Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22516 del 10/09/2019

Cassazione civile sez. III, 10/09/2019, (ud. 18/04/2019, dep. 10/09/2019), n.22516

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10382-2017 proposto da:

S.B., domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentato e

difeso per legge;

– ricorrente –

contro

P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA B. TORTOLINI

34, presso lo studio dell’avvocato NICOLO’ PAOLETTI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GINEVRA PAOLETTI;

R.N., nella sua qualità di erede di R.M.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASUBIO 15, presso lo studio

dell’avvocato ALESSANDRO GAMBERINI, che la rappresenta e difende;

B.S., e C.L.C.L., in proprio e

quali eredi di C.G.; CA.AN., + ALTRI OMESSI,

in proprio e quali eredi di I.D., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 29, presso lo studio

dell’avvocato FRANCESCA GRAZIA CONTE, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

mo.fr.;

– intimato –

Nonchè da:

mo.fr., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO 15,

presso lo studio dell’avvocato DARIO PICCIONI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato RINO BATTOCLETTI;

– ricorrente incidentale –

contro

S.B.;

– intimato –

nonchè nei confronti di:

MINISTERO DELLA DIFESA, + ALTRI OMESSI;

– intimati –

Nonchè da:

MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentato e difeso

per legge;

– ricorso successivo –

contro

P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA B. TORTOLINI

34, presso lo studio dell’avvocato NICOLO’ PAOLETTI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GINEVRA PAOLETTI;

mo.fr., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO 15,

presso lo studio dell’avvocato DARIO PICCIONI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato RINO BATTOCLETTI;

– controricorrenti –

e contro

R.N., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 824/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/04/2019 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e incidentali;

udito l’Avvocato dello Stato FEDELI ANDREA;

udito l’Avvocato PICCIONI DARIO per delega orale per P.;

udito l’Avvocato PICCIONI DARIO per delega per R.;

udito l’Avvocato PICCIONI DARIO per mo.;

udito l’Avvocato CONTE FRANCESCA GRAZIA per B..

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il (OMISSIS), alle ore 10,40 in località (OMISSIS), un’autocisterna imbottita di esplosivo, con due uomini a bordo, proveniente dal ponte denominato (OMISSIS) sul fiume (OMISSIS), si avvicinò alla base (OMISSIS) – sede di un contingente militare italiano nell’ambito della missione “(OMISSIS)” allocata nell’edificio denominato “(OMISSIS)”, sito all’interno dell’abitato della predetta località (OMISSIS).

Il conducente dell’anzidetto automezzo, giunto all’altezza del varco esistente tra la fila semicircolare degli (OMISSIS), svoltò repentinamente alla sua sinistra e il passeggero dell’autocisterna aprì il fuoco contro la postazione di guardia che rispose al fuoco; l’autobotte degli attentatori, quindi, proseguì la marcia e, dopo aver divelto la sbarra d’ingresso, andò ad impattare contro la linea di (OMISSIS), sita al limite del parcheggio interno.

Si ebbe, quindi, a verificare una devastante esplosione, che cagionò la morte di numerose vite umane e, in particolare, di 12 carabinieri, 5 militari dell’esercito, 2 civili italiani, 8 cittadini irakeni, oltre ad un numero non precisato di feriti ed ingenti perdite materiali.

2. – A seguito di tale gravissimo fatto vennero tratti a giudizio penale, dinanzi al Tribunale militare di Roma, per il reato di distruzione colposa o sabotaggio di opere militari (di cui all’art. 40 cpv. c.p., art. 47 c.p.m.p., nn. 2, 3 e 5 e art. 167 c.p.m.p., comma 1 e u.c.), i generali dell’Esercito L.V. e S.B. (comandanti dell'(OMISSIS), rispettivamente: il primo dal 20 giugno al 7 ottobre 2003 e il secondo dall’8 ottobre 2003), nonchè il colonnello dei Carabinieri D.P.G. (comandante del reggimento (OMISSIS) – dell’Arma dei Carabinieri e della base “(OMISSIS)”).

I primi due optarono per il rito abbreviato, mentre per il D.P. si procedette separatamente con rito ordinario.

3. – All’esito del giudizio abbreviato, al quale non partecipò il Ministero della difesa, il G.U.P. del Tribunale militare di Roma assolse il L., mentre condannò lo S. alla pena di anni due di reclusione, ritenendolo responsabile del reato ascrittogli.

3.1. – Il gravame proposto avverso tale decisione dalla pubblica accusa, dai difensori delle parti civili e dal difensore dello S. veniva deciso con sentenza della Corte di appello militare di Roma n. 52 del 2009, con cui entrambi gli imputati erano assolti dal reato contestatogli “perchè il fatto non costituisce reato”, avendo agito “nell’adempimento del dovere imposto dalla legge e dagli ordini superiori”, ai sensi dell’art. 51 c.p.

4. – A seguito di ricorso per cassazione proposto dalle parti civili costituite, questa Corte, sezione prima penale, con la sentenza n. 20123 del 2011, annullava la decisione di appello “nei confronti di S.B. ai soli effetti civili”, rinviando per un nuovo giudizio dinanzi alla Corte di appello di Roma in sede civile.

4.1. – Con la citata sentenza penale n. 20123 del 2011, questa Corte escludeva che potesse “trovare spazio la scriminante dell’adempimento del dovere prevista dall’art. 51 c.p.”, con conseguente annullamento della sentenza impugnata “ai soli effetti civili con rinvio alla Corte di appello di Roma che nel nuovo giudizio terrà conto dei rilievi suesposti ai fini dell’accertamento della condotta colposa ascritta allo S.”.

5. – A seguito della riassunzione del giudizio ad opera delle parti civili, la Corte di appello di Roma, con sentenza resa pubblica l’8 febbraio 2017 (n. 824), così provvedeva: “conferma le statuizioni civili contenute nella sentenza del Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Roma 75/2009, fatta eccezione per F.P.G., + ALTRI OMESSI.

5.1. – La Corte territoriale ribadiva “quanto già evidenziato nelle precedenti sentenze e rimarcato dalla Corte di Cassazione” (al cui dictum era “vincolata”), al fine di “riaffermare la sussistenza dell’elemento psicologico del reato e del nesso di causalità con l’evento in capo al generale S.”, altresì dando rilievo al fatto che quest’ultimo “era al comando della (OMISSIS), quindi ad un livello gerarchico, decisionale e di informazione superiore e diverso rispetto al colonnello D.P., al comando della MSU”.

5.2. – In particolare, trascrivendo ampi stralci della sentenza rescindente n. 20123 del 2011 di questa Corte, il giudice di appello civile evidenziava (tra l’altro): 1) la “concretezza della condotta incriminata”, la quale, “senza repliche”, rivelava atteggiamenti colposi di imprudenza e negligenza, concernenti: a) la “valutazione dei livelli di rischio, ecc.”; b) la “necessità di innalzare le misure di protezione passiva, ecc.” e la “necessità di una revisione”; 2) l’esistenza “di elementi di colpa in capo al generale S.”, in ragione della sua “posizione di garanzia”, ossia: a) “sussistenza di effettivo e crescente pericolo specifico, come imminente, almeno dall’ottobre 2003” (“messaggi del Sismi del 23 ottobre (preciso per i tempi: un attacco ad un obbiettivo al massimo entro due settimane) e del 25 ottobre (preciso fin nei colori del mezzo: un camion di fabbricazione russa con cabina più scura del resto)”, nonchè “”punto di situazione” del 5 Novembre (noto al comandante S.), secondo cui un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e Yemenita si sarebbe trasferito a (OMISSIS)”); b) “conoscenza di tale pericolo, nei termini” e “sottovalutazione… di un allarme così puntuale e prossimo”; c) “complessiva insufficienza delle misure di sicurezza passive poste in essere” (“mancanza di un’area di rispetto, inesistenza di una serpentina, (OMISSIS) troppo bassi e riempiti di ghiaia anzichè di sabbia, così essendo chiaramente insufficienti e passibili di trasformarsi in proiettili (come per le munizioni della riservetta) anzichè avere effetto protettivo”); 3) la “sussistenza di un effettivo nesso di causalità”; 4) il non potersi predicare una colposa inattività dello S. “solo per ordine superiore, per attuare le direttive di una presenza soprattutto umanitaria”, giacchè egli, nell’interrogatorio del 13 aprile 20007, “riferiva di aver emanato in data 22 ottobre 2003 la direttiva FRAGO 109/031 con la quale “si disponeva il progressivo trasferimento di alcune basi del nostro contingente verso aree più sicure””; 5) la insostenibilità dell’alternativa, nella prospettiva della “riduzione del rischio”, tra il “trasferimento in blocco dell’intera base (o delle due basi)” o l’installazione di “provviste invadenti”, da un lato, e la “predisposizione, in prospettiva temporanea, di mezzi più efficaci di protezione passiva, secondo semplici prudenze, quali (OMISSIS) più alti e riempiti a regola d’arte (con sabbia), area di protezione, serpentina; ma anche temporanei posti di blocco, od anche la chiusura del ponte e della via”, dall’altro.

5.3. – La Corte territoriale, quindi, ritenuta “(a)ccertata la responsabilità dello S. in relazione al reato contestatogli”, reputava “fondata la domanda risarcitoria proposta dalle parti civili”, assumendo che la responsabilità civile da reato si estendeva ad “ogni danno eziologicamente riferibile” alla condotta del soggetto attivo del reato, là dove, nella fattispecie, era “manifesta la stretta dipendenza tra il reato commesso e la morte e le lesioni riportate dalle vittime”.

5.4. – Il giudice di appello civile confermava, pertanto, “la statuizione di condanna di S.B. al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio contenuta nella sentenza del Giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale Militare di Roma 75/2009” (fatta eccezione che per le parti innanzi indicate), altresì escludendo che ricorressero i presupposti per la provvisionale di cui le parti civili lamentavano il “mancato riconoscimento”, avendo esse ricevuto altri importi a vario titolo, la cui cumulabilità con il risarcimento sarebbe stata oggetto di valutazione nell’autonomo giudizio sul quantum debeatur.

6. – Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto separati ricorsi S.B. e il Ministero della difesa: il primo affidandosi a cinque motivi e il secondo a quattro motivi.

Resistono con distinti controricorsi avverso entrambi detti ricorsi P.A., mo.fr., nonchè – congiuntamente – B.S., + ALTRI OMESSI.

R.N. resiste con controricorso avverso il solo ricorso dello S..

mo.fr. ha anche proposto ricorso incidentale affidato a tre motivi.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede F.P.G., + ALTRI OMESSI.

All’udienza del 28 novembre 2018, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo, segnatamente, per approfondimenti sulla questione relativa alla portata applicativa dell’art. 622 c.p.p.

E’ stata, quindi, fissata per la discussione l’udienza odierna, in prossimità della quale il difensore di B.S. ed altri ventisei ricorrenti ha depositato memoria e ulteriore istanza di liquidazione di onorario L. n. 206 del 2004, ex art. 10 che, in corso del presente giudizio, era stata presentata anche dal difensore di mo.fr. e di R.N..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, il ricorso del Ministero della difesa, in quanto successivo a quello dello S., è da qualificarsi come ricorso incidentale.

2. – Sempre in via preliminare, va escluso che debba provvedersi alla notificazione del ricorso principale dello S. e di quelli incidentali del Ministero della difesa e del mo. nei confronti di F.P.G., + ALTRI OMESSI, che, sebbene parti del giudizio di appello, non risultano esser stati intimati in questa sede.

Le domande risarcitorie proposte dai predetti soggetti – e dichiarate inammissibile con la sentenza gravata in questa sede hanno dato luogo a cause scindibili e le impugnazioni non veicolano alcuna censura che le investa.

Pertanto, essendo ormai decorso (dalla pubblicazione della sentenza della Corte di appello di Roma in data 8 febbraio 2017) il termine stabilito dall’art. 327 c.p.c. per l’impugnazione tardiva da parte degli anzidetti soggetti, non va ordinata l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 332 c.p.c. (tra le altre, Cass., 15 maggio 2018, n. 11835).

3. – Ancora in via preliminare, è inammissibile l’istanza dei controricorrenti B.S. ed altri ventisei, nonchè della controricorrente R.N., proposta in sede di conclusioni dei rispettivi atti difensivi (a p. 120 del controricorso B. ed altri; a p. 22 del controricorso R.), con cui si chiede, meramente, l’annullamento della sentenza della Corte di appello di Roma n. 824/2017 per il mancato riconoscimento di una provvisionale provvisoriamente esecutiva (controricorso B. ed altri) o per aver omesso di provvedere al riguardo (controricorso R.), non avendo i controricorrenti istanti proposto, sul punto, ricorso incidentale affidato a specifici motivi di censura.

4. – Infine, sempre preliminarmente, il Collegio ritiene di evidenziare sin d’ora quali sono le coordinate giuridiche di sistema entro cui trova svolgimento il presente giudizio civile di legittimità, siccome fase di impugnazione relativa ad un giudizio di rinvio disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p., dinanzi al giudice civile di appello, a seguito di cassazione penale circoscritta alle statuizioni civili di sentenza di assoluzione (perchè il fatto non costituisce reato) resa dal giudice penale.

Il principio, di fondo, che si erge a guida dello scrutinio, è il seguente: “il giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. è solo formalmente una mera prosecuzione del processo penale e si configura, invece, come sostanziale transiatio iudicii dinanzi al giudice civile, per cui, seppur tecnicamente regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., non è affatto ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Pertanto, la Corte di appello civile, competente per valore, alla quale è stato rimesso il procedimento al soli effetti civili, è tenuta a seguire le regole, processuali e sostanziali, proprie del giudizio civile, vertendo il giudizio di rinvio su azione civile che si svolge in autonomia rispetto alla fase penale che, rimasta ormai priva di qualsivoglia interesse, si è definitivamente esaurita a seguito della pronuncia emessa dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 622 c.p.p.”.

Tale principio, seppure non espresso negli stessi anzidetti termini, è nella sostanza sorretto e giustificato dalle ampie e diffuse argomentazioni della sentenza n. 15859 del 12 giugno 2019 di questa stessa Terza Sezione civile, alle quali è dato integralmente rinviare in quanto la decisione è stata deliberata nella stessa camera di consiglio (del 18 aprile 2019) nella quale è stata discussa e decisa la presente causa, in forza di ragioni – sulla specifica questione in esame – del tutto condivise da questo Collegio (nella stessa composizione, salvo che per il relatore, di quello della citata sentenza n. 15859/2019).

Di qui, i seguenti corollari (taluni specificamente rilevanti nella controversia in esame), che investono sia il piano processuale, che quello sostanziale, dell’azione civile rimessa al giudice civile a seguito di rinvio ex art. 622 c.p.p.

In particolare (come puntualmente evidenziato in motivazione dalla predetta Cass. n. 15859/2019):

“a) il diritto al risarcimento del danno è un diritto eterodeterminato, sicchè l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del relativo petitum e della relativa causa petendi, così come rappresentata dal danneggiato in sede di costituzione di parte civile;

b) i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno prescindono dall’identificazione del fatto come reato: è pertanto legittima, in sede di giudizio dinanzi alla Corte d’appello civile, una eventuale, diversa valutazione degli stessi;

c) all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale, è diverso l’ambito entro il quale l’attività difensiva delle parti viene a svolgersi, dovendo le relative questioni essere trattate in base alla prospettazione del fatto sotto il profilo (non del reato, ma) dell’illecito civile ex art. 2043 c.c.: all’esito del rinvio al giudice civile, il fatto perde la sua originaria connessione con il reato per riacquistare i caratteri dell’illecito civile, seguendo i canoni probatori propri di quel processo, essendo ormai venuta meno, con l’esaurimento della fase penale del giudizio, la ragione stessa di attrazione dell’illecito nell’ambito delle regole della responsabilità penale;

d) conseguentemente, il giudice civile in sede di rinvio dovrà applicare, in tema di nesso causale, il canone probatorio del “più probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale;

e) rispetto alla fattispecie di reato a condotta vincolata, nel giudizio civile possono essere fatte valere tanto modalità di condotta diverse da quelle tipizzate dalla norma penale, quanto diversi titoli di responsabilità, che viceversa rilevino ai sensi degli artt. 2047 c.c. e ss..

f) deve ritenersi legittima una diversa valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito ove nel processo penale si sia proceduto per un reato doloso per il quale la legge penale non preveda una speculare punibilità a titolo di colpa, mentre la valutazione dell’elemento soggettivo colposo (ove, nel giudizio penale, si sia proceduto a tale titolo) deve a sua volta ritenersi autonoma rispetto alla nozione di colpa penale: pur nella consonante dimensione “oggettivata” della fattispecie e nella sostanziale identità dei relativi aspetti morfologici (come desunti dalla regola generale di cui all’art. 43 c.p.), ne mutano poi quelli funzionali, alla luce del combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., commi 1 e 2 e art. 1218 c.c., con accentuazione dei modelli standard di comportamento;

g) deve ritenersi legittima una eventuale, diversa qualificazione officiosa del titolo di responsabilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare, salvo l’obbligo di indicare alle parti le eventuali questioni rilevate ex officio, con le conseguenze di cui all’art. 101 c.p.c., comma 2;

h) l’esistenza di una causa di giustificazione e/o di non punibilità prevista dalla legge penale e riconosciuta in quel giudizio non ne preclude un’autonoma valutazione in sede civilistica, come confermato dalla recente riforma della responsabilità sanitaria (L. n. 24 del 2017, art. 7), nonchè (addirittura testualmente, sul piano sanzionatorio) dalla ancor più recente riforma della legittima difesa”.

5. – Il ricorso principale di S.B..

5.1. – Non è fondata, anzitutto, la preliminare eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dai controricorrenti P., R. e mo. ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per asserita violazione del “Protocollo d’intesa tra la Corte di cassazione e il CNF in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria” del 17 dicembre 2015, in ragione della dedotta assoluta carenza di sinteticità e chiarezza dell’atto di impugnazione, che si svolge per “108 pagine totali”, con “assemblaggi e trascrizioni di atti e provvedimenti dei precedenti gradi del giudizio”.

L’agevole individuabilità ed isolabilità degli atti e documenti riprodotti in ricorso, concentrati dalla p. 15 alla p. 105, riconduce il ricorso stesso al canone della sinteticità e chiarezza espositiva (cui si ispira l’evocato “Protocollo d’intesa”), sia in riferimento al requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa (art. 366 c.p.c., n. 3), che relativamente ai motivi di censura (stesso art. 366 c.p.c., n. 4), non essendo quindi apprezzabile la violazione delle anzidette disposizioni processuali (in tale prospettiva, cfr. Cass., 18 settembre 2015, n. 18363 e Cass., 4 aprile 2018, n. 8245), volte a presidiare, essenzialmente, l’intelligibilità delle questioni che vengono veicolate in sede di legittimità con l’atto di impugnazione.

5.2. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, art. 622 c.p.c. e art. 6, par. 2 CEDU.

La Corte territoriale avrebbe violato le norme indicate in rubrica in quanto – nonostante che la sentenza della Corte di cassazione penale n. 20123/2011 avesse annullato soltanto agli effetti civili la sentenza della Corte militare di appello di Roma n. 52/2009, la quale era passata in giudicato quanto all’assoluzione dello S. dal reato ascrittogli (distruzione pluriaggravata colposa di opere militari, di cui all’art. 40 cpv. c.p., art. 47 c.p.m.p., nn. 2, 3 e 5 e art. 167 c.p.m.p., comma 1) “perchè il fatto non costituisce reato”, rinviando, quindi, al giudice civile competente “ai fini dell’accertamento della condotta colposa” dell’imputato e non solo per la determinazione del quantum debeatur – non si sarebbe “uniformata a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in punto di accertamento della responsabilità del Gen. S.”, ma si sarebbe “limitata ad un testuale copia-incolla delle motivazioni” di tale decisione.

Sicchè, il giudice del rinvio avrebbe omesso qualsivoglia “autonomo accertamento”, nella “piena cognizione dei fatti e… di tutte le prove”, di responsabilità dello stesso S. circa il reato ascrittogli, “per quanto ai soli fini civili”, ritenendo che tale responsabilità “discendesse automaticamente dall’annullamento della Cassazione” e, altresì, adottando in dispositivo una formula – quella di conferma delle statuizioni civili della sentenza resa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma – “non… conforme al giudizio di rinvio”, essendo stata la sentenza del G.U.P. riformata integralmente dalla Corte di appello militare.

5.3. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti.

La Corte capitolina, nonostante dovesse accertare autonomamente la responsabilità dello S. per il danno derivato (“non da generico fatto illecito”, ma) dal reato contestatogli (e dal quale era stato assolto), con onere di prova a carico degli attori quanto ai profili relativi “alla costruzione dell’agente modello, alla prevedibilità e, soprattutto, all’evitabilità dell’evento”, ha erroneamente “ribaltato l’onere probatorio in capo” al convenuto, operando solo “un letterale copia-incolla della decisione” del Cassazione rescindente e ritenendo che da questa discendesse “l’automatico accertamento di responsabilità”.

Inoltre, il giudice di appello avrebbe mancato di considerare “una serie di elementi utili ai fini dell’accertamento di assenza di responsabilità civile in capo allo S. per il reato contestatogli”, allegati e argomentati negli atti di costituzione in giudizio e nelle memorie conclusionali, e segnatamente: 1) la “consulenza tecnica V. al fine di dimostrare il quantitativo di esplosivo utilizzato dagli attentatori”; 2) la prova, “attraverso la trascrizione delle testimonianze rese nel corso del processo D.P.”, della “imprevedibilità dell’evento così come verificatosi”; 3) la prova sulla non prevenibilità dell’evento, in ragione del fatto che, “stante l’enorme quantitativo di esplosivo utilizzato”, “l’unica misura idonea a proteggere la base sarebbe stata la creazione di un’aerea di rispetto particolarmente estesa”, ma in concreto non attuabile essendo la base collocata nel tessuto urbano di (OMISSIS).

In definitiva, la Corte di appello sarebbe “incorsa in un’evidente omessa motivazione non ritenendo di spendere alcuna parola in ordine alle difese del Gen. S. e dell’Amministrazione della Difesa, che, laddove esaminate, avrebbero condotto… ad una decisione di segno diametralmente opposto”, per essere l’evento imprevedibile e, comunque, non evitabile.

5.4. – Il primo e il secondo motivo, da scrutinarsi congiuntamente in quanto connessi, sono in parte infondati e in parte inammissibili.

5.4.1. – Come già messo in rilievo (p. 4., che precede), non può configurarsi, nel giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., alcun vincolo paragonabile a quello di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2, dovendo, invece, il giudice civile, al quale è stata per competenza rimessa la decisione della causa a seguito di cassazione penale dei soli effetti civili della sentenza resa dal giudice penale, procedere autonomamente alla valutazione e all’accertamento dei fatti in base alle regole, processuali e sostanziali, proprie del giudizio civile.

Pertanto, dovendosi escludere, proprio in applicazione del combinato disposto dell’art. 622 c.p.p. e art. 384 c.p.c., comma 2, un vincolo per il giudice del rinvio derivante dalla sentenza rescindente emessa dalla Cassazione penale e, per ciò stesso, una violazione delle citate norme processuali per non essersi il giudice civile di rinvio uniformato alla decisione rescindente, le doglianze di parte ricorrente risultano infondate sotto tale denunciato specifico profilo.

5.4.2. – Rimane da esaminare l’ulteriore e centrale profilo di censura che investe – in base a diverse prospettazione (coinvolgenti anche le denunce di violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 6, par. 2 CEDU) – la dedotta assenza di un autonomo accertamento, da parte della Corte di appello civile, sulla responsabilità civile dello S., adducendosi, in sostanza, che la decisione sarebbe frutto di un mero e acritico recepimento della sentenza rescindente (un “copia-incolla” di quest’ultima) e non già di una valutazione propria del giudice di rinvio.

Anche sotto tale profilo le doglianze non colgono nel segno.

E’ pur vero che la Corte di appello ha affermato di sentirsi “vincolata” dal dictum della Cassazione penale rescindente, ma una siffatta affermazione non elide l’autonomo accertamento di responsabilità civile che pur è dato cogliere nella sentenza impugnata in questa sede e che, come tale, si astrae da quel supposto vincolo ed è idoneo a sorreggere la statuizione di condanna dello S..

Il giudice di appello civile ha inteso, infatti, “riaffermare” la sussistenza degli elementi strutturali (nesso di causalità e colpa) del fatto illecito nella specie rilevante; quest’ultimo, peraltro, assunto non solo nella sua mera dimensione penalistica, ma anche in funzione delle ulteriori conseguenze derivate dal reato di distruzione di opere militari, ossia la morte e le lesioni patite dalle vittime dell’attentato, facendo “proprio quanto già enucleato al riguardo dalla Corte di cassazione”.

Di qui, peraltro, la stessa pronuncia di condanna (generica) al risarcimento del danno, che, sebbene declinata come conferma di quella pronunciata dal G.U.P. del Tribunale militare di Roma (la cui sentenza è stata riformata integralmente in sede di gravame e, quindi, non può essere più reputata riviviscente), si viene, tuttavia, a correlare, in modo affatto congruente, con la ritenuta e dichiarata fondatezza della pretesa risarcitoria delle parti attrici in riassunzione e, in quanto tale, è da apprezzare come statuizione assunta autonomamente nel giudizio civile.

Dunque, in tale precipua prospettiva trovano particolare risalto – quali elementi significativi di una reale valutazione in “proprio”, non meramente sovrapposta a quella del giudice rescindente – non solo la valenza ascritta alle “precedenti sentenze” dei gradi di merito, ma, soprattutto, l’addebito “di una generica confutazione da parte dello S.” dei rilievi della Cassazione penale, da un lato, e, con ancor maggior pregnanza, la circostanza per cui il medesimo S. “era al comando della (OMISSIS), quindi ad un livello gerarchico decisionale e di informazione superiore e diverso rispetto al colonnello D.P., al comando della MSU”.

Nel primo caso, assume consistenza – seppur in forma sintetica – il raffronto tra il corredo probatorio posto a fondamento della decisione e le difese svolte dalla parte nei cui confronti era svolta la domanda risarcitoria; nel secondo caso, trova diretta emersione un’essenziale e concludente ragione decisoria, che non è meramente ripresa dai trascritti (ma comunque fatti “propri”) contenuti della sentenza rescindente.

Sicchè, l’affermazione di responsabilità civile dello S. risulta frutto di un autonomo accertamento dei fatti da parte della Corte territoriale in quanto la fonte del relativo convincimento si radica in una propria valutazione delle prove raccolte del precedente processo penale e ricavate direttamente (nei termini sintetizzati al p. 5.2. dei “Fatti di causa”, cui integralmente si rinvia) dalla sentenza rescindente della Cassazione penale n. 20123/2011, ben potendo il relativo iter argomentativo guidare anche da solo il razionale convincimento del giudice del merito (Cass., 5 agosto 2005, n. 16559; Cass., S.U., 27 maggio 2009, n. 12243; Cass., 29 ottobre 2010, n. 22200; Cass., 24 settembre 2015, n. 18899).

Sentenza, quella rescindente anzidetta, che, dunque, in tale ottica – e, ancor prima, in quella, già evidenziata, per cui essa non crea alcun vincolo al giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p., restando autonomo il relativo giudizio civile -, riveste idonea prova atipica, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito e pienamente utilizzabile, giacchè, al di fuori dei casi di prova legale, non esiste nel nostro ordinamento una gerarchia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori (tra le molte, Cass., 17 giugno 2013, n. 15112; Cass., 20 gennaio 2017, n. 1593).

Ne consegue, quindi, l’infondatezza delle censure veicolate come errores iuris.

5.4.2.1. – Peraltro, occorre comunque puntualizzare, con specifico riferimento alla doglianza di violazione dell’art. 2697 c.c., che essa non coglie il verso secondo cui è possibile ravvisare un vulnus alla regola di riparto dell’onere della prova, ossia allorquando il giudice attribuisce tale onere a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni (cfr., in motivazione, Cass., S.U., 5 agosto 2016, n. 16598).

Nella specie, l’accertamento della responsabilità aquiliana dello S. è avvenuto in forza – come detto – del convincimento formatosi dal giudice del merito sul corredo probatorio tratto dal contenuto della sentenza penale rescindente, senza alcuna inversione dell’onere di prova dai danneggiati attori al danneggiante convenuto, ma facendo semmai applicazione del principio di acquisizione probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo e che impone al giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito, da qualunque parte processuale provenga (tra le altre, Cass., 25 settembre 2013, n. 21909).

5.4.3. – E’, infine, inammissibile la censura veicolata in forza della disposizione di cui al vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis al presente giudizio di legittimità.

Il vizio denunciabile in base all’anzidetta norma processuale è relativo all’omesso esame di un fatto, storico-naturalistico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053).

Dunque, a meno che non rilevi un’ipotesi di anomalia motivazionale (quale, ad es., la mancanza grafica di motivazione, la motivazione apparente o quella intrinsecamente e insanabilmente contraddittoria) che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (avendo detta norma processuale ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione) – anomalia che, tuttavia, non è stata denunciata dal ricorrente, nè, comunque, è ravvisabile in base allo sviluppo argomentativo della sentenza impugnata, affatto intelligibile – non è più denunciabile, in base al citato art. 360, n. 5 tra l’altro, l’omessa” o “insufficiente” motivazione, nè, nel paradigma legale, è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 14 giugno 2017, n. 14802), come, del resto, non lo era neppure nella vigenza della precedente formulazione dell’anzidetta norma, essendo il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione pur sempre riferito ad un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152).

La doglianza di parte ricorrente si risolve, dunque, in una critica confezionata, in parte, secondo il paradigma del vizio motivazionale (per “omessa motivazione”) non più denunciabile in sede legittimità e, in parte, secondo una prospettazione (quella della carente valutazione delle argomentazioni difensive) neppure veicolabile secondo il regime del previgente art. 360 c.p.c., n. 5.

Del resto, anche se, in tesi, la si potesse intendere come volta a denunciare effettivamente un “omesso esame” alla stregua del vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura manca anzitutto di isolare – in base alle stringenti coordinate di principio innanzi rammentate – i fatti storici decisivi per il giudizio, non potendo tale onere essere assolto con la mera trascrizione degli atti reputati rilevanti (che, peraltro, si sviluppa per circa 90 pagine).

E, comunque, anche là dove genericamente si compendiano le critiche (p. 14 del ricorso, riportate al p. 5.3., che precede), queste attengono piuttosto ad un omesso esame di risultanze istruttorie (consulenza tecnica e deposizioni testimoniali), con l’accenno, del tutto aspecifico, a fatti (dedotti come attinenti all’imprevedibilità e all’inevitabilità dell’evento in concreto verificatosi) comunque esaminati e/o non decisivi, giacchè la asserita correlazione tra l’enorme quantità di esplosivo e l’impossibilità di attuare, come unica misura idonea, la “creazione di un’aerea di rispetto particolarmente estesa”, trova smentita nella sentenza impugnata che (cfr. p. 7) ha individuato, tra i “mezzi più efficaci di protezione passiva”, anche “la chiusura del ponte e della via” di accesso alla base (OMISSIS).

5.5. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del T.U. n. 3 del 1957, artt. 22 e 23 e dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 622 c.p.p.

La Corte territoriale non avrebbe compiuto, in violazione del T.U. n. 3 del 1957, artt. 22 e 23 alcun accertamento sul grado di colpa del Gen. S., nel senso della gravità di tale elemento psicologico, come imposto dalle menzionate disposizioni nei confronti dei pubblici dipendenti, mancando di adempiere al mandato rimessole dalla sentenza rescindente in ordine al pieno accertamento della responsabilità del medesimo S..

5.5.1. – Il motivo è ammissibile, ma infondato.

5.5.1.1. – Vanno, infatti, respinte le preliminari eccezioni – sollevate dai controricorrenti R., mo. e P. di inammissibilità della censura per essere la questione stata dedotta solo in sede di legittimità e, comunque, per essere il profilo della colpa accertabile, nel giudizio di merito, in base alle regole del diritto penale.

Come in precedenza evidenziato (p. 4, che precede segnatamente lettere c) ed f)), il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. segue le regole, anche sostanziali, del giudizio civile e ciò riguarda, quindi, l’accertamento stesso della colpa quale requisito strutturale (necessario e sufficiente) dell’illecito civile aquiliano, ai sensi dell’art. 2043 c.c., con conseguente onere di allegazione e prova in capo al danneggiato dei fatti che, di tale elemento soggettivo, ne sostanziano la portata.

Nella specie, trattandosi di responsabilità civile di un dipendente dello Stato per violazione dei diritti dei terzi, a norma dell’art. 28 Cost., l’accertamento sull’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano, in funzione della pretesa risarcitoria per morte e lesioni patite dalle vittime dell’attentato (ciò integrando il “danno ingiusto” dell’art. 2043 c.c.), era da compiersi in ragione della sussistenza della colpa grave, così come previsto (unitamente all’elemento soggettivo del dolo) dal combinato disposto del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 22 e 23 (la cui vigenza è stata ribadita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55), applicabile anche al personale militare (Cass., 13 novembre 2002, n. 15930), come confermato, del resto, dall’art. 532 codice dell’ordinamento militare (D.Lgs. n. 66 del 2010 e successive modificazioni), secondo cui (per quanto rileva in questa sede) “Resta ferma, per il personale militare, la disciplina vigente per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche in materia di responsabilità civile”.

Sicchè, la questione in esame non può affatto reputarsi nuova, ma, anzi, necessariamente da trattarsi nel giudizio di rinvio.

5.5.1.2. – La Corte territoriale, alla stregua dell’accertamento compiuto nei termini sopra illustrati, ha individuato la regola cautelare cui l’agente modello”, in forza della sua posizione specifica (homo eiusdem condicionis ac professionis: art. 1176 c.c., comma 2), era tenuto a conformare il proprio comportamento e, quindi, ha reputato sussistente la condotta colposa dello S., evidenziando in particolare (cfr. sintesi al p. 5.2. dei “Fatti di causa”) i profili di negligenza ed imprudenza ad esso ascrivibili, in particolar modo in riferimento alla “valutazione dei livelli di rischio” (per la “sussistenza di effettivo e crescente pericolo specifico, come imminente, almeno dall’ottobre 2003”, conosciuto “nei termini”) e alla “necessità di innalzare le misure di protezione passiva” della base (OMISSIS) (“mancanza di un’area di rispetto, inesistenza di una serpentina, (OMISSIS) troppo bassi e riempiti di ghiaia anzichè di sabbia” o, in ogni caso, non aver provveduto a “temporanei posti di blocco” o alla “chiusura del ponte e della via”), affermando, altresì, che non era predicabile una colposa inattività dello S. “solo per ordine superiore, per attuare le direttive di una presenza soprattutto umanitaria”, avendo egli stesso “emanato in data 22 ottobre 2003 la direttiva FRAGO 109/031 con la quale “si disponeva il progressivo trasferimento di alcune basi del nostro contingente verso aree più sicure””.

Tale accertamento priva di consistenza le doglianze di parte ricorrente, essendo la decisione impugnata conforme al principio di diritto – enunciato da Cass., 25 febbraio 2009, n. 4587, che il Collegio condivide e al quale intende dare continuità – secondo cui la responsabilità civile personale dei funzionari e dipendenti dello Stato, nonchè degli enti pubblici, ai sensi del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23 (ossia che abbiano agito con dolo o colpa grave) non postula che l’ordinamento tolleri un comportamento lassista di costoro o li esponga alla responsabilità nei confronti dei terzi danneggiati solo in presenza di macroscopiche inosservanze dei doveri di ufficio o di abuso delle funzioni per il perseguimento di fini personali, giacchè si ha colpa grave anche quando l’agente non faccia uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito.

5.6. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 110, comma 3 e del R.D. n. 1611 del 1933, art. 44.

La Corte territoriale avrebbe errato a condannare esso S. alla rifusione delle spese in favore delle parti civili ammesse a patrocinio a spese dello Stato, giacchè, essendo difeso dall’Avvocatura erariale ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 44 era da reputarsi anch’egli ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con la conseguenza che, proprio in base al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 110, comma 3, non poteva essere pronunciata condanna in favore dello Stato, potendo al più quest’ultimo rivalersi sul dipendente responsabile in costanza degli effettivi presupposti della responsabilità civile, nella specie insussistenti.

5.6.1. – Il motivo è infondato.

Il “beneficio” del patrocinio a spese dello Stato, di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, riguarda “la difesa del cittadino non abbiente” (art. 74), la cui ammissione è soggetta alla determinate condizioni di reddito (art. 76), ovvero, a prescindere da tali condizioni, è disposto – come nel caso della L. n. 206 del 2004, art. 10 in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice – dalla previsione di legge speciale come “a totale carico dello Stato”, con autorizzazione della relativa spesa sul bilancio statale.

Dunque, è a tale “beneficio” che si riferisce il citato D.P.R. n. 115 del 2002, art. 110, comma 3 nello stabilire che “Con la sentenza che accoglie la domanda di restituzione o di risarcimento del danno il magistrato, se condanna l’imputato non ammesso al beneficio al pagamento delle spese in favore della parte civile ammessa al beneficio, ne dispone il pagamento in favore dello Stato”.

Disposizione, questa, che riproduce nel processo penale, in cui sia costituita una parte civile, la regola generale, applicabile in tutti i processi civili, dettata dal medesimo D.P.R. n. 115 del 2002, art. 133 a tenore della quale “Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato”.

Dunque, è la parte soccombente che – ove non sia già stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato – deve essere chiamata a rifondere direttamente l’Erario delle spese processuali, che normalmente vengono liquidate al difensore della parte vittoriosa ammessa al beneficio; e ciò accade, com’è evidente, sia che si tratti di un giudizio civile che di un processo penale, in cui si discuta di questioni civili a seguito dell’intervenuta costituzione della parte civile.

Pertanto, come emerge chiaramente dal tenore delle anzidette norme, solo l’ammissione della parte soccombente al beneficio del patrocinio a carico dell’Erario (sia nel processo civile che in quello penale), osta alla condanna della medesima parte al pagamento delle spese processuali in favore dello Stato.

Non affatto omologabile a siffatto regime è, quindi, la fattispecie invocata dal ricorrente e regolata dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 44 in forza del quale l’Avvocatura dello Stato può assumere la difesa degli impiegati e agenti della P.A. “nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio”, trattandosi di uno speciale patrocinio che, per un verso, prescinde del tutto dalle condizioni (reddituali o personali) della persona che ne beneficia (che potrebbe, in ipotesi, essere ben capiente e non rientrante tra le categorie ammesse dalla legge speciale) e, per altro verso, resta agganciato ad una valutazione meramente discrezionale da parte dell’avvocatura medesima (“qualora (…) l’avvocato generale dello Stato ne riconosca l’opportunità”), che all’evidenza difetta allorquando viene in rilievo il beneficio regolato dal T.U. sulle spese di giustizia, anche là dove è la legge speciale, per ragioni di solidarietà sociale di portata nazionale, a disporlo a “totale carico dello Stato”.

5.7. – Con il quinto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., “nel testo vigente ratione temporis”, per aver la Corte di appello errato nel non compensare le spese di lite in presenza, nella specie, di “gravi ed eccezionali ragioni”, stante gli esiti diametralmente opposti dei gradi di merito e del giudizio rescindente.

5.7.1. – Il motivo è infondato.

E’ difatti principio consolidato (tra le molte, Cass., 31 marzo 2017, n. 8421; Cass., 17 ottobre 2017, n. 24502) che, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, in base ai presupposti indicati dall’art. 92 c.p.c., nella formulazione applicabile ratione temporis.

6. – Il ricorso del Ministero della difesa.

6.1. – Preliminarmente, i controricorrenti mo. e P. hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso del Ministero della difesa per difetto di interesse all’impugnazione, in assenza di soccombenza.

A sua volta, il Ministero della difesa, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, un error in procedendo per violazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 1, sostenendo che la Corte di appello avrebbe errato ad accogliere la domanda risarcitoria anche nei confronti di esso Ministero, evocato nel giudizio di appello, a seguito di riassunzione delle parti civili, nonostante che non avesse partecipato al giudizio abbreviato contro l’imputato S. in forza del disposto dell’art. 87 c.p.c., comma 3.

Il ricorrente Ministero sostiene, infatti, che, sebbene le statuizioni civili di condanna contenute nella sentenza del G.U.P. del Tribunale militare di Roma, confermate dalla Corte di appello, “abbiano riguardato e riguardino il solo Gen. S.”, l’accoglimento della domanda risarcitoria nei confronti di esso Ministero deriverebbe dalla “statuizione esonerativa delle spese, resa con riferimento al Ministero”, che “sembra supporre e presupporre la corresponsabilità civile dello stesso per il fatto dell’Ufficiale”.

6.2. – L’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale del Ministero delle difesa è fondata, con conseguente rigetto del primo motivo di detto ricorso, che assorbe l’esame anche dei restanti tre motivi (ciò esimendo il Collegio dal dare contezza del contenuto delle relative censure).

E’ jus receptum che l’interesse all’impugnazione, manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire – previsto, quanto alla proposizione della domanda ed alla relativa contraddizione alla stessa, dall’art. 100 c.p.c. – va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’accoglimento del gravame e si collega alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l’impugnazione è inammissibile (tra le molte, – Cass., 10 novembre 2008, n. 26921; Cass., 15 gennaio 2018, n. 722).

Nella specie, nessuna soccombenza del Ministero della difesa in punto di (cor)responsabilità civile è apprezzabile in base alla decisione della Corte territoriale, che, nei termini sopra evidenziati, ha ribadito la statuizione di condanna generica del solo S.B. al risarcimento dei danni in favore degli attori in riassunzione (salvo le specifiche eccezioni ivi indicate) e ciò non solo in dispositivo (p. 9 della sentenza impugnata), ma anche – e in modo affatto chiaro nella motivazione, riferendosi unicamente alla posizione del medesimo S., rispetto alla quale soltanto è calibrato l’accertamento di responsabilità civile, che, quindi, non coinvolge in alcun modo quella (indiretta, ex art. 28 Cost.) del Ministero della difesa.

Nè una siffatta responsabilità si può ravvisare come “implicita” nella “statuizione esonerativa dalle spese” pronunciata dalla Corte territoriale nei confronti del Ministero, giacchè tale statuizione si correla pianamente alla partecipazione della parte pubblica al giudizio in riassunzione e alla posizione assunta a difesa delle ragioni dello S..

7. – Il ricorso incidentale mo.fr..

7.1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza di rinvio per violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 278 c.p.c.”, nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omesso esame circa il fatto decisivo dell’intervenuta impugnazione da parte del mo. della sentenza n. 75/2009 del G.U.P. del Tribunale militare di Roma”.

La Corte di appello avrebbe omesso di pronunciare sulla domanda di condanna al pagamento della provvisionale espressamente formulata da esso mo. e, in ogni caso, avrebbe violato l’art. 278 c.p.c. che “impone la decisione sulla richiesta di provvisionale”.

Peraltro, il giudice di appello “ha giustificato il mancato riconoscimento della provvisionale” sul presupposto della mancata impugnazione delle parti civili “avverso la mera condanna generica”, mancando, però, di considerare che esso mo. aveva chiesto espressamente la riforma della sentenza di primo grado “nel punto in cui aveva rigettato la richiesta di condanna di quest’ultimo al pagamento di una provvisionale ai sensi dell’art. 539 c.p.p.”.

7.1.1. – Il motivo è inammissibile.

In primo luogo, la censura di omessa pronuncia è intrinsecamente e irresolubilmente contraddittoria rispetto alla contestuale doglianza di omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che muove dal presupposto del “mancato riconoscimento della provvisionale” e, dunque, dell’esistenza di una espressa pronuncia al riguardo.

Inoltre (e in via, comunque, assorbente), la Corte territoriale si è, per l’appunto, pronunciata sulla domanda di condanna ad una provvisionale, che ha disatteso non già per la mancata impugnazione delle parti civili sulla “mera condanna generica” (ciò che riguardava il profilo del rinvio della liquidazione del danno ad un autonomo giudizio), bensì per avere gli istanti, da un lato, “ottenuto il riconoscimento di altri importi a vario titolo” e, dall’altro, ritenendo necessario valutare nell’autonomo giudizio di liquidazione del danno “la cumulabilità di quanto già ricevuto con le ulteriori somme che potrebbero essere riconosciute a titolo di risarcimento”.

E tale complessiva e autonoma ratio decidendi non è stata fatta oggetto di alcuna censura da parte del ricorrente incidentale, con la conseguenza del passaggio in giudicato della statuizione di rigetto che essa sorregge.

7.2. – Con il secondo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 394 e 61 c.p.c.

La Corte di appello avrebbe errato a ritenere di dover rimettere la liquidazione del danno “in un autonomo giudizio, stante la natura chiusa del giudizio di rinvio”, là dove, invece, avrebbe potuto disporre una consulenza tecnica medico-legale, al fine di procedere alla quantificazione del danno.

7.3. – Con il terzo mezzo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omesso esame dei danni subiti e mancata ammissione di c.t.u. medico-legale”, per non aver la Corte territoriale ammesso la c.t.u. medico-legale, in “funzione percipiente” sulla documentazione medica in atti, senza addurre una motivazione sul rigetto dell’istanza e mancato di liquidare i danni.

7.4. – I motivi, da scrutinarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi (essendo le relative censure, seppur in base alla prospettazione di vizi diversi, nella sostanza ripetitive, in quanto volte a denunciare la mancata ammissione di una c.t.u. medico-legale ritenuta utile per la determinazione del quantum debeatur), sono infondati, sebbene occorra, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., emendare in parte la motivazione della sentenza impugnata (là dove si incentra sulla mancata impugnazione delle parti civili della “mera condanna generica” e sulla correlazione della liquidazione in autonomo giudizio alla natura chiusa del giudizio di rinvio), il cui dispositivo è comunque conforme a diritto.

La cognizione del giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p., infatti, è, in linea di principio, piena e integrale sull’azione civile, senza possibilità di scissione della decisione sull’an da quella sul quantum debeatur, in quanto si determina una completa transiatio del giudizio sulla domanda civile al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale può procedere alla liquidazione del danno anche nel caso di mancata impugnazione dell’omessa pronuncia sul quantum ad opera della parte civile (Cass., 20 giugno 2017, n. 15182).

Nella specie, tuttavia, è dirimente la circostanza, risultante dagli atti del giudizio di rinvio definito con la sentenza impugnata (atti ai quali la Corte ha accesso per la natura processuale del vizio veicolato con il secondo motivo), che in detta sede il mo. ha concluso (sia con l’originario atto di riassunzione, che con le conclusioni a verbale d’udienza del 6 luglio 2016) proprio per la condanna dello S. al risarcimento dei danni “da determinarsi in separato giudizio”, ossia chiedendo esso stesso che si svolgesse un autonomo giudizio sul quantum debeatur, formulando un’ammissibile domanda limitata fin dall’inizio all’accertamento dell’an, con conseguente pronuncia di condanna generica che definisce il giudizio (tra le altre, Cass., 15 luglio 2008, n. 19453; Cass., 26 febbraio 2014, n. 4587; Cass., 24 aprile 2014, n. 9290; ipotesi che la stessa citata Cass. n. 15182/2017 ritiene configurabile e tale da consentire, anche nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., la scissione del giudizio sull’an da quello sul quantum: cfr. p. 8 della relativa motivazione).

8. – Conclusioni.

8.1. – Vanno rigettati il ricorso principale dello S. e quello incidentale del mo., nonchè dichiarato inammissibile quello incidentale del Ministero della difesa.

Le spese del giudizio di legittimità devono essere integralmente compensate tra tutte le parti, in ragione della complessità e novità delle questioni trattate.

Le istanze per la liquidazione dei compensi a difensore di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi della L. n. 206 del 2004, art. 10 in relazione al presente giudizio di legittimità, sono, come tali, inammissibili, giacchè, secondo la disciplina di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetta, ai sensi dell’art. 83 suddetto decreto, come modificato dalla L. 24 febbraio 2005, n. 25, art. 3 al giudice di rinvio oppure (come nella specie) a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione (tra le altre, Cass., 13 maggio 2009, n. 11028, Cass., 12 novembre 2010, n. 23007, Cass., 31 maggio 2018, n. 13806).

I ricorrenti in cassazione ammessi al patrocinio a spese dello Stato non sono tenuti, in caso di rigetto dell’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, (tra le altre, Cass., 2 settembre 2014), nè tale norma è applicabile alle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (Cass., 20 gennaio 2016, n. 1778).

PQM

rigetta il ricorso principale di S.B. e quello incidentale di mo.fr.;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale del Ministero della difesa;

compensa interamente le spese del giudizio di legittimità tra tutte le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 18 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019

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