Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 30969 del 27/11/2019

Cassazione civile sez. I, 27/11/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 27/11/2019), n.30969

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31868/2018 proposto da:

I.M. Alias I.M., elettivamente domiciliato in

Roma, via Otranto 12, presso lo studio dell’avvocato Grispo Marco

che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale allegata

al ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato presso gli uffici dell’avvocatura generale dello Stato,

in Roma via dei Portoghesi 12, dalla quale è rappresentato ope

legis;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5541/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 7/9/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/10/2019 dal Cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO.

Fatto

RILEVATO

che:

I.M. (alias I.M.), pakistano, ricorre per cassazione contro la sentenza della corte d’appello di Roma con la quale è stato confermato il rigetto della domanda di protezione internazionale nelle sue alternative forme;

il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3,4,5 e 8, poichè nella sostanza la corte territoriale avrebbe omesso – con una motivazione superficiale al punto da doversi considerare apparente – qualsivoglia giudizio sulle specifiche contestazioni sollevate con l’appello, sia in relazione al rilievo del tribunale di scarsa credibilità della ricostruzione dei fatti, sia in relazione ai presupposti della protezione internazionale; col secondo mezzo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,7,14,16 e 17 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi, in quanto la corte d’appello avrebbe mancato di esprimersi sulle contestazioni mosse avverso il giudizio di inattendibilità espresso dal tribunale e di esaminare i fatti prospettati dal richiedente anche alla luce delle condizioni socio-politiche generali del Pakistan;

col terzo mezzo, infine, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e art. 5 del T.U. imm., nonchè l’omesso esame di fatti decisivi, per avere l’impugnata sentenza omesso qualsivoglia accertamento sulla sussistenza delle diverse condizioni poste a base della protezione umanitaria;

il primo e il secondo motivo, connessi, sono fondati nel senso che segue;

la corte d’appello – dopo una lunga esposizione dei fondamenti normativi del rifugio politico e della protezione sussidiaria, a suo dire tale da imporre un essenziale riferimento alla vicenda personale del richiedente – ha ritenuto che la vicenda dal richiedente narrata,

facente leva sull’esser fuggito dal Pakistan a cagione di conflitti religiosi presenti nel suo villaggio, tra la maggioranza di fede sciita e la minoranza (alla quale egli stesso appartiene) di fede sunnita, culminati in episodi di violenza e minaccia personale e generalizzata, non consentisse in sè di reputare esistente il presupposto del rifugio politico e della protezione sussidiaria;

questa valutazione è stata sorretta dalla seguente unica motivazione: (a) perchè il ricorrente non aveva “dimostrato il serio rischio all’incolumità fisica cui sarebbe andato incontro ove avesse fatto ritorno al suo paese, e ciò in ragione di un permanente conflitto armato (..) e della mancata prova di essere stato coinvolto in uno scontro tra fazioni con la morte dello zio senza sporgere neppure alcuna denuncia alle Autorità”; (b) perchè inoltre le circostanze dal ricorrente riferite non erano “così gravi da ritenere che nello Stato di provenienza sussistano persecuzioni o concreti pericoli che lo minacciano a causa di un permanente conflitto armato o totale instabilità della situazione politica, nè i presupposti per la minore forma di protezione sussidiaria richiesta o per il riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari”;

dopodichè la corte territoriale è passata a esaminare la domanda di protezione umanitaria, rigettando anche codesta;

la motivazione spesa per respingere l’appello in ordine alle protezioni maggiori è lacunosa ed evasiva, e non assolve affatto all’onere di giustificare razionalmente la decisione;

questa Corte ha da tempo chiarito che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è rilevante se correlata alla posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza a etnia, associazione, credo politico o religioso, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico dell’integrità psico-fisica (per tutte Cass. n. 30105-18);

ne segue che non può affermarsi che un narrato del tipo di quello di cui la corte d’appello pur ha dato atto sia di per sè trascurabile (o non così grave), ai fini dell’apprezzamento di concreti pericoli di esposizione a rischio personale in ragione del credo religioso;

al tempo stesso, in tema di protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato, presente nel Paese in cui lo straniero dovrebbe fare ritorno, può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale del richiedente la protezione nella situazione di pericolo (v. Cass. n. 16275-18);

l’accertamento dei presupposti di fatto delle suddette forme di protezione è riservato al giudice del merito, ma deve essere svolto con la puntualità resa necessaria dall’allegazione, e con indicazione delle fonti di conoscenza all’uopo considerate;

l’impugnata sentenza va dunque cassata;

debbono essere affermati – e ribaditi – i seguenti principi:

(i) il requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza a un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate; il relativo onere probatorio – che riceve un’attenuazione in funzione dell’intensità della persecuzione – incombe sull’istante, per il quale è tuttavia sufficiente dimostrare, anche in via indiziaria, la “credibilità” dei fatti allegati, i quali, peraltro, devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza (v. Cass. n. 14157-16);

(ii) quanto alla protezione sussidiaria, ai fini dell’accertamento della fondatezza di una domanda proposta sulla base del pericolo di danno di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato determinativa di minaccia grave alla vita o alla persona), una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, il giudice del merito è tenuto, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, a cooperare nell’accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine e di acquisizione documentale in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul Paese di origine del richiedente; e al fine di ritenere adempiuto tale onere, il giudice è tenuto altresì a indicare le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312-19, Cass. n. 13449-19, Cass. n. 13897-19);

resta assorbito il terzo motivo, relativo alla protezione umanitaria;

l’impugnata sentenza va cassata e la causa rinviata alla medesima corte d’appello di Roma che, in diversa composizione, rinnoverà l’esame uniformandosi ai principi esposti;

essa provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2019

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