Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24599 del 02/10/2019

Cassazione civile sez. I, 02/10/2019, (ud. 18/06/2019, dep. 02/10/2019), n.24599

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15673/2015 proposto da:

Cipea & Carile – CO.ED.A. – Unifica – Consorzio fra Imprese di

Produzione Edilizia, Impiantistica ed Affini Soc. Coop. (già

C.I.P.E.A. Soc. Coop.), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Tagliamento n. 55,

presso lo studio dell’avvocato Di Pierro Nicola, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato Paolini Elena, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento Impresa (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione, in persona del

curatore Dott.ssa C.P., elettivamente domiciliato in Roma,

Piazza d’Ara Coeli n. 1, presso lo studio dell’avvocato Molinaro

Angelo, rappresentato e difeso dall’avvocato Moroni Paolo, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 749/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 17/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/06/2019 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – (OMISSIS) s.r.l. impugnava la Delib. 21 novembre 2005, con cui il consiglio di amministrazione del consorzio Cipea s.c.ar.l. – ora Cipea & Cariie – CO.ED.A Unifica – Consorzio fra imprese di produzione edilizia impiantistica e affini soc. coop. aveva applicato ad essa, nella qualità di consorziata, la pena pecuniaria di Euro 650.000,00 per gravi inadempimenti nell’esecuzione del contratto sociale.

Il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda e dichiarava la nullità della Delibera per l’assoluta indeterminatezza delle clausole dello statuto e del regolamento consortile in base ai quali era stata applicata la sanzione.

2. – La pronuncia era impugnata dal consorzio.

Nella resistenza della curatela della società (OMISSIS), fallita nelle more, il proposto gravame era respinto dalla Corte di appello di Bologna con sentenza pubblicata il 17 aprile 2015. Il giudice distrettuale, per quanto qui rileva, osservava che non poteva ritenersi determinata o determinabile la previsione dello statuto consortile (art. 11) che disciplinava le sanzioni da adottare nei confronti dei consorziati, in mancanza di una specifica indicazione della tipologia delle sanzioni e dei criteri e delle modalità da seguire nell’irrogazione di esse; negava, inoltre, che il contenuto delle sanzioni potesse essere rimesso al consiglio di amministrazione, che non poteva considerarsi soggetto terzo, nel senso indicato dall’art. 1349 c.c.; rilevava, infine, che non ricorreva la lamentata omessa valutazione della fondatezza del credito di Cipea verso la società consorziata, in quanto la nullità delle disposizioni statutarie che costituivano il presupposto dell’irrogazione della sanzione precludeva l’esame del tema in questione.

La sentenza della Corte emiliana è denunciata per cassazione attraverso quattro motivi da Cipea & Carile. Resiste con controricorso il fallimento di (OMISSIS) s.r.l..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo lamenta “nullità della sentenza per non aver deciso in ordine all’eccezione di decadenza dell’azione prospettata”. Deduce l’istante che l’art. 23 dello statuto del consorzio prevedeva che il consiglio di amministrazione dovesse comunicare per iscritto al socio gli addebiti che gli venivano mossi e che il socio stesso avesse quindici giorni di tempo per fornire giustificazioni al riguardo, dopo di che era tenuto “a regolare la sua posizione nei confronti del consorzio”. Precisa che in appello essa ricorrente aveva richiamato la detta disciplina, facendo presente che la società (OMISSIS), ccl proprio comportamento omissivo, aveva prestato acquiescenza alla decisione assunta da Cipea e che ogni contestazione in ordine alla sanzioni irrogate doveva ritenersi intempestiva. Si duole, poi, che su detta censura la Corte di appello abbia omesso di pronunciare, e quindi anche di rendere alcuna motivazione.

Il motivo è inammissibile.

Come dedotto dal fallimento, i giudici di merito hanno accertato la nullità della clausola di cui all’art. 23 dello statuto consortile, che regolamentava la modalità attraverso cui andava effettuata la contestazione degli inadempimenti al socio consorziato, ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui qui si discute. Ciò implica che la questione relativa alla dedotta acquiescenza della società (OMISSIS) rispetto alle determinazioni del consiglio di amministrazione, fondata sulla portata precettiva di tale disposizione statutaria – determinazioni vertenti, oltretutto, sull’applicazione di una clausola (l’art. 11, sull’adozione delle penalità) anch’essa dichiarata nulla restasse assorbita. Ciò detto, il vizio d’omessa pronuncia, configurabile allorchè manchi completamente il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, deve essere escluso, pur in assenza di una specifica argomentazione, in relazione ad una questione implicitamente o esplicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza (Cass. 16 gennaio 2016, n. 1360): in tal caso, infatti, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento (Cass. 12 novembre 2018, n. 28995; Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663).

