Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21966 del 03/09/2019

Cassazione civile sez. III, 03/09/2019, (ud. 08/02/2019, dep. 03/09/2019), n.21966

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19937/2017 proposto da:

A.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71,

presso lo studio dell’avvocato DELL’ERBA GIUSEPPE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ROCCO LUIGI CORVAGLIA;

– ricorrenti –

contro

GROUPAMA ASSICURAZIONI SPA in persona del suo Procuratore Speciale

Dott. R.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE

FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

F.R., Ar.PA.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 934/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 29/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/02/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale CARDINO ALBERTO, che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.L. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 934/16, del 29 settembre 2016, della Corte di Appello di Lecce, che ha dichiarato inammissibile, per intempestività, il gravame da esso esperito avverso la sentenza del Tribunale di Lecce n. 2617/13, del 14 febbraio 2013.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver proposto ricorso innanzi al Tribunale di Lecce – ai sensi della L. 21 febbraio 2006, n. 102, art. 3 e degli artt. 409 e ss. c.p.c. – per conseguire da Ar.Gi. e dalla società Nuova Tirrena assicurazioni S.p.a. (oggi Groupama Assicurazioni S.p.a.) il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un sinistro stradale in cui era rimasto coinvolto.

Costituitasi in giudizio la sola compagnia assicuratrice per la “RCA”, la stessa eccepiva di aver provveduto all’integrale ristoro dei danni lamentati dall’odierno ricorrente.

Disposta dal Tribunale la conversione del rito, dovendo il giudizio svolgersi nelle forme previste dagli artt. 414 e ss. c.p.c., la causa veniva definita, all’esito di udienza di discussione, con sentenza che, pur riconoscendo l’esclusiva responsabilità dell’ Ar. nella causazione del sinistro, rigettava la domanda risarcitoria dell’ A., ritenendo integralmente satisfattivo il pagamento effettuato dalla Nuova Tirrena.

Avverso la decisione del primo giudice proponeva gravame l’odierno ricorrente.

Costituitasi nel giudizio di appello la Groupama Assicurazioni, essa eccepiva l’inammissibilità del gravame per tardività, sul presupposto che l’ A. avrebbe dovuto seguire le forme proprie del rito del lavoro.

Risultando, peraltro, dalla notificazione dell’atto di appello all’ Ar. l’avvenuto decesso del medesimo, il giudizio veniva interrotto, per essere poi riassunto nei confronti degli eredi del medesimo, ovvero F.R. e Ar.Pa.. All’udienza di riassunzione la compagnia assicuratrice insisteva nella richiesta pregiudiziale di mutamento del rito e di declaratoria di inammissibilità dell’atto di impugnazione, eccezioni rigettate dalla Corte salentina, con ordinanza dell’11 dicembre 2014.

Nondimeno, all’esito dell’udienza di discussione, il giudice d’appello, revocata l’ordinanza suddetta, dichiarava inammissibile il gravame per intempestività dello stesso, e ciò sul rilievo che nelle controversie soggette al rito del lavoro, “l’inammissibilità dell’impugnazione, perchè depositata in cancelleria oltre il termine di decadenza previsto dell’art. 434 c.p.c., comma 2, o, in caso di mancata notifica della sentenza, nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, non trova deroga nell’ipotesi in cui l’appello sia stato irritualmente proposto con citazione anzichè con ricorso, laddove l’atto, pur suscettibile di convalida ai sensi dell’art. 156 c.p.c., u.c., non venga depositato entro il termine per proporre impugnazione”.

Nella specie, infatti, notificata dal convenuto vittorioso la sentenza di primo grado all’attore soccombente in data 31 maggio 2013, l’atto di impugnazione – introdotto, erroneamente, con citazione – veniva notificato il 28 maggio 2013. Orbene, essendo avvenuto il deposito dello stesso presso la cancelleria della Corte Salentina in data 5 luglio 2013, risultava irrimediabilmente decorso, il 30 giugno 2013, il termine breve di 30 giorni per la proposizione dell’impugnazione.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione l’ A., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce “violazione e falsa applicazione di legge, in particolare dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 3), per avere la Corte di Appello pronunciato, con la sentenza impugnata, in ordine ad una questione ormai definitivamente decisa con ordinanza-sentenza”.

Si assume, infatti, che l’ordinanza con cui la Corte salentina aveva ritenuto, in un primo tempo, non fondate le eccezioni relative alla necessità del mutamento del rito e alla declaratoria di inammissibilità, per tardività, del proposto atto di gravame, presentasse natura decisoria.

Il giudice di appello, pertanto, avrebbe consumato, attraverso l’adozione di tale provvedimento, la propria “potestas iudicandi”, di talchè, nel caso di specie, opererebbe una preclusione di giudicato.

