, quale violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. ed attinente alla regolamentazione delle spese dell’intero processo operata dal giudice d’appello, non può essere accolto, avendo la statuizione del giudice del gravame fatto applicazione corretta del principio della soccombenza.
Per concludere, va ribadita l’infondatezza del ricorso, che va rigettato.
In applicazione del principio della soccombenza, la società va condannata al pagamento delle spese dei presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la CO.MI.P. srl al pagamento delle spese di lite del presente giudizio di Cassazione, liquidate in Euro 30,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Roma, il 6 aprile 2011.
Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2011