Per completezza si impone un ulteriore rilievo. La curatela controricorrente ha rilevato che l’eccezione di decadenza di cui si dibatte (che è, all’evidenza, un’eccezione in senso stretto e che non era quindi proponibile in appello) non venne sollevata avanti al Tribunale; l’istante, per parte sua, non ha indicato, nel proprio ricorso, in quali atti del giudizio di primo grado essa fosse stata proposta e quale contenuto la medesima avesse specificamente assunto. In ciò la censura di cui al primo motivo risulta carente di autosufficienza e tale difetto, ove si prescindesse da quanto in precedenza rilevato in punto di assorbimento, rivestirebbe portata decisiva. Infatti, secondo la giurisprudenza di questa S.C., l’omessa pronuncia, qualora abbia ad oggetto una domanda inammissibile, non costituisce vizio della sentenza e non rileva nemmeno come motivo di ricorso per cassazione, in quanto, alla proposizione di una tale domanda, non consegue l’obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito di quella domanda (ad es.: Cass. 25 settembre 2018, n. 22784; Cass. 2 dicembre 2010, n. 24445): ma il medesimo principio deve trovare applicazione con riferimento al vizio di omessa pronuncia su di una eccezione (cfr. infatti, con riguardo al precedente regime dell’appello, Cass. 10 marzo 1979, n. 1493, secondo cui la sentenza di gravame che non prenda in esame un’eccezione tardivamente proposta non incorre nel vizio suddetto, nè in quello di omessa motivazione).

2. – Il secondo mezzo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 1346 c.c.. La società ricorrente rileva che lo statuto consortile contemplava una procedura, con riguardo all’irrogazione delle sanzioni, che assicurava un pieno bilanciamento tra il diritto dell’associato di partecipare alla vita consortile e quello dell’ente di vedere rispettato il principio mutualistico cui erano informate le regole prescritte. Osserva che con riguardo alla specificazione dei motivi fondanti la sanzione e all’entità di essa era intervenuto il consiglio di amministrazione del consorzio e che tanto valeva a rendere definita, nei suoi precisi termini, la portata dell’art. 11 dello statuto.

Col terzo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1346 e 1349 c.c.. Secondo la ricorrente, se le parti possono demandare a un soggetto terzo la successiva determinazione della prestazione dedotta in contratto, esse possono, nella loro autonomia contrattuale, riservare tale facoltà a una di esse. Nella fattispecie, la società consorziata aveva aderito allo statuto allorquando aveva assunto la veste di consorziata e in tal modo essa aveva approvato le clausole contestate, le quali contenevano disposizioni “perfettamente determinabili, sulla scorta di criteri e secondo modalità già in esse previste”.

I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

Come questa Corte ha avuto modo di precisare, in materia di società cooperative, la clausola contenuta nello statuto che preveda penalità a carico dei soci, pur avendo finalità sanzionatoria, disciplina una prestazione patrimoniale rivolta a presidiare l’adempimento e risulta correlata alla tutela dei vincoli derivanti dalla mutualità, la cui origine e la cui fonte sono tuttavia pur sempre rappresentate dal contratto sociale: trattandosi di obbligazione derivante dal contratto, tale clausola, al pari di ogni altra obbligazione di origine contrattuale, deve risultare conforme al disposto dell’art. 1346 c.c., in base al quale l’oggetto del contratto deve essere determinato ovvero, quanto meno, determinabile. La stessa è quindi nulla ove, nel rimettere al consiglio di amministrazione la facoltà di irrogazione della penalità pecuniaria a carico dei soci inadempienti, non contenga alcuna indicazione sulla misura della sanzione o, quanto meno, sui criteri per determinarla, impedendo in tal modo di individuare ex ante il contenuto della prestazione (Cass. 3 marzo 2005, n. 4635).

D’altro canto, come correttamente rilevato dalla Corte di merito, richiamando la pronuncia testè citata, lo stesso consiglio di amministrazione non può considerarsi “terzo” rispetto alla società, onde non può trovare applicazione, nel caso di specie, l’art. 1349 c.c.. Al contrario, la deliberazione volta all’irrogazione della sanzione, previa constatazione dell’inadempimento del socio, costituisce espressione della volontà della società di avvalersi dello strumento previsto dallo statuto per reagire alla mancata osservanza, da parte di quel soggetto, degli obblighi che gli incombono (cfr., in tema di consorzio, Cass. 7 marzo 1977, n. 919). La deliberazione in questione non è tuttavia validamente assunta in mancanza di una clausola che abbia, come nella specie, un oggetto non determinato e non determinabile.

