Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 22323 del 03/11/2016


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Cassazione civile sez. lav., 03/11/2016, (ud. 15/09/2016, dep. 03/11/2016), n.22323

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10759-2014 proposto da:

CENTRO SERVIZI AL VOLONTARIATO “DEI DUE MARI” di Reggio Calabria P.I.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PINCIANA 25, presso lo studio

dell’avvocato CRISTIANO CHIOFALO, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUSEPPE CHIOFALO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE N. 154, presso lo studio dell’avvocato

ERMINIA MARIA DEL MEDICO, rappresentato e difeso dall’avvocato

VITTORIO MILARDI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 154/2013 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 04/02/2013 R.G.N. 1038/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/09/2016 dal Consigliere Dott. VENUTI PIETRO;

udito l’Avvocato CHIOFALO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato DEL MEDICO ERMINIA MARIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO PAOLA che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Reggio Calabria ex art. 700 c.p.c., depositato in data 25 novembre 2009, I.G., dipendente del Centro Servizi al Volontariato dei “Due Mari” di Reggio Calabria esponeva che, nonostante la professionalità manifestata nel corso del rapporto, i vertici del Centro avevano posto in essere nei suoi confronti, a far data dal mese di (OMISSIS), una vera e propria attività persecutoria.

In particolare, con nota del 31 ottobre 2008, il Presidente della struttura, pur mantenendo in capo allo I. la qualifica di quadro, lo aveva demansionato, spogliandolo di fatto delle funzioni di direttore del Centro, con un’attività preordinata e dolosa e con mortificazione della sua personalità.

Chiedeva pertanto il ricorrente dichiararsi nullo il predetto provvedimento in quanto adottato per motivi illeciti e la reintegrazione nel suo precedente posto di lavoro.

Il giudice adito, con ordinanza depositata in data 8 gennaio 2010, accoglieva il ricorso, ordinando al datore di lavoro di assegnare nuovamente al ricorrente la qualifica e le mansioni di direttore del Centro ovvero di assegnargli diverse e concrete mansioni confacenti al profilo e alla professionalità raggiunta di quadro direttivo.

Con nota in data 29 gennaio 2010 il suddetto dipendente veniva licenziato “per ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa”, con la precisazione che l’organico della struttura prevedeva un’unica figura di quadro che si identificava con il direttore del Centro, il quale era stato nominato con provvedimento del Consiglio Direttivo del 30 ottobre 2008.

Con ricorso al Tribunale di Reggio Calabria I.G. chiedeva dichiararsi nullo il licenziamento per illiceità dei motivi, essendo il provvedimento espulsivo fondato su ragioni ritorsive.

Il giudice adito, con sentenza in data 8 aprile 2011, escludendo il carattere ritorsivo del recesso, dichiarava illegittimo il licenziamento perchè privo di giustificato motivo oggettivo e condannava il datore di lavoro a riassumere il ricorrente entro tre giorni o, in alternativa, a risarcirgli il danno versandogli una indennità pari a sei mensilità di retribuzione.

Proponeva impugnazione il dipendente, insistendo nella richiesta di declaratoria di nullità del licenziamento perchè ritorsivo e chiedendo l’applicazione della tutela reale.

Con sentenza depositata il 4 febbraio 2014 la Corte d’appello di Reggio Calabria accoglieva il gravame e, dichiarato nullo il licenziamento in quanto ritorsivo, condannava il Centro appellato a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, con conseguente corresponsione delle retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegra.

Contro questa sentenza ricorre per cassazione il Centro anzidetto sulla base di un solo motivo. Resiste il dipendente con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo il Centro ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1324 e 1345 c.c., e art. 1418 c.c., comma 2, nonchè contraddittoria ed illogica motivazione su un punto decisivo della controversia.

Deduce che la sentenza impugnata è errata per avere applicato una semplice equazione matematica: poichè il giudice di primo grado ha dichiarato illegittimo il licenziamento e sul punto non è stato proposto appello incidentale da parte del datore di lavoro, tanto bastava per ritenere che il provvedimento espulsivo fosse sorretto da ragioni di carattere ritorsivo.

