Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12731 del 21/06/2016

Cassazione civile sez. III, 21/06/2016, (ud. 26/02/2016, dep. 21/06/2016), n.12731

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. DEMARCHI ALBENGO Paolo Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.D., considerata domiciliata in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato BELTRAME ALESSANDRO;

– ricorrente –

contro

D.A.V., considerato domiciliato in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato DE ANGELIS MAURIZIO giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 899/2013 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 04/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/02/2016 dal Consigliere Dott. RUBINO LINA;

udito l’Avvocato DE ANGELIS MAURIZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

B.D. propose opposizione contro l’esecuzione di un obbligo di fare, promossa da D.A.V. nei suoi confronti sulla base di una sentenza del 1995 che ordinava la reintegrazione del D.A. nel godimento di una servitù di passaggio sul fondo della ricorrente mediante la rimozione del muro costruito dalla B..

L’opposizione venne rigettata sia in primo grado che in appello.

La Corte d’Appello di Trieste, nella sentenza qui impugnata, dava atto della legittimità del provvedimento ex art. 612 c.p.c. e del fatto che, data la alterazione dei luoghi posta in essere dalla B., la pura e semplice demolizione del muro indicata nella sentenza posta in esecuzione non sarebbe stata sufficiente a consentire il ripristino dell’esercizio della servitù di passaggio in condizioni di sicurezza, ma fosse necessario predisporre anche gli interventi accessori indicati dal giudice dell’esecuzione. Condannava la attuale ricorrente, come già il giudice di primo grado, anche al pagamento di una somma ex art. 96 c.p.c..

B.D. propone ricorso nei confronti di D.A. V., articolato in cinque motivi ed illustrato da memoria, per la cassazione della sentenza n. 899/2013 depositata dalla Corte d’Appello di Trieste il 4.11.2013, non notificata.

Resiste con controricorso il D.A..

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, formulato senza precisare a quale della tassative ipotesi in riferimento alle quali la legge consente la proposizione del ricorso per cassazione si intenda far riferimento, la ricorrente lamenta la violazione del proprio diritto di difesa perchè il giudice di primo grado, all’udienza fissata ex art. 281 sexies c.p.c. non avrebbe disposto la discussione della causa.

Premesso che, trattandosi di un error in procedendo è consentito alla Corte il diretto esame degli atti di causa, il motivo è infondato.

Preliminarmente, sotto il profilo della ammissibilità, va detto che la ricorrente, pur denunciando la presenza di un vizio processuale consistente nella omissione della discussione orale, non indica quale sarebbe stato il pregiudizio in concreto subito, quale argomentazione avesse intenzione di sviluppare e non sarebbe stata in grado di farlo a causa della omissione della discussione. Si limita a sostenere che la discussione è stata omessa e le sue domande sono state rigettate.

Per contro, come questa Corte ha già più volte affermato, la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione. Ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (da ultimo, Cass. n. 26831 del 2014).

Il motivo è inoltre infondato nel merito, in quanto dal tenore della verbalizzazione non risulta nè che la discussione orale sia stata omessa per volontà del giudice nè che questi, richiestone, abbia negato di darvi ingresso: nel verbale dell’udienza fissata per la decisione ex art. 281 sexies c.p.c. risultano semplicemente verbalizzate le conclusioni delle parti. A ciò si aggiunga che, qualora la parte sia presente all’udienza fissata per la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c. a mezzo del suo avvocato e il giudice all’udienza fissata non dia ingresso alla discussione, invitando la parti alla precisazione delle conclusioni, è onere del difensore che ne abbia interesse richiedere di poter procedere alla discussione orale, dovendosi ritenere illegittimo non la mancanza in sè di discussione (che potrebbe essere anche rinunciata dalle parti) quanto il provvedimento che in mancanza di adeguata giustificazione e in presenza di richiesta delle parti o di una di esse neghi la facoltà di discutere.

Con il secondo motivo, la B. denuncia l’omessa pronunzia da parte del giudice d’appello che non avrebbe preso in considerazione la sua domanda volta ad ottenere che l’esecuzione dell’obbligo di fare avvenisse adottando la seconda possibile modalità alternativa di esecuzione indicata dal c.t.u., di minor pregiudizio per l’esecutata.

Il motivo è infondato, in quanto la corte d’appello non trascura di pronunciarsi sul punto: essa in sentenza riporta il motivo di appello e poi con motivazione unitaria conferma la legittimità della scelta operata da parte del giudice di primo grado, di privilegiare la prima delle due possibili modalità di esecuzione alternativamente prospettate dal consulente, ritenendola la più appropriata ad un ripristino della servitù di passaggio che, in considerazione della alterazione dei luoghi da parte della ricorrente, consentisse anche di rimettere la situazione in sicurezza.

Con il terzo motivo la B. contesta la violazione dell’art. 96 c.p.c. da parte della sentenza di appello, laddove essa non ha accolto la sua domanda di riforma della condanna ex art. 96 c.p.c. inflitta dal giudice di primo grado in mancanza, da parte sua, di mala fede o colpa grave.

Il motivo è infondato.

