Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10319 del 26/04/2017
Cassazione civile, sez. lav., 26/04/2017, (ud. 21/12/2016, dep.26/04/2017),n. 10319
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2841/2014 proposto da:
D.V.U., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA
CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,
rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA ROMANO, ELISA NICOLETTA
BERGONZINI, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
R.F. & C. S.N.C. P.I. (OMISSIS), in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato STEFANO DI MEO, che
la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIULIO CESARE
BONAZZI, giusta delega in atti;
COMMERCIAL UNION ITALIA SPA ora AVIVA ITALIA S.P.A. C.F. (OMISSIS),
in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio
dell’avvocato MAURIZIO ROMAGNOLI, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato LUIGI FORNACIARI, giusta delega in atti;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 129/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,
depositata il 22/03/2013 R.G.N. 130/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
21/12/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;
uditi gli Avvocati ANDREA ROMANO e ELISA NICOLETTA BERGONZINI;
udito l’Avvocato STEFANO DI MEO;
udito l’Avvocato FABRIZIO FORNACIARI per delega verbale Avvocato
LUIGI FORNACIARI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
MATERA Marcello, che ha concluso per: in via principale
inammissibilità, in subordine rigetto.
Fatto
Con sentenza 22 marzo 2013, la Corte d’appello di Bologna
rigettava l’appello proposto da D.V.U. avverso la sentenza
di primo grado, che ne aveva respinto la domanda risarcitoria nei
confronti della datrice R.F. & C. s.n.c. (nel
contraddittorio anche con la sua assicuratrice Commercial Union Italia,
ora Aviva Italia, s.p.a. da questa chiamata in giudizio per manleva), in
conseguenza di infortunio sul lavoro, per asserita violazione degli
obblighi di sicurezza prescritti dall’art. 2087 c.c..
In esito alle prove orali e alle C.t.u. medico-legale e
cinematica esperite, la Corte territoriale escludeva la ricorrenza di un
rischio elettivo, in assenza nel comportamento del lavoratore di
abnormità, nè di totale autonomia in ambito estraneo alle mansioni
affidate e neppure di una condotta, sia pure in esse rientrante, ma
ontologicamente lontana dalle scelte prevedibilmente ipotizzabili.
Essa non riconosceva tuttavia la dedotta responsabilità
datoriale, in difetto di specifica indicazione delle cautele
doverosamente adottabili per evitare l’infortunio: e ciò per la
ricostruzione della sua dinamica, non durante la fase di ribaltamento
della cabina dell’autocarro di cui commessagli la riparazione, da solo
in luogo esterno all’officina, ma durante la sua discesa dalla cabina di
guida e la chiusura della portiera, a cabina ribaltata e pertanto in
pendenza, con urto violento dello specchietto retrovisore al gomito e
alla spalla sinistra e conseguente lacerazione dei tessuti.
Con atto notificato il 20 dicembre 2013, D.V.U.
ricorre per cassazione con due motivi, cui resistono R.F.
& C. s.n.c. e Aviva Italia s.p.a. con distinti controricorsi.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3, per inversione dell’onere probatorio in materia di
responsabilità contrattuale, quale quella risarcitoria da infortunio sul
lavoro, per integrazione del contenuto del contratto di lavoro, a norma
dell’art. 1374 c.c., dall’obbligo di sicurezza prescritto a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 c.c.,
parte del sinallagma contrattuale: con la conseguente assoluzione,
verificatasi nel caso di specie (come anche accertato dalla Corte
territoriale), dell’onere a carico del lavoratore con la prova della
fonte (negoziale o legale) del suo diritto, del danno e della dipendenza
eziologica dal titolo dell’obbligazione e l’allegazione
dell’inadempimento datoriale, per la presunzione legale di colpa posta
dall’art. 1218 c.c..
Con il secondo, il ricorrente deduce vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, sulle decisive circostanze dell’affidamento a sè solo
della riparazione di un autocarro, comportante la necessitata salita e
discesa dalla cabina in stato di ribaltamento e così pure la chiusura, a
cabina ribaltata, di una portiera con sporgenze potenzialmente
taglienti, in assenza di protezioni o meccanismi di blocco: con
esposizione dal datore di lavoro del proprio dipendente a situazione di
potenziale pericolo, per le modalità di interventi cui il secondo è
stato costretto, senza alcuna misura protettiva, in ambiente esterno
all’officina di riparazione, non organizzato nè in alcun modo tutelato.
In via preliminare, deve essere esclusa la sussistenza dei denunciati vizi di nullità della notificazione del ricorso.
Essa è stata, infatti, tempestivamente e ritualmente eseguita
dall’avvocato difensore a mezzo del servizio postale a R.F.
& C. s.n.c., secondo la L. 21 gennaio 1994, n. 53, ai sensi dell’art. 3:
posto che l’originale del ricorso contiene la relazione di
notificazione redatta dal difensore, con l’espressa menzione
dell’ufficio postale per mezzo del quale è stata spedita la copia al
destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento, nonchè il
timbro di vidimazione del detto ufficio postale (Cass. 13 settembre 2006, n. 19577).