Ma, aggiunge il ricorrente, a parte il fatto che un intento vendicativo non è ipotizzabile quando, come nella specie, il provvedimento espulsivo è stato disposto a seguito di una delibera collegiale adottata da quindici persone, affinchè ricorra l’ipotesi del licenziamento ritorsivo occorre che tale motivo sia stato l’unico a determinare il recesso e che la ragione discriminatoria o ritorsiva o l’intento di rappresaglia vengano concretamente dimostrati dal dipendente, anche con presunzioni.

Nella fattispecie in esame la Corte di merito non si è soffermata a valutare le effettive motivazioni che hanno sorretto il licenziamento, ma ha ritenuto, con motivazione abnorme, che l’accertata illegittimità del recesso consentisse, in via presuntiva, “di individuare l’intento di rappresaglia celato dietro motivazioni fittizie”, senza compiere un’analisi approfondita degli aspetti rilevanti di tutta la vicenda. Tale analisi, prosegue il ricorrente, non è preclusa in questa sede, trattandosi di sindacato sulla ripartizione dell’onere probatorio e sull’interpretazione di norme c.d. elastiche.

2. Il ricorso non è fondato.

Il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, dall’art. 15 St. lav. e dalla L. n. 108 del 1990, art. 3 è suscettibile – in base all’art. 3 Cost. e sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997 – di interpretazione estensiva, sicchè l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, ossia dell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo (Cass. 3 dicembre 2015 n. 24648; Cass. 8 agosto 2011 n. 17087; Cass. 18 marzo 2011 n. 6282).

Nel caso di ricorso alla prova presuntiva resta, peraltro, riservata all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito la sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge, con valutazione sindacabile in sede di legittimità solo quanto alla congruenza della relativa motivazione, con la precisazione che, per aversi una presunzione giuridicamente valida, non occorre che tra il fatto noto e il fatto ignoto sussista una relazione avente carattere di assoluta ed esclusiva necessità, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità.

Nella specie la Corte di merito ha ritenuto ritorsivo il licenziamento non solo perchè il giudice di primo grado ha escluso la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, ma anche perchè, come accertato dal Tribunale con sentenza passata in giudicato, era stata dedotta a giustificazione del licenziamento una circostanza non vera, e cioè che all’interno del Centro vi fosse un’unica figura di quadro direttivo, costituita dal direttore, circostanza questa non vera, atteso che l’odierno ricorrente, con lettera del (OMISSIS), facente seguito alla delibera del Consiglio direttivo del giorno precedente, venne invitato a prestare servizio all’interno della struttura mantenendo la qualifica di quadro direttivo e la medesima posizione economica.

Ed ha aggiunto che il provvedimento di recesso, una volta escluso il motivo formalmente comunicato, non poteva che essere correlato al contenzioso instaurato dal dipendente per il mantenimento della qualifica di quadro, affermazione questa condivisibile tenuto conto che l’ordinanza cautelare, con la quale è stato ordinato al Centro di assegnare allo I. la qualifica e le mansioni di direttore della struttura ovvero diverse mansioni confacenti al profilo e alla professionalità raggiunta di quadro direttivo, è stata emessa in data 8 gennaio 2010, mentre il licenziamento è stato disposto a distanza di circa venti giorni (29 gennaio 2010).

Trattasi di motivazione adeguata, coerente e priva di vizi logici e giuridici, che peraltro il ricorrente ha censurato inammissibilmente sotto il profilo del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non applicabile ratione temporis (la sentenza impugnata è stata depositata il 4 febbraio 2014), essendo ora consentito il ricorso per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, e cioè, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 8053/14), per l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Di conseguenza, sempre secondo le Sezioni Unite, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, elementi tutti che il ricorrente ha omesso di precisare.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Il ricorrente è tenuto al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2016

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