Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20630 del 13/10/2016


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Cassazione civile sez. III, 13/10/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 13/10/2016), n.20630

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9255/2014 proposto da:

S.T.G., S.E.E.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI DUE MACELLI 60, presso lo

studio dell’avvocato GABRIELE BORDONI, che li rappresenta e difende

giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

ALLIANZ SPA in persona del procuratore Dr. C.A.P.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio

dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ANTONIO SPADAFORA giusta procura speciale in

calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

G.F., P.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 401/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 08/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito l’Avvocato VITO DONATI per delega;

udito l’Avvocato GIORGIO SPADAFORA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il (OMISSIS) S.E. rimase vittima d’un sinistro stradale, mentre era trasportato su un veicolo condotto da G.F., di proprietà di P.F. ed assicurato dalla società RAS s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale, in Allianz s.p.a.; d’ora innanzi, per brevità, “la Allianz”).

In conseguenza del sinistro S.E. patì gravissime lesioni personali.

2. Per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti al sinistro sia S.E., sia la madre (Tedesco Giuseppina) ed il fratello della vittima ( S.A.), convennero dinanzi al Tribunale di Bologna G.F., P.F. e la Allianz.

Si costituirono tutti e tre i convenuti, contestando solo il quantum.

3. Il Tribunale di Bologna con sentenza 22.5.2009 n. 2581 liquidò il danno patito da S.E. in Euro 1.767.811; quello patito dalla di lui madre in Euro 192.381.

Di conseguenza, previa detrazione degli acconti già pagati prima della sentenza, condannò i convenuti in solido al pagamento in favore di S.E. della somma di Euro 72.456,09, e di T.G. della somma di Euro 67.381,35.

Ritenne, infine, già integralmente risarcito in corso di causa il danno patito da S.A..

4. La sentenza fu impugnata da T.G. ed S.E., i quali chiesero una più cospicua liquidazione del danno.

La Corte d’appello di Bologna con sentenza 8.4.2013 n. 401 accolse parzialmente l’appello. In particolare:

a) incrementò di Euro 85.984 la stima del danno per spese mediche e di cura, e condannò gli appellati al pagamento del relativo importo in favore solidalmente di T.G. ed S.E.;

b) rigettò l’appello nella parte in cui domandava:

-) l’esclusione del concorso di colpa della vittima per mancato uso delle cinture di sicurezza;

-) l’incremento della liquidazione del danno non patrimoniale;

-) l’incremento della liquidazione del danno da perdita della capacità di lavoro.

5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da S.E. e T.G. con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.

Ha resistito con controricorso la Allianz.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 2697 e 2909 c.c.); sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134). Deducono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che la vittima non avesse allacciato le cinture; soggiungono che comunque, anche se così fosse stato, la responsabilità dell’omissione andava comunque ascritta al conducente, per essersi messo in marcia senza pretendere dai passeggeri l’adozione di tale precauzione.

1.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di violazione di legge il motivo è infondato.

Stabilire se la vittima d’un fatto illecito abbia o meno concorso alla causazione del danno, infatti, è un tipico accertamento di fatto, non certo una valutazione in diritto. E nel caso di specie i ricorrenti censurano giustappunto il modo in cui il giudice di merito ha ricostruito la prova presuntiva. Censura inammissibile, poichè cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

1.3. Nella parte in cui sostiene che la colpa consistita nell’omesso uso delle cinture di sicurezza si sarebbe dovuta attribuire al conducente il motivo è tanto inammissibile quanto infondato:

– è inammissibile perchè la questione non risulta prospettata in precedenza (ovvero, il che ai fini dell’inammissibilità nulla cambia, i ricorrenti non indicano ex art. 366 c.p.c., n. 6, quando ed in che termini sollevarono la relativa questione);

– è infondato perchè la regola invocata dai ricorrenti è esattamente quella applicata dalla Corte d’appello, la quale ha reputato che l’omesso uso delle cinture abbia concausato il danno nella misura del 30%, e di tale percentuale ha attribuito la metà al conducente, e la metà (15%) al passeggero.