3.2. Con il secondo motivo – sempre proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce “violazione di legge, in particolare dell’art. 325 c.p.c. per avere la Corte di Appello errato nel dichiarare inammissibile l’appello proposto con citazione introduttiva di giudizio”, essendosi questo svolto “interamente nelle forme del “rito ordinario””.

Si evidenzia come la Corte salentina abbia celebrato l’intero giudizio di appello nelle forme del rito ordinario, fino alla pronuncia della sentenza, senza adottare alcun provvedimento di mutamento del rito, sicchè essa, nel valutare la tempestività dell’impugnazione avrebbe dovuto fare applicazione del principio della cosiddetta ultrattività del rito, che prescinde dalla sua esattezza.

3.3. Con il terzo motivo – proposto, del pari, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce “violazione di legge, in particolare dell’art. 437 c.p.c. per omessa pronuncia del dispositivo della sentenza all’udienza conclusiva del giudizio, con conseguente radicale nullità della sentenza stessa”.

Richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui, nelle cause soggette al rito del lavoro, l’omessa lettura del dispositivo all’udienza di discussione determina la nullità insanabile della sentenza, per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto, il ricorrente rileva come, nella specie, le parti abbiano precisato le conclusioni e la Corte si sia riservata di decidere assegnando alle stesse i termini di cui all’art. 190 c.p.c..

4. La Groupama Assicurazioni ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In particolare, quanto al primo profilo, si assume il difetto di autosufficienza del ricorso, dal momento che l’ A. non avrebbe individuato gli atti e i documenti sui quali ha basato la propria impugnazione. Inoltre, l’inammissibilità discenderebbe anche dal fatto che il ricorso avrebbe omesso di individuare le parti della sentenza alle quali risulta correlata l’impugnazione.

In merito, invece, alla infondatezza del ricorso, quanto al primo motivo, si esclude che l’ordinanza adottata in data 11 dicembre 2014 potesse presentare natura decisoria, giacchè la Corte salentina non si sarebbe pronunciata, neppure implicitamente, sull’eccezione di intempestività del gravame, limitandosi a rigettare la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare l’entità dei danni.

Quanto al secondo motivo, si ribadisce come nessun dubbio possa sussistere circa il fatto che il gravame dovesse essere introdotto con ricorso depositato in cancelleria nei termini di cui all’art. 434 c.p.c..

Infine, circa il terzo motivo, se ne assume l’assoluta pretestuosità, non comprendendosi neppure le motivazioni della contestazione, attesa la insussistenza dei presupposti di legge che possano giustificare la declaratoria di nullità della sentenza emessa.

5. E’ intervenuto in giudizio il Procuratore Generale della Repubblica presso questa Corte, in persona di un suo sostituto, per chiedere il rigetto del ricorso.

In relazione, in particolare, al primo motivo si esclude che l’ordinanza adottata in data 11 dicembre 2014 abbia contenuto di sentenza, non rientrando in alcuna delle ipotesi elencate dall’art. 279 c.p.c., comma 2, nn. da 1) a 5); in ogni caso, si sottolinea come la decisione sull’ammissibilità o procedibilità del ricorso abbia natura di sentenza solo quando si presenti come atta a definire il giudizio, cioè quando afferma che il gravame è inammissibile o improcedibile, non quando consente la prosecuzione del giudizio.

In relazione al secondo motivo, si sottolinea come il mancato mutamento del rito non poteva certamente valere a rendere, “ex post”, tempestiva e rituale un’impugnazione che tale “ab origine” non era.

Quanto, infine, al terzo motivo di ricorso, si osserva come il ricorrente non abbia specificamente dedotto quale sia il pregiudizio derivato al suo diritto di difesa dalla mancata lettura del dispositivo della sentenza in udienza, fermo, peraltro, restando che, essendosi il giudizio – sebbene irritualmente – svolto nelle forme ordinarie e non in quelle proprie del rito del lavoro, il giudice di appello neppure era tenuto a tale adempimento.

6. Il ricorrente ha presentato memoria insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando ai rilievi del sostituto Procuratore Generale presso questa Corte.

In particolare, quanto al primo motivo di ricorso, si evidenzia come l’ordinanza ex art. 279 c.p.c., comma 2, n. 4), possa assumere natura di sentenza non definitiva a prescindere dal fatto che abbia dichiarato inammissibile o improcedibile l’appello, essendo sufficiente che essa decida alcune questioni, senza definire il giudizio, impartendo provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa.

Quanto ai rilievi della Procura Generale concernenti gli altri due motivi di ricorso, si pone in luce la loro contraddittorietà. Difatti, assume il ricorrente, o il giudizio di appello è stato correttamente svolto nelle forme ordinarie, ed allora l’impugnazione avrebbe dovuto considerarsi tempestiva, oppure esso doveva svolgersi secondo il rito del lavoro, ma allora avrebbe dovuto concludersi con sentenza pronunciata previa lettura del dispositivo in pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Il ricorso va rigettato.

7.1. Il primo motivo non è fondato.

7.1.1. Questa Corte ha ribadito, ancora di recente, che “al fine di stabilire se un determinato provvedimento abbia carattere di sentenza ovvero di ordinanza, e sia, quindi, soggetto o meno ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, è necessario avere riguardo non già alla forma esteriore e alla denominazione adottata dal giudice che lo ha pronunciato, bensì al contenuto sostanziale del provvedimento stesso e, conseguentemente, all’effetto giuridico che esso è destinato a produrre”. Su tali basi, quindi, si ritiene che costituiscano “sentenze – soggette agli ordinari mezzi di impugnazione e suscettibili, in mancanza, di passare in giudicato – i provvedimenti che, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., contengono una statuizione di natura decisoria (sulla giurisdizione, sulla competenza, ovvero su questioni pregiudiziali del processo o preliminari di merito), anche quando non definiscono il giudizio”, ravvisandosi, invece, un’ordinanza tutte le volte in cui il giudice non si sia “pronunciato su alcuna delle questioni previste dall’art. 279 c.p.c., comma 2”, ma si sia “limitato a provvedere per l’ulteriore svolgimento del processo” (così da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 19 febbraio 2018, n. 1945, Rv. 647415-01).

Orbene, l’evenienza da ultimo indicata è quella che ricorre nel caso di specie, giacchè la Corte salentina si è limitata (peraltro, erroneamente) a ritenere insussistenti i presupposti per la conversione del rito, sul presupposto che potesse operare il principio di ultrattività di quello di primo grado, e a rigettare la richiesta di CTU, ritenendo, pertanto, la causa matura per la decisione e fissando, di conseguenza, udienza di precisazione delle conclusioni. Così provvedendo essa ha adottato un provvedimento nel quale non può ravvisarsi una pronuncia implicita (di rigetto) sull’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per tardività, ma che lasciava impregiudicata la stessa, unitamente ad ogni altra che avrebbe dovuto essere esaminata a norma dell’art. 276 c.p.c. (giusta il disposto di cui all’art. 359 c.p.c.).

7.2. Anche il secondo motivo non è fondato.

7.2.1. Il principio dell’ultrattività del rito opera per consentire la prosecuzione del giudizio, in appello, con le stesse forme in cui lo stesso risulti incardinato, ancorchè erroneamente, in primo grado.

Nel caso di specie, per contro, disposta dal primo giudice (correttamente) la conversione del rito, giacchè – secondo la disciplina applicabile “ratione temporis” – quella causa risarcitoria, instaurata nelle forme ordinarie, doveva invece svolgersi secondo il rito del lavoro, lo stesso avrebbe dovuto essere introdotto in appello secondo le modalità proprie di quel rito, nel quale il giudizio era stato, come detto, convertito.

Il richiamo all’ultrattività appare, dunque, del tutto inconferente.

7.3. Infine, neppure il terzo motivo di ricorso è fondato.

7.3.1. Sul punto va, da un lato, notato che il giudizio di appello si è interamente svolto nelle forme ordinarie (difatti, l’ordinanza che aveva escluso la necessità della conversione è stata revocata solo con la sentenza che ha deciso il giudizio stesso), nonchè, dall’altro, che nessun pregiudizio è derivato, da tale irritualità, per la parte odierna ricorrente. Difatti, la questione relativa alla necessità che il gravame fosse introdotto con ricorso depositato in cancelleria nei termini di cui all’art. 434 c.p.c. già apparteneva al “thema disputandum”, sicchè non può certo dirsi che la decisione della Corte salentina sia stata “a sorpresa”, pregiudicando la posizione dell’ A..

D’altra parte, a seguire il ragionamento svolto dal ricorrente con il presente motivo, si dovrebbe ipotizzare la necessità che il giudice d’appello, dopo che era già avvenuto lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, rimettesse la causa sul ruolo al solo scopo di dare lettura del dispositivo in udienza, senza che alcuna reale utilità potesse venire, per entrambe le parti, da tale adempimento.

Ne consegue, pertanto, che può trovare applicazione, nel caso di specie, il principio secondo cui la “erronea applicazione delle regole del codice di rito non può pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l’accertamento del diritto, in quanto la pronuncia di merito è garanzia di effettività della tutela ex art. 24 Cost., inoltre l’art. 111 Cost. assegna rilievo costituzionale al principio di ragionevole durata del processo al pari di quello del diritto di difesa, sicchè il contemperamento dei due principi porta ad escludere la correttezza di interpretazioni che prevedano la regressione del processo per il mero rilievo della mancata realizzazione di determinate formalità, la cui omissione non abbia in concreto comportato limitazioni delle garanzie difensive” (Cass. Sez. Lav., sent. 5 aprile 2018, n. 8422, Rv. 647623-01).

– 8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

9. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando A.L. a rifondere alla società Groupama Assicurazioni S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 8 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2019

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