Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25320 del 11/10/2018

Cassazione civile sez. VI, 11/10/2018, (ud. 03/05/2018, dep. 11/10/2018), n.25320

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14308/2017 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO n. 6,

presso lo studio dell’avvocato CARLO LEPORE, che la rappresenta e

difende unitamente e disgiuntamente agli avvocati MARCO RIPAMONTI, e

LUCA CHIODI;

– ricorrente –

contro

IMMOBILIARE MIMOSA S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZALE CLODIO n. 14, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

GRAZIANI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5284/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 03/05/2018 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

la Srl Immobiliare Mimosa chiedeva e otteneva dal Tribunale di Viterbo decreto ingiuntivo notificato il 14 luglio 2004 per il pagamento delle somme a titolo di corrispettivo della fornitura di materiale edile nei confronti di P.P.. Quest’ultima proponeva opposizione eccependo la presenza di vizi strutturali del materiale fornito e montato (finestre, persiane, controsoglie in legno) nella propria abitazione, e spiegava domanda riconvenzionale;

il Tribunale con sentenza del 9 gennaio 2008 accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’opposta al pagamento di somme, ai sensi dell’art. 1492 c.c., anche a titolo di risarcimento del danno, oltre alla restituzione di quanto versato dall’opponente in conseguenza della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo. Il Tribunale rilevava che la scrittura privata del 17 luglio 2003, firmata dalla opponente, non poteva valere come liberatoria in quanto, successivamente, l’opponente aveva denunziato i vizi del materiale fornitole. Inoltre l’opponente non era decaduta dalla relativa denunzia, nè era applicabile il termine di prescrizione di un anno, mentre la consulenza eseguita aveva accertato l’esistenza dei vizi lamentati nel materiale fornito e nel relativo montaggio;

avverso tale decisione proponeva appello con atto notificato il 2 ottobre 2008 Immobiliare Mimosa Srl e si costituiva l’appellata, P.P., chiedendo il rigetto del gravame. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza dell’8 settembre 2016 riteneva fondato il primo motivo di appello, relativo al mancato riconoscimento della dichiarazione liberatoria del 17 luglio 2003, osservando che, nonostante la diversità delle fatture citate dalle parti, quella dichiarazione si riferisce alla sostituzione degli infissi da parte della venditrice ed alla consegna di nuovi infissi, riconosciuti esenti da vizi. Perciò in difetto di impugnazione per errore o vizio del consenso della dichiarazione del 17 luglio 2003, quest’ultima risultava vincolante per l’opponente. Conseguentemente, poichè il decreto ingiuntivo era stato revocato in primo grado, disponeva la condanna di P.P. al pagamento della somma richiesta oltre alle spese di primo e secondo grado, secondo il principio di soccombenza e quelle di consulenza tecnica;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione P.P. affidandosi a tre motivi che illustra con memoria. Resiste in giudizio con controricorso Immobiliare Mimosa Srl.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 12 disp. gen. e dell’art. 1362 c.c.. In particolare, la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione il criterio della comune intenzione delle parti, le quali non avrebbero inteso riferirsi anche alle finestre e, comunque, anche rispetto a queste ultime la scrittura non avrebbe avuto alcuna efficacia. La comune intenzione delle parti non era quella di escludere la presenza di vizi, ma di dare atto che l’ordine originario era stato evaso;

il motivo è inammissibile per difetto di specificità laddove tenderebbe a denunziare un vizio in iure (Cass. S.U. n. 7074 del 2017), ma in concreto si traduce nella prospettazione di una diversa ricostruzione della quaestio facti nel cui ambito avrebbe dovuto collocarsi la scrittura. Pertanto, si pone al di fuori del perimetro di valutazione della motivazione fissato dal testo vigente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ancorchè non invocato formalmente;

va ribadito, infatti, che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'”iter” logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto, onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa;

parte ricorrente censura la sentenza impugnata sull’uso errato del criterio della comune intenzione delle parti, omettendo di individuare sulla base di quali elementi sarebbe deducibile la prospettata comune intenzione dei contraenti. Non viene precisato se tale comune intenzione dovesse emergere dalla stessa lettera della scrittura oppure da differenti elementi. Sul punto il motivo è fondato su mere asserzioni (pagina 16, ultime righe e pagina 17, prime nove righe) poichè non si deduce in quale sede sono state prospettate le tesi sostenute al fine di evidenziare la comune intenzione delle parti, che sarebbe stata ignorata dalla sentenza impugnata;

con il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 1490,14911495 c.c., rilevando che con la sottoscrizione della scrittura del 17 luglio 2003 l’acquirente non aveva rinunziato a far valere i vizi successivi all’attestazione di consegna conforme all’ordine. Trattandosi di vizi occulti emersi successivamente a tale data, gli stessi sarebbero stati rappresentati nella lettera del 13 novembre 2003. In ogni caso, sarebbe inconferente il riferimento operato dalla Corte territoriale alla mancata impugnazione della dichiarazione del 17 luglio 2003 per errore e vizio del consenso, in quanto la domanda riconvenzionale si riferisce a fatti giuridici successivi rispetto ai quali continua a sussistere la garanzia del venditore;

il motivo è inammissibile trattandosi di profili nuovi, non affrontati dal giudice di appello. La ricorrente omette di indicare in quale momento processuale tali questioni sono entrate nel giudizio di merito, trattandosi di vizi verificatisi successivamente alla scrittura del 17 luglio 2003, laddove la sentenza non si occupa della questione. Pertanto, non è possibile contestare la motivazione rilevando che il giudice di appello avrebbe inteso la scrittura come una rinunzia ai vizi verificatisi successivamente, sicchè la questione risulta, secondo il tenore del ricorso e della sentenza, nuova;

la tesi presuppone la dimostrazione, in primo luogo, che la domanda riconvenzionale si riferisca a vizi successivi alla dichiarazione del 17 luglio 2003 e che siano stati superati i profili relativi alla decadenza dal far valere i vizi, giacchè sulla base delle stesse dichiarazioni della ricorrente gli stessi sarebbero stati segnalati tre mesi dopo la consegna. Anche con riferimento a tali ultimi aspetti ricorre difetto di allegazione, non avendo la parte trascritto o individuato il contenuto della domanda riconvenzionale e dedotto alcunchè riguardo alla decadenza;

in ogni caso, nell’ipotesi in cui fosse stata introdotta una siffatta questione, parte ricorrente, dimostrando ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quale fase processuale ciò sarebbe avvenuto, avrebbe potuto dolersi (in altro modo) dell’omessa pronunzia della Corte territoriale (facendo riferimento ad un differente vizio della sentenza, non menzionato);

con il terzo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere la Corte territoriale considerato che nella scrittura del 17 luglio 2003 non vi è alcun riferimento alle “finestre” come rilevato anche dal consulente d’ufficio;

il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6. La ricorrente lamenta che la scrittura non comprendesse le finestre, ma per dimostrare l’omesso esame del fatto negativo costituito dalla mancata contemplazione delle stesse, avrebbe dovuto indicare in quale momento processuale del giudizio di merito era stata prospettata l’esegesi della scrittura, come non comprensiva di tali elementi e le relative deduzioni e argomentazioni. Difetta, pertanto, l’osservanza della norma indicata;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta della Corte Suprema di Cassazione, il 3 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018

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