1.4. Nella parte, infine, in cui lamenta il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, il motivo è inammissibile, perchè non viene prospettato alcun “omesso esame di fatti decisivi”.

Vale la pena ricordare, al riguardo, che le Sezioni Unite di questa Corte, nel chiarire il senso del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito che per effetto della riforma “è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Nella motivazione della sentenza appena ricordata, inoltre, si precisa che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti”.

Alla luce di tale criterio è agevole rilevare che il “fatto storico” rappresentato dalla condotta del conducente e della vittima fu preso i esame dal giudice, e che quel di cui i ricorrenti si dolgono è in realtà il modo in cui il giudice ha valutato le prove e ricostruito i fatti: doglianza, per quanto detto, non ammissibile.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta:

-) sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

(lamentano, in particolare, la violazione degli artt. 2, 3, 13, 22, 27 e 32 Cost.; art. 2043, 2059 e 2909 c.c.; art. 112 e 132 c.p.c.; D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 138);

-) sia da un vizio di nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4;

-) sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134).

Il motivo, pur formalmente unitario, contiene in realtà sei doglianze (confusamente esposte ed incoerenti rispetto alla sua intitolazione), così riassumibili:

(a) il danno non patrimoniale patito da S.E. è stato sottostimato, perchè non si è tenuto conto della sua componente “dinamica”; del danno morale e del danno esistenziale;

(b) il danno non patrimoniale patito dalla madre della vittima è stato sottostimato;

(c) il danno per spese di assistenza infermieristica e cure future è stato sottostimato;

(d) il danno da perdita della capacità di lavoro è stato sottostimato;

(e) non è stato liquidato il danno da perdita di chance di successo professionale;

(f) la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sul motivo d’appello concernente i criteri di scomputo degli acconti pagati dalla Allianz prima della sentenza”.

3. Nella parte in cui lamenta la nullità processuale il motivo è manifestamente infondato. Lo stesso ricorrente, infatti, nella illustrazione del motivo non descrive alcun error in procedendo, ma solo in iudicando.

4. Nella parte in cui lamenta l’omesso esame d’un fatto decisivo il motivo è altrettanto inammissibile, per le ragioni già indicate al p. 1.4 che precede.

5. Nella parte in cui lamenta la violazione di ben 13 diverse disposizioni di legge (la maggior parte delle quali non pertinenti) il motivo è manifestamente infondato in ciascuna delle doglianze in cui si articola. Esse saranno esaminate, per maggior chiarezza, separatamente nei p.p. che seguono.

6. La censura sul danno non patrimoniale patito da S.E..

6.1. Con la prima censura del secondo motivo S.E. lamenta che la Corte d’appello avrebbe violato le regole legali di liquidazione del danno perchè non avrebbe proceduto alla c.d. “personalizzazione” del risarcimento, ovvero non avrebbe adattato la misura standard del risarcimento alle specificità del caso concreto. Specificità che, per il ricorrente, derivavano dalla grave invalidità patita dalla vittima (90% della complessiva validità dell’individuo), la quale aveva necessariamente provocato gravi pregiudizi definiti dal ricorrente “danno biologico dinamico” e “danno esistenziale”.

6.2. La censura è manifestamente infondata.

Prima di esaminarla nel merito, sarà bene ricordare alcuni principi basilari della materia, dai quali il ricorrente prescinde del tutto.

Primo: il danno non patrimoniale è una categoria unitaria ed omnicomprensiva. Non esistono pregiudizi non patrimoniali tra loro “ontologicamente” differenti; esiste in iure la categoria del danno non patrimoniale, ed in facto le singole forme concrete che esso può assumere (lesione dell’onore, della reputazione, del nome, della salute, e via dicendo).

