Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 569 del 10/01/2013


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 569 Anno 2013
Presidente: SALME’ GIUSEPPE
Relatore: DI PALMA SALVATORE

SENTENZA
sul ricorso 19529 2010 proposto da:

FELDI

FRANCESCO

FLDFNC49R04F839L,

elettivamente

domiciliato In ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE,
rappresentato e difeso dall’avv. LUCIANO CALOJA,
giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro

2012
5717

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE 80415740580 in
persona

del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA

elettivamente

DEI PORTOGHESI

12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta

Data pubblicazione: 10/01/2013

e difende, ape legis;
– controricorrente –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 2290/09 della
CORTE D’APPELLO di NAPOLI del 16.3.2010, depositato il
21/04/2010;

udienza del 18/09/2012 dal Consigliere Relatore Dott.
SALVATORE DI PALMA.
E’ presente il Procuratore Generale in persona del
Dott. UMBERTO APICE che ha concluso per raccoglimento
del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

Equa riparazione

R.g. n. 19529/10 — U. P. 18 settembre 2012

Ritenuto che Francesco Feldi, con ricorso del 24 luglio 2010, ha impugnato per cassazione —
deducendo due motivi di censura —, nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze, il
decreto della Corte d’Appello di Napoli, depositato in data 21 aprile 2010, con il quale la Corte
d’appello, pronunciando sul ricorso del Feldi — vòlto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non
patrimoniali ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 —, in contraddittorio
con il Ministro dell’economia e delle finanze — il quale ha concluso per l’inammissibilità o per
l’infondatezza del ricorso — ha condannato il resistente a pagare al ricorrente, a titolo di equa
riparazione, la somma di C 2.000,00;
che resiste, con controricorso, il Ministro dell’economia e delle finanze;
che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale — richiesto nella
misura di € 8.000,00 per l’irragionevole durata del processo presupposto — proposta con ricorso del
21 aprile 2009, era fondata sui seguenti fatti: a) il Feldi, asseritamente titolare del diritto a
differenze retributive, aveva promosso — con ricorso del 13 ottobre 2000 — causa dinanzi al
Tribunale amministrativo regionale per la Campania; b) la Corte adita aveva deciso la causa con
sentenza del 14 novembre 2007;
che la Corte d’Appello di Napoli, per quanto in questa sede ancora rileva — dopo aver
determinato in sette anni e un mese circa la durata complessiva del processo ed aver ritenuto che il
periodo di ragionevole durata non poteva eccedere i tre anni — ha conseguentemente determinato la
durata irragionevole del processo in quattro anni, liquidando l’indennizzo di € 2.000,00 sulla base
del parametro di € 1.000,00 annui, così ridotto in ragione del fatto che il ricorrente, pur avendo
presentato due istanze di fissazione dell’udienza nel 2001 e nel 2005, non ha adottato alcuna
iniziativa diretta a rappresentare l’urgenza o l’esigenza di una sollecita definizione del processo
presupposto.

Considerato che, con i due motivi di censura, viene denunciata dal ricorrente come illegittima,
anche sotto il profilo dei vizi di motivazione, l’eccessiva riduzione dell’indennizzo non
corrispondente ai parametri usualmente riconosciuti dalla Corte EDU;
che il ricorso merita accoglimento;
che questa Corte ha già più volte affermato i principi secondo cui, in tema di equa riparazione
ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un
termine ragionevole, di cui all’art. 6, paragrafo I, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice
amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento,
senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o
slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa,
secondo cui l’innovazione, introdotta dall’art. 54, comma 2, del di. 25 giugno 2008, n. 112,
convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133 (per il
quale la domanda non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo, in cui si

