Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22242 del 05/09/2019

Cassazione civile sez. VI, 05/09/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 05/09/2019), n.22242

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andr – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7842-2018 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliata PIAZZA CAVOUR, presso la

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato DANIELE

SERAPIGLIA;

– ricorrente –

contro

C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELL’UMILTA’

49, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO ERNESTO LUTRARIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato RAFFAELE SIMONETTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6399/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 09/ 07/ 2019 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO

CAMPESE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza dell’1/2 aprile 2015, il Tribunale di Cassino, pronunciando sul ricorso del 17 settembre 2008 di C.F. nei confronti della moglie P.A., e sulla domanda riconvenzionale di quest’ultima, dopo aver già dichiarato la separazione personale degli stessi con sentenza non definitiva n. 592 del 2010, dispose che il Catallo corrispondesse alla P. la somma di Euro 500,000 mensili a titolo di contributo per il mantenimento della loro figlia fino al raggiungimento della sua autosufficienza economica, con decorrenza dal 13 marzo 2009, oltre rivalutazione Istat, ed il 50% delle spese straordinarie previamente concordate, ovvero documentate in caso di urgenza.

1.1. Il gravame della P. contro questa decisione è stato respinto dalla Corte di appello di Roma, la quale, con sentenza del 10 ottobre 2017, n. 6399, disattese le sue richieste di aumentare ad Euro 700,00 mensili il contributo per il mantenimento della figlia e di riconoscerle un assegno per il proprio mantenimento di Euro 300,00 mensili, ovvero di quel diverso importo, maggiore o minore, ritenuto congruo.

2. Avverso questa sentenza la P. ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi.

Resiste, con controricorso, il C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, rivelandosi la sentenza impugnata “del tutto superficiale, generica ed oltremodo viziata, riscontrandosi nella stessa una violazione di norme di diritto. In particolar modo, tale violazione si evince nella omessa e/ o erronea valutazione delle prove, e, nello specifico, le prove documentali offerte dalle parti, le quali evidenziano in modo chiaro la situazione patrimoniale e reddituale tra i coniugi nonchè la precaria situazione economica della P.A., che attualmente si trova in uno stato di indigente bisogno…”.

II) “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per avere la corte distrettuale omesso di valutare la situazione reddituale dell’appellante per gli anni di imposta dal 2009 al 2016 al fine di pronunciarsi in senso favorevole al riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento, in suo favore, a carico del C..

2. Il primo motivo è manifestamente inammissibile perchè gli assunti della ricorrente, peraltro affatto generici, lungi dallo spiegare in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, si risolvono, sostanzialmente, in una inammissibile critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dalla corte distrettuale, cui la prima intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione, così pretendendo di trasformare surrettiziamente il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè la più recente Cass. n. 8758 del 2017).

2.1. Le argomentazioni che lo sorreggono mostrano, peraltro, di non tenere in alcun conto quanto specificamente osservato dalla corte capitolina, secondo la quale (cfr. pag. 4-5 della decisione impugnata)

“..Anche nel presente grado di giudizio la P. ha omesso di produrre documentazione idonea a dare pieno riscontro probatorio alle circostanze dedotte a sostegno della sua tesi difensiva, atteso che non ha prodotto la dichiarazione sostitutiva di atto notorio nè ha allegato elementi di riscontro in merito alla propria condizione patrimoniale (dichiarazioni dei redditi ed estratti conto bancari, estratti conto relativi alla carta di credito ed a deposito di titoli, visura catastale aggiornata), non ottemperando a quanto disposto con il decreto presidenziale di fissazione dell’udienza del 26.05.2016. In particolare, l’appellante ha omesso di produrre documentazione attestante la persistenza della condizione di disoccupazione, dichiarata nel giudizio di primo grado e nel ricorso in appello, nè ha indicato se si sia attivata ai fini del reperimento di un’altra proficua occupazione e con quali risultati… La richiesta di riconoscimento di un assegno di mantenimento resta, quindi, carente di elementi probatori la cui allegazione appare indispensabile ai fini del suo positivo riscontro. Giova ricordare che la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, applicabile anche nei procedimenti di separazione, nell’imporre ai coniugi di presentare non solo “la dichiarazione personale dei redditi”, ma anche “ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune”, impone agli stessi uno specifico e particolare comportamento di lealtà processuale. Si configura, quindi, un onere processuale fanalizzato all’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della decisione sui rapporti economici fra le parti. Dal suo inadempimento derivano conseguente in ordine alla prova del possesso di redditi da parte dell’inadempiente. Le asserzioni dell’appellante in ordine alla propria situazione reddituale non sono, pertanto, suscettibili di riscontro attraverso idonea documentazione e, in base alla regola dell’onere della prova, la mancata produzione si riflette, sotto il profilo probatorio ex art. 116 c.p.c., a danno della parte che non documenta le allegazioni sulla propria condizione economica mediante il necessario supporto documentale…”.

3. Palesemente inammissibile è anche il secondo motivo.

3.1. Esso, infatti, non solo nuovamente oblitera del tutto l’appena riportato passaggio motivazionale della decisione oggi impugnata, ma neppure considera che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 10 ottobre 2017), oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”: tale dovendosi considerare un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017), e non gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato (nella specie la complessiva situazione patrimoniale e reddituale della odierna ricorrente) sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

3.1.1. La P., infine, nella prospettazione della doglianza in esame, nemmeno ha compiutamente indicato come e quando (nel quadro processuale) lo specifico fatto il cui esame sarebbe stato omesso sia stato oggetto di discussione tra le parti, così risultando inadempiente pure al corrispondente onere di allegazione impostole dall’interpretazione fornita al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 da Cass., SU, n. 8053 del 2014.

4. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza, altresì rilevandosi che, vertendosi su domanda riguardante anche figli minori, non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

5. Va, disposta, da ultimo, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, e condanna P.A. al pagamento, in favore di parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2019

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