Da ciò consegue che per stabilire se il giudice di merito abbia rispettato o meno i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale non si deve avere riguardo alle formule definitorie da lui usate (come “danno morale”, “danno biologico”, “danno alla vita di relazione”, e via dicendo), ma occorre esaminare quali siano stati i concreti pregiudizi dedotti dalla vittima e provati, e quali i pregiudizi dei quali il giudice ha tenuto conto nella operazione di monetizzazione.

Secondo: non è consentito chiamare pregiudizi identici con nomi diversi, per pretenderne una doppia valutazione e liquidazione.

Terzo: colui il quale lamenti in sede di legittimità una sottostima del danno non patrimoniale da parte del giudice di merito, ha l’onere di indicare chiaramente quali sono stati i concreti pregiudizi dedotti e provati, ma non esaminati dal giudice di merito.

6.3. Nel caso di specie, il Tribunale aveva liquidato il danno non patrimoniale patito da S.E.:

– quantificando coi consueti criteri l’invalidità permanente del 90%;

– accordando alla vittima una ulteriore somma, di poco inferiore alla prima, al fine di compensare la “sofferenza morale”.

Il ricorrente censura tale statuizione sulla base di due assunti:

(a) che il giudice non ha “personalizzato” il risarcimento;

(b) che la personalizzazione del risarcimento era dovuta a causa dell’elevato grado di invalidità permanente patito dalla vittima (90%).

Nessuna di queste censure è fondata.

6.4. In primo luogo, la Corte d’appello ha correttamente applicato il principio secondo cui la liquidazione del danno non patrimoniale derivato da una lesione della salute si articola in due fasi: la prima consistente nell’individuazione di un parametro standard uguale per tutti, necessario per garantire parità di risarcimento a parità di danno; e la seconda consistente nell’adeguare la misura standard alle specificità del caso concreto, con variazioni qualitativa (ad es., liquidazione in forma di rendita piuttosto che in forma di capitale) o quantitative (aumentando o riducendo il valore standard).

Stabilire, poi, quale dovesse essere la misura del suddetto risarcimento (se 10, 100 o 1.000) non è questione prospettabile in questa sede, salvo il caso di iniquità manifesta, certamente non sussistente in un caso come quello di specie, nel quale alla vittima è stato accordato un risarcimento di quasi due milioni di Euro.

6.5. In secondo luogo, è giuridicamente erronea l’affermazione del ricorrente, secondo cui la misura standard del risarcimento del danno biologico debba essere dal giudice di merito aumentata sempre e comunque, per il solo fatto che l’invalidità causata dalle lesioni sia di grado elevato.

In rerum natura, il danno alla salute non consiste in un numero percentuale. Esso consiste invece nel complesso delle privazioni che la vittima dovrà subire nella vita quotidiana, lavorativa e sociale per effetto della menomazione.

Così, ad esempio, lo zoppicare è un danno biologico; la perduta possibilità di curare da sè la propria persona è un danno biologico, lo sfregio permanente del volto è un danno biologico.

E’ solo per convenzione, e per garantire un minimo di obiettività nella liquidazione del danno, che questi pregiudizi vengono quantificati in misura percentuale, ipotizzando per fictio iuris che sia pari a “100” la validità d’una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età della vittima.

Ciò vuol dire che la somma di denaro accordata alla vittima di lesioni personali a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente è necessariamente intesa a ristorare la perdita delle attività che quella menomazione necessariamente ha comportato per la vittima, ed avrebbe comportato comunque quale che fosse stata la persona che l’avesse subìta. Così, per fare un esempio: a chi riporti uno sfregio permanente del viso corrispondente ad una invalidità permanente del 10%, la liquidazione del danno biologico permanente non lascia spazio alcuno per la successiva liquidazione di un preteso “danno estetico”: in questo caso il danno biologico è il danno estetico, e la liquidazione dell’invalidità permanente ristorerà le conseguenze fisiche ordinariamente derivanti da quel tipo di postumi.