L’assunto per cui lo stesso consiglio di amministrazione della società – che è organo, quindi emanazione, di questa – potrebbe riempire di contenuto la clausola statutaria che ne sia del tutto priva si scontra, poi, con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui il requisito della determinatezza o della determinabilità dell’oggetto dell’obbligazione esprime una fondamentale esigenza di concretezza dell’atto contrattuale, avendo le parti la necessità di conoscere l’impegno assunto ovvero i criteri per la sua determinazione, il che può essere pregiudicato dalla possibilità che la misura della prestazione sia discrezionalmente determinata, sia pure in presenza cli precise condizioni legittimanti, da una soltanto delle parti (Cass. 19 ottobre 2017, n. 24790; Cass. 29 febbraio 2008, n. 5513). E infatti, rimettere a uno dei contraenti il potere di identificare una prestazione contrattuale, non altrimenti definita, implica, come conseguenza, l’inaccettabile soggezione di una delle parti all’arbitrio dell’altra: e tale possibilità non è consentita dalla legge, la quale ammette, con l’art. 1349 c.c., che la determinazione dell’oggetto del contratto sia rimessa non già ai contraenti, ma al terzo. Vero è che quello della successiva integrazione del contratto attraverso la determinazione del suo oggetto da parte dei contraenti non costituisce un divieto assoluto, tant’è che l’art. 1286 c.c., conferisce a una delle parti il potere di individuare il preciso oggetto dell’obbligazione alternativa: ma è significativo che pure in quest’ultima ipotesi il potere di determinazione dell’oggetto dell’obbligazione operi all’interno di elementi predeterminati legalmente o convenzionalmente, talchè, in definitiva, la parte cui non compete il potere di scelta risulta essere tutelata contro il pericolo degli abusi dell’altra (rischio invece sempre presente allorquando il contratto o una sua disposizione siano del tutto indeterminati nell’oggetto, come nel caso in esame).

Allo stesso modo non può attribuirsi alcun rilievo significativo, ai fini che qui interessano, alla adesione alla società da parte della fallita, essendo fin troppo evidente che l’approvazione, da parte della stessa, della clausola nulla non poteva avere portata sanante.

3. – Il quarto motivo censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1322 e 1346 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c.. Assume l’istante che in caso di prescrizioni statutarie indeterminate il giudice debba “completare lui stesso”, attraverso la valutazione della correttezza dell’operato del consiglio di amministrazione, “le clausole ritenute generiche”, non potendo limitare la decisione da assumere all’accertamento della genericità delle disposizioni dello statuto che vengono in questione.

La censura va disattesa.

Una clausola con oggetto indeterminato e indeterminabile è nulla e ciò preclude alcun intervento da parte del giudice: intervento che potrebbe essere ammesso solo in presenza di una specifica norma di legge, che la parte ricorrente non si mostra però in grado di indicare. Va del resto sottolineato che in tema di pattuizioni dirette alla predeterminazione del risarcimento, al giudice è bensì consentito di operare in senso correttivo, riducendo la penale eccessiva (art. 1384 c.c.), ma non anche di sostituirsi alla volontà di contraenti, fissando il contenuto di una clausola che, con riguardo alla prestazione risarcitoria, risulti priva di un contenuto definito.

Questa Corte ha bensì affermato, anche di recente, che ove il terzo, cui sia stato demandato dalle parti il relativo compito, non addivenga alla determinazione della prestazione dedotta in contratto, nè ad essa provvedano le parti direttamente, e una di esse adisca il giudice chiedendo la condanna della controparte all’adempimento della prestazione, la relativa controversia, avente ad oggetto il predetto adempimento e il necessario presupposto della determinazione della prestazione da eseguire, possa essere risolta direttamente, anche per il principio generale dell’economia processuale, dal giudice, con una decisione il cui risultato ha la funzione di integrare, quanto alla determinazione e secondo la ratio dell’art. 1349 c.c., il contratto nel suo manchevole elemento (Cass. 8 febbraio 2019, n. 3835; Cass. 5 agosto 1983, n. 5272); ma si tratta di un principio chiaramente inapplicabile alla vicenda in esame, che non verte sul mancato intervento di un arbitratore, quanto, piuttosto, sulla radicale indeterminabilità della prestazione negoziale e sulla correlativa nullità della clausola di cui tale prestazione è oggetto.

4. – Il ricorso è dunque respinto.

5. – Per le spese del giudizio di legittimità trova applicazione il principio di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2019

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