Sentenza

che, sempre in conformità con tale orientamento, è stato ulteriormente precisato che
l’innovazione introdotta dal citato art. 54, comma 2, del di. n. 112 del 2008 è inapplicabile — in
difetto di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie ed in ossequio al principio
tempus regit actum — a quei procedimenti di equa riparazione aventi ad oggetto un giudizio
amministrativo introdotto prima dell’entrata in vigore della predetta normativa (cfr., ex plurimis,
l’ordinanza n. 115 del 2011);
che tale orientamento giurisprudenziale ha ottenuto sostanziale avallo dalla Corte EDU
(decisione 2 giugno 2009, Daddi contro Italia) la quale, con due recenti decisioni (del 16 marzo
2010, Volta et autres contro Italia, e del 6 aprile 2010, Falco et autres contro Italia), ha ritenuto che
potessero essere liquidate, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata
del processo, in relazione ai singoli casi ed alle loro peculiarità, somme complessive d’importo
notevolmente inferiore a quella di mille curo annue normalmente liquidate, con valutazione di detto
danno che consentono al giudice italiano di procedere, in relazione alle particolarità della
fattispecie, a liquidazioni dell’indennizzo più riduttive rispetto a quelle precedentemente ritenute
congrue (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 14753 del 2010 cit. e 1359 del 2011);
che, inoltre ed in particolare, questa Corte ha affermato il principio per il quale, in tema di equa
riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, l’istituto della perenzione
decennale dei ricorsi, introdotto dall’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n. 205 — nel testo, applicabile
ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui all’art. 54 del d.l. n. 112 del 2008, convertito in
legge dall’art. 1, comma 1, della legge n. 133 del 2008 — non si traduce in una presunzione di
disinteresse per la decisione di merito al decorrere di un tempo definito dopo che la domanda sia
stata proposta, ma comporta soltanto la necessità che le parti siano messe in condizione, tramite
apposito avviso, di soffermarsi sull’attualità dell’interesse alla decisione e di manifestarlo, con la
conseguenza che la mancata presentazione dell’istanza di fissazione, rendendo esplicito l’attuale
disinteresse per la decisione di merito, giustifica l’esclusione della sussistenza del danno per la
protrazione ultradecennale del giudizio, ma non impedisce una valorizzazione dell’atteggiamento
tenuto dalle parti nel periodo precedente, quale sintomo di un interesse per la decisione mano a
mano decrescente, e quindi come base per una decrescente valutazione del danno e del relativo
risarcimento (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 6619 del 2010 e 3271 del 2011);
che, ancora, è stato precisato che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del
processo amministrativo, la proponibilità della relativa domanda avanti alla corte d’appello esige
che nel giudizio presupposto, in cui si assume essersi verificata la violazione dell’art. 2, comma 1,
della legge n. 89 del 2001, sia stata presentata l’istanza di prelievo, ai sensi del citato art. 54,
2

assume essersi verificata la violazione, non sia stata presentata l’istanza di prelievo ai sensi dell’art.
51 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642), non può incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti,
in mancanza di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie, restano regolati, secondo
il fondamentale principio tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperi() siano stati posti in
essere, e secondo cui — tuttavia — la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo può
incidere, entro i limiti dell’equità, sulla determinazione dell’entità dell’indennizzo, con riferimento
all’art. 2056 cod. civ., richiamato dall’art. 2 della legge n. 89 del 2001 (cfr., ex plurimis, le sentenze
nn. 28507 del 2005, pronunciata a sezioni unite, 24901 del 2008, 14753 del 2010, nonché
l’ordinanza n. 5317 del 2011);

che infine, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in caso di violazione del
termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge
n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano
risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata del
processo i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte,
ciò ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia
artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della
fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza,
nei quali casi l’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata
puntualmente dall’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la
domanda della parte — come nella specie — sia stata dichiarata manifestamente infondata (cfr., ex
plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 9938 del 2010, 25595 del 2008, 21088 del 2005; cfr., altresì,
le sentenze nn. 18780 del 2010 e 10500 del 2011);
che, nella specie, i Giudici a quibus, in violazione di tutti tali principi, hanno sostanzialmente —
ed erroneamente — fondato la decisione sia sull’erronea interpretazione della ratio dell’art. 54,
comma 2, del d. l. n. 112 del 2008, sia sull’esito di inammissibilità del giudizio presupposto,
cadendo inoltre in contraddizione laddove, da un lato, affermano che erano state presentate ben due
istanze di fissazione dell’udienza e, dall’altro, applicano la riduzione dell’indennizzo prevista per i
casi di mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo;
che, pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alla censura accolta;
che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito,
ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ.;
che il processo presupposto de quo ha avuto una durata complessiva di sette anni ed un mese
circa (dal 13 ottobre 2000, data del ricorso introduttivo del processo presupposto, al 14 novembre
2007, data del deposito della sentenza del T.a.r.), sicché, detratti tre anni di ragionevole durata, il
periodo indennizzabile ammonta a quattro anni ed un mese circa;
che questa Corte, sussistendo il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui
all’art. 2 della legge n. 89 del 2001, considera equo, in linea di massima, l’indennizzo di € 750,00
per i primi tre anni di irragionevole durata e di C 1.000,00 per ciascuno degli anni successivi;