Allo stesso modo, alla vittima di una frattura d’anca guarita con coxartrosi non sarebbe possibile liquidare una somma di denaro a titolo di ristoro del danno biologico, ed una ulteriore somma di denaro a titolo di ristoro della “perduta possibilità di camminare”. Anche in questo caso la perduta possibilità di camminare è essa stessa il danno biologico, e ne costituisce per così dire – il contenuto (così, da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014, Rv. 633405).

Nel caso di specie, la vittima ha patito una invalidità permanente del 90%. Una invalidità di questo tipo incide ovviamente in modo pesante sulla vita di relazione della vittima.

Sicchè, quando la dottrina medico-legale elabora i propri baremes per la determinazione del grado di invalidità permanente, questa incidenza delle lesioni sulla vita di relazione è necessariamente ricompresa nel grado di invalidità permanente: diversamente opinando, non si comprenderebbe più quale dovrebbe essere il contenuto oggettivo della nozione di “danno biologico”.

Ovviamente, ben può accadere che nel singolo caso i postumi permanenti causati dalla lesione fisica provochino una più incisiva compromissione della vita di relazione della vittima, rispetto ai casi analoghi: ma tale circostanza deve da un lato entrare nel processo con le debite forme (e cioè essere tempestivamente allegata da chi la invoca); e dall’altro deve essere adeguatamente provata.

Nel caso di specie la difesa del ricorrente non ha indicato – al di là di stereotipe e per ciò solo irrilevanti formule di stile – per quale ragione le lesioni patite dallo sventurato S.E. abbiano provocato una compromissione della vita di relazione maggiore e più significativa di quella che le medesime lesioni avrebbero provocato in un’altra persona della stessa età, e che necessariamente vengono ristorate attraverso la monetizzazione del grado di invalidità permanente col criterio standard. Corretta dunque fu la decisione della Corte d’appello quanto al criterio di giudizio; nel merito essa non è qui sindacabile.

7. La censura sul danno non patrimoniale patito da T.G..

7.1. Con una seconda censura contenuta nel secondo motivo di ricorso T.G. lamenta la sottostima del danno non patrimoniale da lei patito in conseguenza della invalidità del figlio.

7.2. Il motivo è manifestamente inammissibile, in quanto non solo prospetta una quaestio facti, ma per di più argomentata con una tautologia: vi si sostiene infatti, in buona sostanza, che i 125.000 Euro liquidati dal Tribunale e confermati dalla Corte d’appello erano insufficienti, ed occorreva liquidare almeno 200.000 Euro.

8. La censura sul danno patrimoniale per assistenza infermieristica.

8.1. La terza censura contenuta nel secondo motivo di ricorso investe la stima del danno patrimoniale futuro per le spese di assistenza e cura.

8.2. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

I ricorrenti infatti deducono (pp. 18-19 del ricorso) che S.E. ha bisogno di assistenza giornaliera per almeno sei ore; che ha bisogno di visite periodiche di controllo, di terapie riabilitative e di farmaci. E quantificano i costi di ciascuna di tali attività.

Ma una censura così concepita non mette in condizione questa Corte di valutare se la sentenza impugnata sia corretta o meno. I ricorrenti, infatti si limitano a riproporre a questa Corte mere circostanze di fatto, come se spettasse al giudice di legittimità decidere del quantum debeatur.

La corretta formulazione del motivo di ricorso avrebbe richiesto che i ricorrenti deducessero:

-) in che termini formularono nel merito la domanda di risarcimento del danno per le spesse di cura ed assistenza future;

-) con quali prove ne dimostrarono l’esistenza;

-) quando tali prove furono acquisite;

-) perchè dovesse ritenersi erronea la scelta del giudice di trascurare tali prove.

Questi sono i precetti imposti dall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

Nel caso di specie pertanto i ricorrenti, limitandosi a dedurre che “il danno patito dall’attore è “X”, mentre la Corte ha liquidato “Y”, hanno formulato una censura inammissibile ai sensi delle norme appena ricordate.