Non ricorre poi alcun vizio per la denunciata mancanza di ripetuta
sottoscrizione del difensore, essendo pienamente sufficiente quella in
calce alla relata di notificazione dell’atto ai due destinatari, in una
con il timbro di vidimazione dell’ufficio postale (in ogni caso
integrando mera irregolarità, in tema di notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 4,
addirittura il difetto nella relata delle generalità e della
sottoscrizione dell’avvocato notificante, la cui identificazione,
necessaria al fine di verificare la sussistenza dei requisiti soggettivi
indispensabili, può ben avvenire in base alla sottoscrizione, da parte
sua, dell’atto notificato e vidimato dal consiglio dell’ordine,
unitamente al richiamo al numero di registro cronologico e
all’autorizzazione del consiglio dell’ordine, immediatamente precedenti
la relazione di notifica e la firma della persona abilitata a ricevere
l’atto: Cass. 20 maggio 2015, n. 10272).
Neppure nei confronti di Aviva Italia s.p.a. sussiste alcun
vizio di notificazione, per la sua sollecita rinnovazione dal difensore
di propria iniziativa (il 14 gennaio 2014) a mezzo PEC al difensore
domiciliatario della suddetta società, questa volta correttamente
individuato anche nel nome ( E. in luogo di O.), oltre che
nell’indirizzo di studio, non appena ottenuta la restituzione del plico
per irreperibilità del destinatario (il 9 gennaio 2014), integrante
un’evidente nullità rimediabile con la rinnovazione della notificazione (Cass. s.u. 15 luglio 2016, n. 14594; Cass. s.u. 24 luglio 2009, n. 17352).
Nel merito, il primo motivo, relativo a violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., per inversione dell’onere
probatorio in materia di responsabilità contrattuale, quale quella
risarcitoria da infortunio sul lavoro, è fondato.
Secondo i principi regolanti la materia, il lavoratore che
agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale
del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l’onere di
provare il fatto costituente l’inadempimento e il nesso di causalità
materiale tra l’inadempimento e il danno; non anche la colpa del datore,
nei cui confronti opera la presunzione posta dall’art. 1218 c.c.,
il cui superamento comporta la prova dell’adozione di tutte le cautele
necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso,
ossia al tipo di operazione effettuata ed ai suoi rischi intrinseci,
potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle
misure di protezione individuale imposte dalla legge (Cass. 11 aprile
2013, n. 8855; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003).
E gli oneri a carico di ciascuna delle parti devono essere
diversamente modulati, a seconda che le misure di sicurezza omesse siano
espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte
ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di
rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c.,
che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo
caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate”, la
prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella
negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro
dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra
quest’ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di
sicurezza cosiddette “innominate”, la prova liberatoria a carico del
datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione
della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione
delle indicate misure di sicurezza: imponendosi di norma al datore di
lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che,
ancorchè non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata),
siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards
di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti
analoghe (Cass. 2 luglio 2014, n. 15082).
In particolare, gravano sul datore di lavoro puntuali obblighi
di informazione del lavoratore, al fine di evitare il rischio specifico
della lavorazione, insuscettibili di essere assolti mediante indicazioni
generiche, in quanto in tal modo la misura precauzionale non
risulterebbe adottata dal datore di lavoro, ma l’individuazione dei suoi
contenuti sarebbe inammissibilmente demandata al lavoratore (Cass. 6 ottobre 2016, n. 20051).
Il datore di lavoro è anzi sempre responsabile dell’infortunio
occorso al lavoratore, anche qualora sia ascrivibile non soltanto ad una
sua disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494).
Egli è totalmente esonerato da ogni responsabilità solo quando
il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità,
inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento
lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale
causa esclusiva dell’evento (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786):
così integrando il cd. “rischio elettivo”, ossia una condotta
personalissima del lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione
lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa
volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al
di fuori dell’attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale
idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività
assicurata (Cass. 5 settembre 2014, n. 18786).
Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale non ha
applicato correttamente gli enunciati principi di diritto. Pure avendo
escluso la ricorrenza di un rischio elettivo (dall’ultimo capoverso di
pg. 7 al primo di pg. 8 della sentenza), essa ha invertito l’onere
probatorio, attribuendo al lavoratore, che pure ha assolto il proprio
alla stregua dell’art. 1218 c.c.,
la mancata specificazione delle misure di sicurezza adottabili (dal
penultimo capoverso di pg. 8 al secondo di pg. 9 della sentenza) e
pertanto di quelle cautele obliteranti la colpa della società datrice,
del cui onere essa è onerata.
Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l’esame del secondo
motivo (vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
sull’esposizione dal datore di lavoro del proprio dipendente a
situazione lavorativa esterna all’ambiente di lavoro senza alcuna misura
protettiva), discende allora coerente l’accoglimento del ricorso, con
la cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte d’appello di
Firenze, che dovrà, oltre che provvedere alla regolazione delle spese
del giudizio di legittimità, valutare se il datore di lavoro abbia
adottato o meno tutte le misure di protezione esigibili, così da
escludere il caso fortuito.
PQM
LA CORTE
accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo;
cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e rinvia,
anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla
Corte d’appello di Firenze.
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2017