Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 132 del 05/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 05/01/2017, (ud. 17/06/2016, dep.05/01/2017),  n. 132

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27553-2011 proposto da:

P.G., (OMISSIS), domiciliato ex lege in ROMA, Piazza

Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentato e difeso, dagli avvocati GIOVANNI NICOLA NESE e ALDO

NESE, come da procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.M., domiciliato in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 58,

presso lo studio dell’avvocato CARLA PETRARCA, rappresentato e

difeso dall’avvocato DAMIANO PALO, come da procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrenti –

nonchè contro

R.P., R.C., RO.PI.,

P.T., P.V.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 792/2010 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 20/09/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/06/2016 dal Consigliere Parziale Ippolisto;

udito l’Avvocato Carla Petracca, che si riporta agli atti e alle

conclusioni assunte;

udito il sostituto procuratore generale, Dott. Del Core Sergio, che

conclude per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso proposto in data 17 maggio 1990 presso la Pretura di Eboli, R.M. e Ro.Ca., premesso di essere proprietari e possessori dell’immobile sito in (OMISSIS) alla part. (OMISSIS) e che, a seguito degli eventi sismici del (OMISSIS), i proprietari confinanti P.G. e P.V. avevano provveduto alla ricostruzione del proprio immobile, collocandolo a mt. 2,50 dal confine, prevedendo, invece, il locale regolamento la distanza minima di mt. 5; che, inoltre, i P. avevano illegittimamente aperto n. 4 finestre – due per piano – nonchè una porta di accesso al piano terra che affacciavano direttamente sulla proprietà di essi ricorrenti. Ciò posto, chiedevano il ripristino dello stato dei luoghi e l’eliminazione di tutte le vedute, con risarcimento danni e vittoria di spese.

2. Si costituivano P.G. e P.V. contestando le domande.

3. Disposta consulenza tecnica d’ufficio e assunti testi, il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 2715/2002, previa qualificazione della domanda quale negatoria servitutis, rilevava il difetto di legittimazione passiva del P.V., nonchè il difetto di legittimazione attiva di Ro.Ca., non risultando proprietario dell’immobile in questione. Quanto al merito, rilevato che dopo la ricostruzione in sito, l’immobile del P. risultava arretrato a mt 2,50 dal confine con la proprietà R., a distanza inferiore a quella regolamentare di mt 5, e che le menzionate 4 finestre con la relativa porta di accesso al fabbricato erano tutte prospicienti l’antistante proprietà, condannava il convenuto P.G. all’arretramento delle indicate nuove opere conformemente alle vigenti norme regolamentari.

4. Appellava P.G., rilevando, quanto alle distanze tra edifici, la legittimità dell’intervento edilizio perchè conforme al relativo progetto, approvato dalla locale commissione tecnica e finanziato ai sensi della L. n. 219 del 1981. La ricostruzione in sito del preesistente fabbricato, ai sensi della legge richiamata, precludeva l’applicazione dei vigenti regolamenti urbanistici. Quanto alle vedute, rilevava che solo una risultava effettivamente in contestazione, risultando l’altra pacificamente preesistente.

L’appellante rilevava poi l’erronea valutazione delle emergenze istruttorie, atteso che: a) il fabbricato, a differenza di quanto allegato in sentenza, risultava conforme al progetto approvato; b) il fabbricato non era stato arretrato rispetto alla situazione preesistente, perchè, per garantire una maggiore amenità dei luoghi, anche nell’interesse della controparte, era stato solo eliminato un preesistente più piccolo corpo di fabbrica a muro cieco dell’altezza di mt 2, posto sul confine, innanzi il principale corpo fabbrica ricostruito. Rilevava poi l’incongruenza della condanna a suo danno irrogata atteso che la eliminazione delle vedute poteva essere garantita dal ripristino del muro cieco a confine ovvero dalla integrale eliminazione delle stesse aperture ovvero dalla loro riduzione a luci.

5. Ro.Pi., R.P., R.C., R. e P.T., nella qualità di eredi di Ro.Ca., nonchè R.M., anche in proprio, contestavano le deduzioni avversarie e spiegavano appello incidentale.

6. La Corte di Appello di Salerno, espletata nuova CTU, con sentenza del 20 settembre 2010, per quanto ancora interessa in questa sede, rilevava, quanto alla servitù di veduta, che si controverteva sulla esistenza di due sole finestre direttamente prospicienti sulla proprietà R., risultando le altre tutte preesistenti. Affermava che il fabbricato era stato oggetto di integrale ricostruzione ma con sagoma parzialmente diversa da quella originaria. Di qui la necessità di rispettare la distanza minima di mt. 5 dal confine secondo il regolamento locale.

8. – Per la cassazione della sentenza d’appello ha proposto ricorso P.G., sulla base di un unico motivo. R.M. ha resistito con controricorso. R.P., R.C., Ro.Pi., P.T. e P.V., pur regolarmente intimati, non hanno svolto attività in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso si censurano, cumulativamente, l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonchè la violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Si invoca la L. 14 maggio 1981, n. 219, che renderebbe legittima la costruzione, così come effettuata. Nè si può interpretare l’arretramento come una rinuncia a volersi avvalare delle “prerogative” della L. n. 219 del 1981. Parte ricorrente lamenta l’applicazione, ritenuta erronea, del regolamento locale sulle distanze che impone una distanza minima di 5 metri dal confine, in quanto il regolamento in questione “era in vigore al momento della costruzione”, posto che “il piano di fabbricazione nelle norme di attuazione, all’art. 20” consente “la costruzione a confine”. Sostiene il ricorrente che se la nonna consente la costruzione sul confine a maggior ragione “deve ritenersi possibile autorizzare costruzioni poste in prossimità del confine”. Osserva, inoltre, che la sentenza di primo grado aveva qualificato l’azione proposta come “negatoria servitutis” e sulla base di tale qualificazione aveva condannato ad arretrare l’intero immobile “non per rispettare la distanza dal confine, ma per eliminare una servitù di veduta”. La Corte di appello aveva confermato tale statuizione non sulla base dell’illegittima costituzione della servitù, ma “proprio sull’assunto del mancato rispetto delle distane dal confine, operando una indebita ed immotivata assimilazione tra servitù di veduta e distana dal confine”.

2. Il ricorso è infondato e va rigettato.

Le doglianze possono essere trattate congiuntamente. Come già osservato dalla Corte di appello il richiamo che il ricorrente fa alla L. 14 maggio 1981, n. 219, in tesi più favorevole rispetto agli strumenti urbanistici locali, è del tutto generico. Il piano di fabbricazione del Comune è anteriore alla ricostruzione (piano di fabbricazione adottato con D.C. 18 novembre 1978, n. 65, ed approvato in data 03.10.1980). Il piano prevede esplicitamente la necessità di rispettare, in caso di ricostruzione, i 5 metri dal confine. Corretta è la decisione impugnata che ha ritenuto che, avendo l’odierno ricorrente ricostruito non collocandosi sul confine, ha così evidentemente rinunciato a collocarsi su detto confine, con la conseguente necessità di rispettare la distanza prevista dalla locale normativa. Inoltre, in fatto è stato accertato che non vi è coincidenza delle sagome del vecchio e del nuovo fabbricato. Il giudice di primo grado, infine, non ha qualificato la domanda come negatoria servitutis, ma anzi a pag. 5 (in fondo) espressamente definisce fondata la domanda sia se qualificata come tale (negatoria servitutis) sia se valutata come richiesta di arretramento, tanto da condannare il convenuto, nel dispositivo, all’arretramento alla distanza di legge.

3. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.000,00 (duemila) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2017

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