8.3. Solo per completezza e per ricordare ai litiganti il dovere di probità processuale, va ancora soggiunto che in ogni caso la censura relativa alla sottostima delle spese future non risulta proposta nel giudizio d’appello (cfr. p. 4 della sentenza impugnata, ed ivi la trascrizione delle conclusioni delle parti), e dunque sarebbe comunque inammissibile perchè nuova.

9. La censura sul danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro di S.E..

9.1. Con una quarta censura S.E. lamenta che il Tribunale prima, e la Corte d’appello poi, hanno sottostimato il danno da perdita della capacità di lavoro.

Deduce che, essendo verosimile che S.E. avrebbe svolto l’attività di calciatore professionista se fosse rimasto sano, il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro si sarebbe dovuto liquidare ponendo a base del calcolo non le metà del presumibile ingaggio d’un calciatore militante in una squadra di “serie A”, come fatto dal giudice di merito, ma l’intero ingaggio.

9.2. Il motivo è manifestamente inammissibile.

Anch’esso infatti, come buona parte delle censure già esaminate, sollecita da questa Corte una nuova e diversa valutazione dei fatti rispetto a quella compiuta dalla Corte d’appello.

Esso è in ogni caso infondato, perchè il criterio seguito dal Tribunale (e poi dalla Corte d’appello) non fu affatto scorretto. La vittima era un promettente calciatore, ma aveva 15 anni; il Tribunale ha dunque liquidato il danno ponendo a base del calcolo la metà del reddito di un calciatore di “serie A”: ciò sull’evidente presupposto (ancorchè non esplicitato) che se fosse rimasta sana, la vittima avrebbe raggiunto quel livello di reddito non immediatamente, ma solo dopo un certo numero di anni. Quindi anzichè calcolare il danno su redditi crescenti (ad es., 100 il primo anno, 120 il secondo, e così via), l’ha calcolato su un valore medio. E questa è una puntuale applicazione dell’art. 1226 c.c..

10. La censura sul danno patrimoniale da perdita della chance di successo lavorativo.

10.1. Con una quinta censura del secondo motivo di ricorso, il ricorrente S.E. lamenta che la Corte d’appello non avrebbe liquidato il danno da perdita di chance di successo professionale.

10.2. Il motivo è manifestamente infondato.

Un danno da perdita di chance è ovviamente alternativo rispetto al danno da lucro cessante futuro da perdita del reddito. Se c’è l’uno non può esserci l’altro, e viceversa.

Delle due, infatti l’una: o la vittima dimostra di avere perduto un reddito che verosimilmente avrebbe realizzato, ed allora la spetterà il risarcimento del lucro cessante; ovvero la vittima non dà quella prova, ed allora le può spettare il risarcimento del danno da perdita di chance.

Nel nostro caso il Tribunale ha liquidato alla vittima il risarcimento del danno patrimoniale da perdita dei redditi futuri, e dunque correttamente non ha preso in esame l’ipotesi della perdita di chance. Se si sommasse questo risarcimento a quello da lucro cessante si realizzerebbe una duplicazione risarcitoria, e la vittima verrebbe addirittura a trovarsi in una situazione patrimonialmente più favorevole di quella in cui si sarebbe trovata se fosse rimasta sana.

11. La censura concernente i criteri di scomputo degli acconti

11.1. Con una sesta censura i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello avrebbe erroneamente compiuto le operazioni di detrazione, dal risarcimento complessivamente dovuto, degli acconti pagati dalla Allianz in corso di causa.

11.2. La censura è inammissibile per difetto di interesse, ai sensi dell’art. 100 c.p.c..

I ricorrenti infatti non indicano nè il criterio di scomputo adottato dal Tribunale, nè il diverso criterio che si sarebbe dovuto adottare. In questo modo non è possibile stabilire se essi abbiano un interesse concreto ed attuale a far valere l’omessa pronuncia su tale questione.

12. Le spese.

12.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno a poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

12.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).

PQM

la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c.:

(-) rigetta il ricorso;

-) condanna S.E. e T.G., in solido, alla rifusione in favore di Allianz s.p.a. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 5.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di S.E. e T.G., in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2016

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