La ricorrente ha intrapreso numerose iniziative giudiziarie, dando luogo ad un totale di venti tra atti introduttivi, reclami, ricorsi e sentenze, come analiticamente indicato dal controricorrente, dalle quali tutte è uscita sempre uniformemente soccombente, e nelle quali ha riproposto sempre le medesime questioni, allo scopo di impedire o quanto meno procrastinare al massimo e rendere il più possibile difficoltosa e onerosa la esecuzione dell’obbligo di fare che trova la sua fonte in una sentenza dell’ormai lontano anno 1995, a fronte di un lavoro di semplice esecuzione quale l’eliminazione di un muro su una strada con la realizzazione di due muretti di contenimento ai lati. La corte d’appello, con motivazione coerente e non sindacabile in questa sede (nè denunciata sotto il profilo del vizio di motivazione), ha ritenuto che ciò integrasse una delle ipotesi che consentono la condanna per responsabilità processuale aggravata, ovvero gli estremi di un atteggiamento defatigatorio, espressione della volontà di agire o resistere in giudizio con male fede o colpa grave, nella consapevolezza di avere torto e al solo scopo di non consentire o postergare al massimo la concreta realizzazione dell’altrui diritto.

Nessuna violazione di legge è ravvisabile nell’operato della corte triestina, atteso che integra la consapevolezza della infondatezza delle proprie domande (e giustifica l’emissione di una condanna al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.) la reiterata riproposizione di esse benchè sistematicamente rigettate, sulla base della reiterata riproposizione delle medesime argomentazioni benchè rivestite di volta in volta di una diversa veste processuale (di volta in volta, opposizioni all’esecuzione, a precetto etc.) atta a dissimulare che si tratti sempre della riproposizione della medesima questione, allo scopo di ostacolare o postergare la pacifica realizzazione dell’altrui diritto.

Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la omessa pronunzia e, in subordine, l’omessa motivazione e la violazione di norme di diritto in riferimento agli artt. 91, 65 e 614 c.p.c. affermando di aver contestato in appello la sentenza di primo grado laddove aveva liquidato a suo carico le spese del procedimento ex art. 612 c.p.c. e del reclamo, in quanto si tratta di spese che non devono essere liquidate dal giudice del giudizio di opposizione ma dal g.e. al termine dell’esecuzione.

Il motivo è infondato.

La corte d’appello così motiva il rigetto del motivo di appello:

“trattandosi di spese di lite che sono state liquidate all’esito di un vero e proprio giudizio di cognizione, qual è quello dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., ivi comprese quelle del reclamo (ex art. 669 terdecies c.p.c.) avverso l’ordinanza che ha provveduto sulla domanda di sospensione dell’esecuzione”.

Se ne ricava che il giudice di primo grado ha liquidato, ponendole a carico della opponente, soccombente, oltre alle spese del giudizio di merito di opposizione all’esecuzione, le spese relative alla fase cautelare del reclamo avverso il provvedimento che ha negato la sospensione dell’esecuzione.

Non è riscontrabile alcuna violazione di legge, non risultando che il giudice della cognizione abbia provveduto a liquidare anche le spese del procedimento di esecuzione dell’obbligo di fare (tra l’altro, la ricorrente omette di riprodurre i termini esatti della condanna di primo grado), la cui liquidazione spetta in effetti al giudice dell’esecuzione, e ben potendo il giudice del reclamo rimandare all’esito del giudizio di cognizione la liquidazione delle spese della fase di reclamo, che verranno liquidate secundum eventum litis al termine del giudizio di cognizione.

Con il quinto motivo, la ricorrente si duole della violazione degli artt. 474 – 615 – 612 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Ribadisce che il provvedimento ex art. 612 c.p.c. a suo carico avrebbe dovuto prevedere solo l’abbattimento del muro da lei costruito ed insistente su due mappali, e non anche tutte le altre opere che le erano state ordinate, non previste nè desumibili dal titolo posto in esecuzione.

Il motivo è inammissibile.

Con esso si tenta infatti, inammissibilmente appunto, di indurre questa corte ad una nuova valutazione delle circostanze di fatto, già considerate dalla corte d’appello che, motivatamente, recependo il parere tecnico del c.t.u., ha confermato la legittimità della ordinanza di esecuzione degli obblighi di fare ritenendo che essi non potessero essere limitati soltanto alla mera demolizione del muro costruito dalla B. sulla strada ove il D.A. aveva diritto di passare, perchè, avendo la ricorrente del tutto alterato lo stato dei luoghi, sostituendo ad un tratto di strada in pendenza uno spiazzo terrazzato, si poneva la necessità, una volta abbattuto il muro, affinchè il fondo stradale non perdesse stabilità, a causa del comportamento illegittimo tenuto dalla stessa ricorrente, di compiere dei lavori di consolidamento aggiuntivi (consistenti nella costruzione di due semplici muretti di contenimento ai lati) per un ripristino del passaggio che non fosse pericoloso. La corte ha quindi risposto al quesito se le opere ordinate fossero imposte o meno dal titolo esecutivo appunto dicendo che per poter eseguire la demolizione, prevista dal titolo esecutivo e volta a reintegrare il D.A. nella servitù di passaggio, era necessario anche compiere i lavori di contenimento.

Il ricorso va complessivamente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

Atteso che il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, ed in ragione della soccombenza del ricorrente, la Corte, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico della ricorrente le spese di giudizio sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.000,00, di cui 200,00 per spese, oltre contributo spese generali ed accessori.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, il 26 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2016

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