Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16856 del 09/08/2016


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Cassazione civile sez. VI, 09/08/2016, (ud. 11/04/2016, dep. 09/08/2016), n.16856

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

M.C., + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è

domiciliato per legge;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso il decreto della Corte d’appello di Perugia n. 570/2014,

depositato il 31 marzo 2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11

aprile 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che, con ricorsi depositati presso la Corte d’appello di Perugia, alcuni dei quali in riassunzione di precedenti ricorsi proposti dinnanzi alla Corte d’appello di Roma poi dichiaratasi incompetente, i ricorrenti in epigrafe indicati (e i danti causa di coloro che avevano agito iure hereditario) – tutti appartenenti all’Arma dei carabinieri e impiegati nella missione internazionale in Bosnia per la durata di sei mesi – chiedevano la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento dei danni non patrimoniali derivati dalla irragionevole durata di un giudizio iniziato dinnanzi al TAR Lazio nell’aprile 2000 e deciso con sentenza del 19 novembre 2008; giudizio volto ad ottenere il pagamento del trattamento di missione anche per i periodi di licenza con rientro in Italia della durata di quindici giorni, di cui avevano goduto nel corso della missione;

che, con decreto depositato il 31 marzo 2014, la Corte d’appello di Perugia accoglieva parzialmente la domanda, condannando il Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti della somma di Euro 500,00, oltre agli interessi legali dalla data della domanda;

che la Corte d’appello rilevava che il TAR, nel decidere il giudizio presupposto rigettando la domanda dei ricorrenti, aveva evidenziato che la domanda dagli stessi proposta se appariva infondata già in base alla normativa vigente risultava del tutto non accoglibile per effetto del D.L. 30 dicembre 2005, art. 39 vicies semel, comma 39, convertito nella L. n. 51 del 2006, che, fornendo l’interpretazione autentica delle norme applicabili, aveva stabilito che il trattamento di missione aveva natura accessoria ed era erogato per compensare disagi e rischi collegati all’impiego, obblighi di reperibilità e disponibilità, nonchè in sostituzione dei compensi per lavoro straordinario, con conseguente esclusione che la stessa potesse essere erogata nei periodi di licenza;

che da tale rilievo la Corte d’appello traeva la convinzione che a partire dal febbraio 2006 i ricorrenti avrebbero dovuto essere ormai consapevoli della manifesta infondatezza della loro domanda e comunque della sopravvenuta temerarietà della stessa; riteneva che l’istanza di prelievo depositata il 23 agosto 2006 fosse priva di significatività ed escludeva che i ricorrenti potessero avere avuto ansia circa l’esito del giudizio;

che, dunque, escluso che il periodo successivo al febbraio 2006 potesse essere preso in considerazione ai fini della durata rilevante per la L. n. 89 del 2001, la durata irragionevole doveva essere determinata in due anni e nove mesi;

che, quanto all’indennizzo, la Corte d’appello riteneva che vari elementi imponevano di procedere ad una liquidazione al di sotto dei limiti minimi;

che, in particolare, la Corte d’appello evidenziava la natura collettiva del giudizio presupposto; la mancata presentazione di istanze di prelievo sino al giugno 2002; la modestia della posta in gioco; elementi, questi, in base ai quali la Corte d’appello riteneva che l’indennizzo potesse essere limitato a 500,00 euro, oltre agli interessi legali dalla data della domanda al soddisfo;

che per la cassazione di questo decreto i ricorrenti in epigrafe indicati hanno proposto ricorso sulla base di due motivi;

che l’intimato Ministero ha resistito con controricorso e ha a sua volta proposto ricorso incidentale.

Considerato che con il primo motivo di ricorso i ricorrenti principali denunciano violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e della L. n. 89 del 2001, art. 2, dolendosi del fatto che la Corte d’appello non abbia considerato che il pregiudizio morale si determina per le parti del processo che si sia irragionevolmente protratto, a prescindere dal fatto che le stesse siano risultate vittoriose o soccombenti, trovando tale principio deroga nei soli casi di lite temeraria o di abuso del processo; con la precisazione che tali condizioni non si identificano con la dimostrazione della infondatezza delle tesi in diritto sulle quali si basa la pretesa azionata nel giudizio presupposto, non essendo peraltro rilevante, in linea di principio, la consapevolezza della infondatezza della pretesa stessa;

che con il secondo motivo i ricorrenti principali deducono ulteriore violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè dell’art. 2729 c.c., censurando il decreto impugnato per avere liquidato un indennizzo, pari a circa 180,00 euro per anno, del tutto inadeguato ad assicurare il ristoro del pregiudizio sofferto, per di più sulla base di indici idonei a giustificare un siffatto rilevantissimo scostamento dal criterio di 500,00 euro per anno di ritardo;

che con il ricorso incidentale il Ministero dell’economia e delle finanze denuncia violazione e falsa applicazione della della L. n. 89 del 2001, art. 2, sostenendo che, sulla base delle evidenze relative al giudizio presupposto, la Corte d’appello avrebbe dovuto escludere in radice l’esistenza di un pregiudizio indennizzabile;

