Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27335 del 24/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 24/10/2019, (ud. 02/07/2019, dep. 24/10/2019), n.27335

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17128-2015 proposto da:

I.M. & C. S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI RIENZO

297, presso lo studio dell’avvocato DIEGO SOLLECCHIA, rappresentata

e difesa dall’avvocato UGO BOIRIVANT;

– ricorrente –

contro

C.R., in proprio, L.T.M. LIVORNO TERMINAL MARITTIMO, in

persona del legale rappresentante C.R., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA GIUSEPPE PISANELLI 2, presso lo studio

dell’avvocato ALBERTO ANGELETTI, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati VITO VANNUCCI, RICCARDO DEL PUNTA;

– controricorrenti –

e contro

FINANZIARIA DARTO S.R.L., R.C. S.R.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 372/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 03/07/2014 R.G.N. 114/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/07/2019 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso; udito l’Avvocato UGO BOIRIVANT;

udito l’Avvocato RICCARDO DEL PUNTA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La s.p.a. I.M. & C. adiva il Tribunale di Livorno ed esponeva in via di premessa, di esser titolare di crediti di imponente ammontare, nei confronti di C.R., in virtù di una serie di sentenze esecutive. Dolendosi di non averne potuto conseguire il recupero, conveniva in giudizio C.R. nonchè la Darto s.r.l., la LTM s.r.l. e la R.C. s.r.l. nelle quali il primo aveva rivestito funzioni di presidente ovvero di amministratore delegato, proponendo azione surrogatoria “satisfattiva” ai sensi dell’art. 2900 c.c.. La ricorrente instava affinchè le società presso le quali C.R. aveva svolto detti ruoli, corrispondessero il pagamento dei compensi a lui spettanti direttamente in favore di essa creditrice, previa determinazione anche equitativa, dei compensi maturati in favore del proprio debitore.

Nel costituirsi in giudizio le parti convenute contestavano la domanda deducendone l’inammissibilità, sul rilievo che con precedente sentenza n. 249/2006 resa nell’ambito del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., era stata accertata l’insussistenza del diritto del C. al compenso come amministratore delle menzionate società. Proponevano quindi domanda riconvenzionale volta a conseguire il risarcimento dei danni da lite temeraria.

Il giudice adito accoglieva la domanda proposta dalla s.p.a. I.M., con sentenza che veniva riformata dalla Corte distrettuale.

Il giudice del gravame, a fondamento del decisum, e per quanto ancora qui rileva, osservava che l’azione surrogatoria satisfattiva nella specie esperita, presupponeva l’accertamento della sussistenza del credito del debitore verso il terzo e la sua liquidità. Rimarcava, peraltro che nella specie la società ricorrente aveva già esperito nei confronti della LTM e della DARTO s.r.l., azione ex art. 548 c.p.c. conclusasi con sentenza, passata in giudicato, di accertamento negativo circa l’esistenzà di crediti di C.R. nei confronti delle summenzionate società.

Con riferimento alla azione promossa nei confronti della s.r.l. R.C., rimasta estranea al giudizio proposto ai sensi dell’art. 548 c.p.c., la Corte di merito argomentava che dall’atto costitutivo della società non si evinceva la definizione di alcun diritto al compenso per gli amministratori, nè le delibere assembleari avevano mai provveduto in tal senso. La circostanza che il C. avesse accettato incarichi che non prevedevano compensi, per lunghi anni, confermava ulteriormente la gratuità della prestazione collaborativa resa.

Avverso tale pronuncia la s.p.a. I.M. &C. interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi ai quali resistono con controricorso C.R. e la società L.T.M. La s.r.l. Finanziaria Darto e R.C. s.r.l. non hanno svolto attività difensiva.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa aì sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo si denunzia violazione dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3..

Si critica la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’accertamento negativo del diritto di credito compiuto nel giudizio sull’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., precludesse l’esame della fondatezza del diritto azionato nel presente giudizio.

