Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25827 del 14/10/2019

Cassazione civile sez. II, 14/10/2019, (ud. 08/03/2019, dep. 14/10/2019), n.25827

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10881/2018 proposto da:

B.B., rappresentata e difesa dall’avvocato GIANDOMENICO

DANIELE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositato il

20/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/03/2019 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Firenze, con decreto del 20.10.2017, rigettava l’opposizione proposta da B.B. avverso il decreto del Giudice Delegato, che aveva rigettato la richiesta di indennizzo ex L. n. 89 del 2001, per la ricorrenza dei presupposti di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quinquies, avendo la parte agito in giudizio nella consapevolezza dell’infondatezza della domanda nel giudizio presupposto. Tale giudizio, avente ad oggetto la richiesta di pensione di guerra avanzata dal padre e dalla medesima proseguita, era stata rigettata, perchè richiesta dopo molti anni dal fatto, segnatamente nel 1952-1963 in relazione a fatti avvenuti nel 1917, senza che la parte avesse specificato i motivi di tale ritardo nella proposizione della domanda; era stato, inoltre, accertato che il ricovero non era stato dovuto a causa delle ferite riportate ed era persino incerta la presenza della parte sui luoghi di guerra.

Per la cassazione del decreto, B.B. ha proposto ricorso sulla base di due motivi.

Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In prossimità dell’udienza, la ricorrente ha depositato memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 1991, art. 2, comma 2 quinquies e degli artt. 24 e 101 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; la ricorrente si duole della decisione della corte territoriale, che ha negato il diritto all’indennizzo per irragionevole durata del giudizio presupposto, sulla base della mera infondatezza della domanda, mentre la corte territoriale avrebbe dovuto esaminare la temerarietà della lite e l’abusività della domanda, al fine di escludere il diritto all’equo indennizzo.

Con il secondo motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, e la violazione del R.D. n. 1038 del 1933 e L. n. 205 del 2000, per avere la corte territoriale omesso di valutare che, nel giudizio presupposto, il Procuratore presso la Corte dei Conti avrebbe omesso di acquisire il fascicolo amministrativo.

I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, afferma che “non è riconosciuto alcun indennizzo in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’art. 96 c.p.c.”.

E’, quindi, escluso l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo al richiedente consapevole – sin dall’inizio o nelle more della lite – della infondatezza delle proprie ragioni, poichè, in tali casi, manca il patema d’animo, difettando la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza.

In base al comma 2-quinquies, aggiunto della L. n. 89 del 2001, art. 2, citato D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. a), n. 3), l’abuso del processo per effetto della temerarietà della lite osta al riconoscimento dell’equo indennizzo anche in mancanza di un provvedimento di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., in quanto l’elencazione contenuta in detto comma 2-quinquies non ha carattere tassativo, sicchè il giudice dell’equa riparazione può pervenire a tale giudizio in base al proprio apprezzamento (Cassazione civile sez. II, 14/01/2019, n. 595).

Milita a favore di tale affermazione, innanzi tutto, l’assenza di elementi d’indole letterale idonei a supporre che l’indennizzo, fermo il danno (presunto o accertato), sia ammesso in ogni altra ipotesi diversa da quelle elencate dalla norma; in secondo luogo, la lett. f) del comma 2-quinquies cit. lascia intendere che il legislatore, tipizzate alcune ipotesi di abuso (nelle lett. da a) ad e), abbia voluto lasciare aperta la possibilità di individuarne altre di pari livello. La tipizzazione delle ipotesi di cui al comma 2-quinquies cit. reagisce sulla fattispecie concreta attraverso il vincolo che pone all’interprete: in particolare, va osservato che detta norma sottrae al giudice, in presenza di una condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., ogni possibilità di apprezzare il caso specifico, di guisa che il diritto all’indennizzo è senz’altro escluso; correlativamente, l’assenza di un provvedimento di condanna per responsabilità aggravata restituisce al giudice il potere di valutare la condotta tenuta dalla parte nel processo presupposto e di pervenire se del caso ad un giudizio di temerarietà della lite non formulato dal giudice di quella causa. L’inesistenza nel giudizio presupposto di una condanna per responsabilità aggravata ben può dipendere, infatti, da fattori del tutto accidentali, quali l’assenza di domanda o il difetto di prova del danno, nelle ipotesi dei primi due commi dell’art. 96 c.p.c., ovvero il mancato esercizio del potere officioso ma discrezionale che il comma 3 di detta norma assegna al giudice. In questi casi nulla autorizza a ritenere che la parte soccombente non abbia agito o resistito in giudizio con la consapevolezza del proprio torto: semplicemente, non vi è stato alcun accertamento al riguardo. Del resto sarebbe del tutto illogico sopprimere nel procedimento d’equa riparazione ogni altro rilievo della mala fede processuale (non già esclusa, ma) non valutata nel giudizio presupposto, vincolando il giudice ad un giudizio di non temerarietà della lite non altrimenti motivato e motivabile.

Si deve, quindi, concludere che l’ipotesi di abuso del processo di cui della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. a) e b), non esaurisce l’incidenza della temerarietà della lite sul diritto all’equa riparazione, essendo consentito al giudice di pervenire a tale giudizio in base al proprio apprezzamento e, pertanto, il giudice del procedimento ex lege n. 89 del 2001, può valutare – e poteva farlo anche nella previgente disciplina – anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

Nella specie, sulla base di circostanze di fatto, apprezzate compiutamente dalla corte territoriale, è stata ravvisata la consapevolezza dell’infondatezza della pretesa originaria, indipendentemente dall’omessa condanna della parte per lite temeraria nel giudizio presupposto.

Il giudice d’appello ha apprezzato elementi di fatto, insindacabili in sede di legittimità, che lo hanno portato a ravvisare la consapevolezza dell’infondatezza dell’originaria pretesa da parte dell’istante, consistenti in una serie di circostanze, come l’incertezza della presenza della parte sui luoghi di guerra, la mancata certezza che il ricovero fosse avvenuto a causa delle ferite riportate in guerra, il ritardo nella proposizione dell’azione per l’ottenimento della pensione di guerra, promossa dopo circa quaranta anni dal fatto. Inoltre, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente nelle memorie integrative, la corte territoriale non ha compensato le spese di lite ma ha le ha poste a carico della B., applicando il principio della soccombenza.

Non sono, infine, censurabili attraverso il vizio motivazionale le asserite violazioni processuali che riguardino il giudizio presupposto, in quanto l’omessa motivazione ha per oggetto i “fatti storici ” decisivi per il giudizio.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 900,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 8 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

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