che il ricorso incidentale, che per ragioni di ordine logico deve essere esaminato in via prioritaria, inammissibile, difettando completamente l’esposizione sommaria dei fatti di causa, e cioè la individuazione del giudizio presupposto e la indicazione delle vicende ad esso relative, nonchè il contenuto del decreto con il quale la domanda è stata accolta;

che, invero, “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa” (Cass. n. 1926 del 2015; Cass. n. 7825 del 2006);

che il primo motivo del ricorso principale è infondato;

che la Corte d’appello correttamente ha limitato la durata rilevante ai fini dell’applicazione della L. n. 89 del 2001 al solo periodo anteriore alla entrata in vigore della norma di interpretazione autentica, che ha chiarito la stretta connessione della indennità richiesta anche per il periodo di licenza all’effettivo svolgimento dell’attività propria della missione;

che tale intervento normativo, infatti, risulta idoneo a giustificare il venir meno del patema d’animo per la protrazione del giudizio per il periodo successivo, essendo del tutto scontato l’esito negativo in considerazione dell’intervento normativo;

che questa Corte ha già avuto modo di affermare che è legittimo il decreto con il quale la Corte d’appello individui un momento a decorrere dal quale – nella specie, per la reiezione della questione di legittimità costituzionale che avrebbe consentito di accogliere le pretese azionate nel giudizio di merito – non essendovi più alcuna possibilità di accoglimento della domanda deve escludersi che possa ritenersi sussistente un patema d’animo indennizzabile (Cass. n. 19478 del 2014);

che nel caso di specie la Corte d’appello, del tutto ragionevolmente, ha individuato tale momento nell’intervento di una norma di interpretazione autentica, il cui effetto non poteva essere altro che quello di impedire l’accoglimento di pretese avanzate in controversie proposte collettivamente dai partecipanti alla indicata missione;

che, d’altra parte, i ricorrenti non hanno neanche dedotto di avere contestato, nel giudizio di merito, la portata della disposizione di interpretazione autentica e la sua legittimità;

che anche il secondo motivo di ricorso è infondato; che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2010; Cass. n. 17922 del 2010);

che in una recente pronuncia (Cass. n. 18332 del 2015), questa Corte ha ritenuto che i principi affermati, alla luce anche delle indicazioni provenienti dalla Corte europea, debbano però essere integrati con gli ulteriori approdi della propria giurisprudenza, secondo cui “in tema di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, il giudice, nel determinare la quantificazione del danno non patrimoniale subito per ogni anno di ritardo, può scendere al di sotto del livello di “soglia minima” là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente, l’accoglimento della pretesa azionata renderebbe il risarcimento del danno non patrimoniale del tutto sproporzionato rispetto alla reale entità del pregiudizio sofferto” (Cass. n. 12937 del 2012);

che questa Corte, inoltre, dopo aver rilevato che, con riguardo alla liquidazione dell’indennizzo da irragionevole durata dei giudizi amministrativi, sulla base dei criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (decisioni Volta et autres c. Italia, del 16 marzo 2010 e Falco et autres c. Italia, del 6 aprile 2010), si era ritenuto (Cass., 18 giugno 2010, n. 14753; Cass., 10 febbraio 2011, n. 3271; Cass., 13 aprile 2012, n. 5914), che fosse possibile liquidare un indennizzo pari a 500,00 euro per anno di ritardo, ha ulteriormente affermato che, per l’indicata tipologia di giudizi, il criterio di 500,00 euro per anno costituisce l’adeguato indennizzo per la violazione della ragionevole durata del processo e che da esso il giudice del merito possa discostarsi con adeguata motivazione, evidenziando le specificità del caso, con riguardo sia alla natura e alla rilevanza dell’oggetto del giudizio, sia al comportamento processuale delle parti (Cass. n. 20617 del 2014; Cass. n. 20862 del 2014; Cass. n. 5912 del 2015);

che nella citata decisione n. 18332 del 2015 si è quindi chiarito che, con particolare riguardo ai giudizi amministrativi, il concorso degli indici riduttivi deve operare con riguardo alla soglia di 500,00 Euro che costituisce il criterio ordinario di liquidazione dell’indennizzo per tali controversie;

che, alla luce di tali principi, la esiguità della posta in gioco – e nel caso di specie non è in alcun modo contestata l’affermazione del decreto impugnato secondo cui la posta in gioco era modesta – ben può costituire ragione giustificatrice di una significativa riduzione degli ordinari criteri di liquidazione dell’indennizzo da irragionevole durata; così come ulteriore ragione di riduzione dell’indennizzo può essere desunta dalla condotta processuale delle parti e dalla natura collettiva della controversia;

che, nella specie, la Corte d’appello ha quindi apprezzato un complesso di indizi ragionevolmente valutati come sintomatici di un ridotto patema d’animo per il protrarsi del giudizio, non ha escluso il diritto all’indennizzo e lo ha riconosciuto in una misura che, con valutazione calibrata sulla specificità della controversia presupposta e tenuto conto del ridotto parametro annuale di liquidazione, ha ritenuto idonea ad assicurare un ristoro per il limitato pregiudizio;

che, dunque, il ricorso va rigettato;

che la reciproca soccombenza giustifica la compensazione integrale delle spese del giudizio di cassazione;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso incidentale; rigetta il ricorso principale; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 11 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2016

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