Si osserva, per contro, che l’accertamento dell’obbligo del terzo e l’azione surrogatoria non si fondano sui medesimi punti di fatto o di diritto, giacchè l’azione esperita in sede esecutiva può riguardare solo i crediti assoggettabili a pignoramento che, se da un lato possono comprendere crediti condizionati, illiquidi o non ancora esigibili, non possono mai includere quelle posizioni la cui attualità o la cui certezza dipendono dal venir in essere dei propri stessi presupposti. Sulla base di tali principi si deduce che non possono essere staggiti, formando oggetto di azione ex art. 548 c.p.c., i crediti da accertare in sede giudiziale sia per quanto concerne l’an che il quantum debeatur.

2. La tesi accreditata dal ricorrente a sostegno della critica, si presenta evidentemente carente sotto il profilo della specificità, giacchè, in violazione dei dettami sanciti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6 omette di riportare integralmente il tenore della sentenza di accertamento della insussistenza dei crediti vantati dal C. nei confronti delle società controricorrenti, passata in cosa giudicata.

La giurisprudenza di questa Corte, da tempo, ha infatti posto in evidenza il necessario coordinamento tra il principio secondo cui l’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata direttamente dalla Corte di Cassazione con cognizione piena, e il principio della necessaria specificità del ricorso.

E’ stato infatti, affermato che “l’interpretazione di un giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il predetto ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale” (vedi in motivazione Cass. Sez. Un. 27/1/2004 n. 1416 cui adde Cass. 31/7/2012 n. 13658, Cass. 15/10/2012 n. 17649, Cass. 23/6/2017 n. 15737, Cass. 31/05/2018 n. 13988).

Tale orientamento ha rimarcato come i motivi di ricorso per cassazione fondati su giudicato esterno, debbano rispondere ai dettami di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, che del principio di autosufficienza rappresenta il precipitato normativo (cfr. Cass. 18/10/2011 n. 21560, Cass. 30/4/2010 n. 10537, Cass. 13/3/2009 n. 6184); tanto sia sotto il profilo nella riproduzione del testo della sentenza passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il riassunto sintetico della stessa (cfr. Cass. 11/2/2015 n. 2617), sia sotto il profilo della indicazione della sede in cui essa sarebbe rinvenibile ed esaminabile in questo giudizio di legittimità (vedi Cass. cit. n. 21560/2011).

Nello specifico, la pronuncia non risulta trascritta nel suo contenuto, nè parte ricorrente indica in quale parte del fascicolo la stessa sarebbe rinvenibile; onde il motivo resiste alla censura all’esame.

3. La seconda critica prospetta violazione dell’art. 2389 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3..

Si deduce che una corretta lettura della disposizione – che sancisce il diritto perfetto dell’amministratore di una s.r.l. a compenso per l’opera prestata (stabilito nello statuto delle società Darto Finanziaria ed L.T.M.) avrebbe dovuto indurre la Corte distrettuale al riconoscimento del diritto del C. al compenso spettante in relazione alla attività espletata.

4. Anche questa censura palesa profili di inammissibilità.

S’impone infatti l’evidenza del difetto di specificità della doglianza che non riproduce il tenore dell’art. 16 dello Statuto della. Darto Finanziaria nè dell’art. 27 dello Statuto L.T.M. recanti la previsione che l’organo assembeare possa provvedere a deliberare il compenso in favore degli amministratori. Nel rispetto dei requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, il ricorrente deve infatti specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso (vedi ex plurimis Cass.13/11/2018 n. 29093). Non avendo la società ottemperato a tale ultimo incombente, la censura non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.

5. Con il terzo motivo è denunciata violazione dell’art. 1720 c.c.ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la statuizione con la quale la Corte di merito ha accertato la gratuità della prestazione resa dal C., sul rilievo che il mandato integrante il contenuto dell’incarico conferito all’amministratore – ha sempre natura onerosa per espressa previsione dell’art. 1720 c.c., come stabilito dai dicta della corte di legittimità secondo cui la gratuità della prestazione, se non prevista dallo statuto societario, deve emergere da una delibera assembleare.

Si desume quindi dalle enunciate premesse, che la rinuncia dell’amministratore al compenso non può evincersi dalla mera inerzia di quest’uitimo, ma deve esprimersi in un atto positivo, che nella specie era mancato.

