Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28830 del 09/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 09/11/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 09/11/2018), n.28830

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5932/2016 proposto da:

R.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GRAMSCI 7, presso

lo studio dell’avvocato MICHELA CONCETTI, rappresentato e difeso

dall’avvocato DOMENICO MESITI;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA

PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1684/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, pubblicata il 16/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 25/10/2018 dal Consigliere Relatore Dott. ADRIANA

DORONZO.

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza pubblicata il 16/12/2015, la Corte d’appello di Reggio Calabria, in accoglimento dell’appello proposto dall’INPS, ha rigettato la domanda proposta da R.S., avente ad oggetto il riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità L. n. 118 del 1971, ex art. 12, con la condanna dell’INPS al pagamento della prestazione, e ha compensato le spese di entrambi i gradi del giudizio;

la Corte territoriale, dopo aver disposto la rinnovazione delle indagini peritali, ha dissentito dalle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio nominato, il quale aveva attribuito alla ricorrente-appellata la percentuale complessiva del 95% di inabilità, cui aveva aggiunto il 5% a mente del D.Lgs. n. 509 del 1988, art. 3, con valutazioni in entrambi i casi non condivise;

in particolare la Corte ha rilevato che: a) in ordine al diabete mellito, era stata riconosciuta dal c.t.u. la percentuale massima di invalidità in ragione non della sua effettiva attuale incidenza invalidante, ma della sua evolutività; invece, non essendo state riscontrate complicanze micro-macroangiopatiche con manifestazioni cliniche di medio grado (classe 3^) e non essendo documentato da esami ematochirnici lo scompenso metabolico grave, ma piuttosto riscontrato un buon controllo glicemico, la malattia non poteva condurre al riconoscimento del 50% di invalidità e neppure era suscettibile di valutazione in termini percentuali invalidanti; b) in ordine alla rettocolite ulcerosa non risultavano documentate esacerbazioni e la certificazione attestava solo una terapia a lungo termine ma non la sua inadeguatezza a controllare i sintomi, sicchè non poteva farsi riferimento al codice diagnostico utilizzato dal consulente nella misura massima percentuale; c) l’aumento accordato del 5% non risultava sorretto da alcun elemento da cui desumere la capacità lavorativa specifica o semispecifica della perizianda; inoltre la verifica del diritto a tale incremento appariva superflua, dal momento che la percentuale complessiva di inabilità riconoscibile, per le ragioni suesposte, non raggiungeva il 95%, applicando il calcolo riduzionistico previsto dal D.M. 5 febbraio 1992; contro la sentenza la R. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso l’Inps;

la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo il ricorrente denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 118 del 1971, art. 12,D.Lgs. 23 novembre 1988, n. 509, art. 4, D.M. 5 febbraio 1992, nonchè dell’art. 111 Cost., “per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”;

assume in sintesi che la Corte territoriale non aveva disconosciuto l’esistenza delle malattie riscontrate dai consulenti, ma solo la loro gravità, e che entrambi i consulenti avevano accertato l’esistenza d’una depressione endogena grave (cod. 2210 D.M.), valutata dell’80%, su cui la Corte territoriale nulla aveva affermato; che, con riguardo – al diabete mellito, la corte territoriale aveva omesso di valutare la malattia, che se non poteva essere ricompresa nella classe 3^, come ritenuto dai CTU, avrebbe dovuto comunque essere valutata, eventualmente in via analogica, indicando se essa andava classificata nella 1^ o nella 2^ delle classi descritte, considerato altresì che il consulente di primo grado aveva rilevato la sussistenza di complicanze neuropatiche sensitive e motorie nonchè, più recentemente, un grave scompenso metabolico; anche per la rettocolite ulcerosa e la patologia artrosica, di cui il giudice non contestava l’esistenza, era mancata la rispettiva classificazione e quindi la incidenza delle malattie sulla capacità di lavoro, eventualmente utilizzando anche in tal caso una valutazione analogica; in tale giudizio, pertanto, la Corte aveva violato il D.M. 5 febbraio 1992, nella parte in cui dispone che per le malattie non tabellate è possibile valutare il danno con criterio analogico rispetto a quelle tabellate; infine, il giudice d’appello aveva omesso una valutazione complessiva delle varie infermità, da cui invece sarebbe derivato sia attraverso l’applicazione della forma riduzionistica sia attraverso la valutazione complessiva globale il riconoscimento della condizione di invalidità totale; l’omessa valutazione e stima costituivano violazione dell’art. 111 Cost., per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, non essendo consentito affermare l’esistenza delle malattie e sostenere nello stesso tempo che esse non hanno alcuna rilevanza ai fini della diminuzione della capacità lavorativa;

con il secondo motivo la parte si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., cod.proc.civ., perchè il giudice avrebbe dovuto confermare la statuizione delle spese già contenuta nella sentenza del primo grado e condannare l’Inps al pagamento di quelle d’appello;

il primo motivo è inammissibile;

in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 13/10/2017, n. 24155; Cass. 12/10/2017, n. 24054; Cass. 26/6/2013, n. 16038; Cass., 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 16/07/2010, n. 16698); in altri termini, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (“id est”: del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, dovendo il ricorrente, in ogni caso, prospettare l’erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ed indicare, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, i motivi per i quali chiede la cassazione” (cfr. Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348, conforme a Cass., 22 febbraio 2007 n, 4178);

a tal fine, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 26/06/2013, n. 16038; Cass. 16/03/2012, n. 4233);

nel caso di specie, il motivo di ricorso in esame non rispetta tali modalità di deduzione, non avendo la ricorrente indicato quale delle affermazioni della Corte territoriale sarebbe in contrasto con le norme di legge che si assumono violate;

in realtà, dalla stessa illustrazione del motivo in esame emerge evidente come, attraverso di esso, la parte miri ad ottenere una rivalutazione delle risultanze istruttorie e così realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito;

anche per quanto attiene alla censura relativa all’uso delle tabelle di cui al D.M. 5 febbraio 1992, è da escludere che alla valutazione del requisito sanitario, utile ai fini del riconoscimento della prestazione in esame, si debba pervenire attraverso il riferimento a codici e percentuali che, in relazione alle malattie diagnosticate, identificano le stesse e ne fissano l’incidenza invalidante, prescindendo da una valutazione ad personam, nella specie viceversa operata, stante l’orientamento accolto da questa Corte, secondo cui successivamente all’emanazione del predetto decreto, in caso di ricorrenza nel soggetto esaminato “di una pluralità di menomazioni e malattie invalidanti, il danno globale non si computa, come qui si vorrebbe, addizionando le percentuali di invalidità risultanti dalla tabella” approvata con il citato D.M., “ma la tabella deve essere presa in considerazione come parametro di base e la valutazione deve essere effettuata tenendo conto dell’incidenza del danno globale sulla validità complessiva del soggetto” (cfr. da ultimo, Cass. 18/7/2017, n. 17707, che richiama Cass. n. 25254/2014 e in precedenza Cass. 15680/2006 e Cass. n. 6652/2004);

ciò è idoneo a confermare l’insindacabilità in questa sede del giudizio espresso dalla pronuncia di merito, non fatto oggetto sotto altro profilo di specifiche censure;

il motivo è inammissibile anche sotto la specie della violazione dell’art. 111 Cost.;

in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 e applicabile alla controversia in esame ratione temporis (in ragione della data di pubblicazione della sentenza d’appello, successiva al 12 settembre 2012), non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (da ultimo, Cass. 12/10/2017, n. 23940; Cass. Sez. Un., 7 aprile 2014, nn. 8053, 8054);

nel caso di specie la motivazione è certamente sussistente, sotto il profilo formale e sostanziale, apparendo chiaro l’iter logico giuridico seguito dalla corte territoriale;

nè si riscontra la denunciata inconciliabilità logica tra l’aver riconosciuto la sussistenza delle malattie e l’aver escluso la loro incidenza invalidante;

al riguardo, come si è dato atto nella parte narrativa della presente ordinanza, la Corte ha motivato le ragioni per le quali ha dissentito dal giudizio espresso dal consulente tecnico d’ufficio in ordine alla classificazione delle malattie e al loro grado di incidenza sulla complessiva capacità del soggetto; nè al riguardo è necessario che il giudice di merito proceda ad una precisa e diversa quantificazione del grado di invalidità rispetto a quanto ritenuto dal consulente, giacchè ciò che rileva è il mancato raggiungimento della soglia del 100%; peraltro, nel momento in cui ha escluso, con un ragionamento in fatto non sindacabile in questa sede, sia la percentuale del 50% attribuita dal CTU al diabete mellito sia la percentuale massima riconosciuta alla rettocolite ulcerosa, è aritmeticamente escluso il raggiungimento della soglia del 95%, diventando così irrilevante e superfluo esaminare anche le altre malattie (artrosi e depressione endogena grave) e procedere ad una diversa determinazione della percentuale di invalidità delle singole affezioni e delle stesse nel loro complesso;

è la stessa corte territoriale, del resto, a precisare che, nel caso concreto, la complessiva percentuale di invalidità riconoscibile non raggiunge 95%, applicando il calcolo riduzionistico previsto dalla D.M. 5 febbraio 1992 (pag. 5 della sentenza), e tale affermazione non risulta adeguatamente censurata;

è altresì inammissibile il secondo motivo di ricorso, rispetto al quale la parte difetta di interesse: ove infatti la Corte avesse fatto applicazione del principio della soccombenza, avrebbe dovuto porre le spese tanto del primo quanto del secondo grado del giudizio interamente a carico della parte odierna ricorrente, in quanto appunto soccombente, laddove, invece, con una decisione più favorevole alla parte, ha ritenuto di compensarle integralmente;

dalla inammissibilità del ricorso discende, in applicazione del principio della soccombenza, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio;

poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esbbrsi e Euro 2.000,00 per competenze professionali, oltre al 15% di rimborso forfettario delle spese generali e agli altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2018

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