3

comma 2, del d.l. n. 112 del 2008 e secondo le modalità dell’art. 51, secondo comma, del r.d. 17
agosto 1907, n. 642, ancorché tale atto e l’eventuale istanza di fissazione d’udienza ai sensi dell’art.
9, comma 2, della legge n. 205 del 2000 siano privi della sottoscrizione personale della parte,
mancando una specifica deroga al principio generale, per il quale gli atti processuali di parte sono
posti in essere direttamente dal difensore costituito con rituale procura, e nonostante la norma da
ultimo citata preveda che la predetta istanza debba essere sottoscritta dalla parte personalmente,
pena l’improcedibilità di quel giudizio, in quanto la violazione della norma in parola non può
determinare anche effetti procedurali negativi sul diverso giudizio di equa riparazione promosso
dalla parte avanti alla corte d’appello, cui non spetta stabilire se il giudizio presupposto dovesse
essere dichiarato improcedibile (cfr. l’ordinanza n. 25832 del 2010);

che, nella specie, sulla base dei criteri adottati da questa Corte e dianzi richiamati il diritto
all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001, va
determinato in € 3.350,00 per i quattro anni ed un mese circa di irragionevole durata, oltre gli
interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo;
che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente
liquidate;

che in particolare, ai fini della liquidazione delle spese processuali, il processo camerale per
l’equa riparazione del diritto alla ragionevole durata del processo va considerato quale
procedimento avente natura contenziosa, né rientra tra quelli speciali di cui alla tabelle A) e B)
allegate al citato Decreto del Ministro della giustizia 8 aprile 2004, n. 127 (rispettivamente voce 50,
paragrafo 7 e voce 75, paragrafo 3), per tali dovendo intendersi, ai sensi dell’art. 11 della tariffa
allegata a detto decreto ministeriale, i procedimenti in camera di consiglio ed in genere i
procedimenti non contenziosi (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 25352 del 2008);
che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente
liquidate — sulla base delle tabelle A, paragrafo IV, e B, paragrafo I, allegate al Decreto del Ministro
della giustizia 8 aprile 2004, n. 127, relative ai procedimenti contenziosi — in complessivi E 873,00,
di cui C 50,00 per esborsi, C 378,00 per diritti ed € 445,00 per onorari, oltre alle spese generali ed
agli accessori come per legge;
che le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel
dispositivo;
che, a tal fine, rileva invece il D.m. (Giustizia) 20 luglio 2012, n. 140, giacché il suo art. 41
prevede che «Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla
sua entrata in vigore» (cioè al 23 agosto 2012, giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale, come stabilito dall’art. 42 dello stesso decreto), armonizzandosi con la norma, di rango
legislativo, di cui all’art. 9, comma 3, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, secondo la quale le «tariffe
vigenti alla data di entrata in vigore del presente continuano ad applicarsi, limitatamente alla
liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al
comma 2», cioè, segnatamente, del decreto del Ministero della giustizia che, nel caso di
liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, stabilisce i parametri per la determinazione del
compenso del professionista, ciò in quanto lo stesso art. 9 del citato d.l. n. 1 del 2012 ha abrogato
tutte «le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico» (comma 1), nonché «le
disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alla tariffe
di cui al comma I» (comma 5);
che pertanto, tenuto conto della tabella A — Avvocati, richiamata dall’art. 11 del citato D. m. n.
140 del 2012, del valore della controversia (pari ad 3.350,00) e, quindi, dello scaglione di
riferimento fino a euro 25.000,00 per i giudizi dinanzi alla Corte di cassazione, nonché applicata (in
ragione della minima complessità della controversia, alla stregua della ponderazione richiesta
4

che a tal fine rileva, per le spese del giudizio di merito, la disciplina del D. m. (Giustizia) 8
aprile 2004, n. 127;

dall’art. 4 dello stesso D. m.) la diminuzione massima indicata all’interno di detto scaglione per
ciascuna fase e ridotto il compenso così risultante del 50% ai sensi dell’art. 9 del medesimo d.m. n.
140 del 2012, trattandosi di causa avente ad oggetto l’indennizzo da irragionevole durata del
processo, spetta ai ricorrenti la somma di euro 180,00 per la fase di studio, curo 112,50 per la fase
introduttiva, ed euro 213,25 per la fase decisoria e così complessivamente la somma di euro 505,75.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa
nel merito, condanna il Ministro dell’economia e delle finanze al pagamento, in favore del
ricorrente, della somma di C 3.350,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al
rimborso, in favore della parte ricorrente, delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di
merito, in complessivi 873,00, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, e, per il
giudizio di legittimità, in complessivi C 505,75, oltre agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile, il 18 settembre 2012
Il con igliere relatore ed estensore

P.Q.M.

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