6. Il motivo è privo di fondamento.

Il giudice del gravame, nel proprio incedere argomentativo, ha infatti accertato che il ruolo rivestito dal C. nelle compagini societarie, non postulava l’obbligatorietà del compenso professionale, acclarando altresì che nessuno degli atti costitutivi delle tre società aveva assicurato un compenso per gli amministratori; ha quindi precisato ulteriormente che non risultava agli atti, nè era stato specificamente allegato, che alcun corrispettivo fosse stato effettivamente versato al C..

La richiamata statuizione è conforme a diritto e si sottrae alle critiche formulate, perchè coerente coi dicta di questa Corte secondo cui il rapporto che lega l’amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, nè a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all’area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario “tout court” (vedi Cass. 11/2/2016 n. 2759).

La continuità di tali condivisibili approdi è segnata da successiva pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte con la quale si è rimarcata la natura del rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore nei descritti termini; la Corte ha infatti avuto modo di argomentare come l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una s.p.a. siano legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall’art. 409 c.p.c., n. 3 (vedi Cass. S.U. 20/1/2017 n. 1545), di guisa che del tutto legittima è anche la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni (cfr. Cass. 9/1/2019 n. 285).

Il possesso della qualifica di amministratore di società di capitali, non comporta in capo a chi tale qualifica riveste, alcun rapporto di tipo contrattuale con la società stessa, di guisa che non potrebbe riconoscersi all’amministratore alcun diritto ex lege al compenso (vedi sul punto Cass. 2017 n. 15382).

Discende, coerente, dagli evocati principi, che la normativa invocata da parte ricorrente in tema di mandato, con la relativa presunzione di gratuità, non può rinvenire riscontro nella fattispecie delibata.

La statuizione impugnata, del tutto congrua sotto il- profilo logico, e corretta sul versante giuridico, perchè coerente con i principi summenzionati che la Corte distrettuale ha mostrato di conoscere e condividere, per quanto sinora detto, resiste alla censura all’esame.

7. La quarta critica concerne la violazione dell’art. 2697 c.c.ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. ed attinge la pronuncia della Corte distrettuale laddove ha ritenuto non adempiuto dalla società ricorrente, l’onere di allegazione e di prova in ordine ai tempi e modi entro i quali il C. aveva esercitato la carica di amministratore presso le società convenute.

Si fa leva sui dati desumibili da articoli di stampa e dal tenore di talune testimonianze raccolte, (peraltro neanche riportate nel loro tenore), per sostenere che il C. svolgesse un’attività di primissimo piano nella amministrazione delle società menzionate, richiamandosi il principio della vicinanza della prova, secondo cui la distribuzione degli oneri probatori deve tener conto del principio costituzionale che impone di interpretare la legge in modo da non renderne impossibile l’esercizio.

8. Anche detto motivo mostra evidenti criticità quanto ai requisiti di ammissibilità del ricorso.

Vale difatti osservare che il vizio di violazione di legge ricorre (quanto alla violazione di legge in senso proprio) in ipotesi di erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, nonchè di attribuzione ad essa di un significato non appropriato, ovvero (quanto alla falsa applicazione), alternativamente, nella sussunzione della fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perchè, rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro, od altresì nella deduzione dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, di conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass. 26/9/2005, n. 18782).

Dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va difatti tenuta distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrirnine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11/1/2016, n. 195; Cass. 30/12/2015, n. 26110; Cass. 4/4/2013, n. 8315, Cass., Sez. Un. 5/5/2006 n. 10313).

Nel caso in esame il motivo non attiene al significato e alla portata applicativa delle norme in esso richiamate, ma si confronta esclusivamente con il governo del materiale probatorio eseguito dalla Corte d’appello, richiamandosi a dichiarazioni testimoniali e a dati documentali neanche riprodotti nella loro portata, secondo modalità non consentite nella presente sede.

9. In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso va rigettato.

Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata. Nessuna statuizione va emessa in relazione a Finanziaria Darto s.r.l. ed a R.C. s.r.l. che non hanno svolto attività difensiva.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il comma 1 quater al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore di C.R. nonchè di L.T.M. s.r.l. che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 8.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2019

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA