Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20207 del 21/08/2017


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Cassazione civile, sez. II, 21/08/2017, (ud. 16/03/2017, dep.21/08/2017),  n. 20207

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29860-2014 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FOGLIANO 4/A,

presso lo studio dell’avvocato MARCO TACCHI VENTURI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIMAVO 3,

presso lo studio dell’avvocato MAURO LIVI, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5857/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2017 dal Consigliere Dott. GRASSO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato TACCHI VENTURI Marco, difensore del ricorrente che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udito l’Avvocato LIVI Mauro,

difensore della resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO che ha concluso per il rigetto 1 motivo e

accoglimento 2 motivo del ricorso.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

Il 29/10/1976 M.S. e C.G., in regime di separazione personale, regolarono con scrittura privata la situazione relativa alla proprietà dell’intero immobile, che aveva costituito la casa coniugale, stabilendo che il terreno con annesso fabbricato era di proprietà comune in pari quota, e che sempre in pari quota le parti si obbligavano al mantenimento ed in generale alla ripartizione degli utili e degli oneri scaturenti dalla proprietà.

Il M., rilevato che la C. non aveva ottemperato agli impegni assunti, chiese il riconoscimento della comproprietà del terreno e dell’annesso-fabbricato.

Dopo il rigetto della domanda nel giudizio di primo grado, la Corte di appello di Roma con sentenza del 29.1.1985 dichiarò il M. proprietario, in ragione della metà, con il coniuge separato, del fondo e del sovrastante fabbricato.

Con atto di citazione notificato il 28.3.1985 il M., premesse le suddette circostanze, e premesso altresì che in data 14.3.1985 aveva ottenuto dal Presidente del Tribunale di Roma il sequestro conservativo degli immobili di proprietà della coniuge fino alla concorrenza di Lire 25.000.000, a garanzia dei crediti maturati per opere di manutenzione ordinaria, completamento e riparazioni dell’immobile, convenne in giudizio la C. dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo la convalida del sequestro e la condanna di costei al pagamento della somma di Lire 55 milioni per i titoli dedotti nel sequestro.

Con atto di citazione notificato il 10.8.1988 il M., premesso che, con la sentenza n. 9358/1987 di questa Corte la statuizione di merito (la sentenza d’appello del 29/1/1985) era stata cassata con rinvio e che la C. era stata riconosciuta esclusiva proprietaria del terreno con sovrastante fabbricato e che egli aveva ottenuto, il 30/7/1988, dal Presidente del Tribunale di Roma sequestro conservativo sui beni di proprietà della predetta fino alla concorrenza di lire 200 milioni, a garanzia dei crediti maturati a titolo di rimborso delle somme erogate per l’acquisizione del terreno, per la costruzione, per la manutenzione ordinaria e straordinaria, per l’ampliamento del fabbricato, conveniva in giudizio la C. dinanzi al Tribunale di Roma per la convalida del sequestro e per la condanna della stessa al pagamento della somma di Lire 500 milioni, a soddisfo dei crediti derivanti dal rimborso delle somme erogate.

Disposta la riunione dei procedimenti (esame della convalida e merito) il Tribunale, con sentenza n. 30720/1988, rigettò le domande di convalida dei sequestri e condannò la C. al pagamento in favore del M. della somma di Euro 37.358,37, con gli interessi legali decorrenti dalla pubblicazione della sentenza.

Proposta impugnazione da parte del M., cui resisteva la C., proponendo appello incidentale, la Corte di appello di Roma, con sentenza del 23.11.2005, respinse l’appello principale ed accolse quello incidentale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13259/2009 accolse per quanto di ragione il terzo motivo illustrato nel ricorso proposto dal M., nei termini seguenti: “La Corte territoriale ha respinto la domanda del M. relativa ai crediti pretesi per miglioramenti apportati all’immobile e per la manutenzione ordinaria e straordinaria dello stesso, considerato che gli artt. 936 e 1150 c.c., invocati a fondamento della sua pretesa, presupponendo la qualità di terzo, non potevano essere applicati nella fattispecie fino alla data in cui era intervenuta tra le parti la cessazione degli effetti civili del matrimonio, usufruendo il M. del bene familiare in qualità di coniuge; ha poi aggiunto che anche per il periodo successivo non potevano trovare applicazione le norme dettate in materia di locazione, non essendo mai stato instaurato detto rapporto tra le parti, ed avendo il M. mantenuto la disponibilità dell’immobile ed avendo seguitato ad occuparlo sulla infondata pretesa di esserne comproprietario al 50%, eseguendo lavori nel suo esclusivo interesse per meglio goderlo e senza autorizzazione della proprietaria. Orbene tali rilievi, sicuramente corretti in ordine alla ritenuta non operatività nella specie dell’art. 936 c.c., per il difetto della qualità di terzo in capo al M. quale compossessore, non sono invece condivisibili con riferimento alla non applicabilità dell’art. 1150 c.c., che invece regola anche il compossesso, cosicchè, secondo la pronuncia di questa Corte richiamata dal ricorrente dalla quale non c’è ragione di discostarsi, deve riconoscersi il diritto del coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese a migliorie od ampliamenti dell’immobile di proprietà dell’altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare, ai rimborsi ed alle indennità contemplati dall’art. 1150 c.c., per il possessore di buona fede (Cass. 13.5.1989 n. 2199). Pertanto occorrerà procedere in sede di rinvio ad un nuovo esame di tale aspetto della controversia alla luce del principio di diritto ora richiamato accertando, in relazione alla diversa disciplina giuridica prevista dall’art. 1150 c.c. per il possessore di buona fede e per quelli di mala fede, se il M., quale compossessore dell’immobile di proprietà della C., versasse in stato di buona o di mala fede”.

La Corte d’appello di Roma, in funzione di giudice del rinvio, con sentenza depositata il 31/10/2013, accolto l’appello per quanto di ragione, condannò la C. a pagare, oltre a quanto già statuito al capo 3 della sentenza di primo grado, l’ulteriore importo di Euro 8.924,95, oltre interessi legali dal 28/3/1985 al saldo.

La sentenza del giudice del rinvio ha svolto le seguenti argomentazioni.

1 – sono coperte da giudicato le statuizioni contenute nella sentenza del Tribunale e poi confermate in appello con statuizione non soggetta di appello,relative al diritto del coniuge, che in costanza di matrimonio abbia provveduto a proprie spese a migliorie od ampliamenti sull’immobile di proprietà dell’altro coniuge ed in godimento al nucleo familiare, ai rimborsi ed alle indennità di cui all’art. 1150 c.c..

2 – che di conseguenza il giudice del rinvio doveva esclusivamente applicare alla fattispecie in esame l’art. 1150 c.c., previo occorrendo, accertamento della buona o mala fede del possesso esercitato dal M.;

3 – non era fondata l’eccezione di giudicato sollevata dalla C. avente ad oggetto il rigetto della domanda del M. volta al conseguimento di un’indennità costituita dal maggior valore acquisito dalla proprietà per effetto degli interventi di esso M.: ciò in quanto non era stata prodotta la sentenza relativa;

4 – pur nella piena applicazione del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, non sarebbe stato necessario indagare sullo stato di buona o mala fede della M.; comunque la buona fede del M. sarebbe stata evidente;

5 il M., una volta divenuto possessore del bene ha eseguito delle addizioni, con ciò intendendo i lavori per portare a termine la casa:

6 – Nella fattispecie (prima cioè che l’immobile sia completato) il termine addizioni e quello di miglioramenti stanno a significare la medesima cosa: n sede di rinvio però la Corte distrettuale non deve prendere in esame tali “addizioni” o “miglioramenti” perchè già formanti oggetto del giudicato (vedi sub 1). Il M. non ha infatti proposto motivi di ricorso diretti a contestare la natura di rimborso alla somma che la C. è stata condannata a pagare.

7 – il Tribunale ha desunto la somma di Lire 80.105.563 dalla perizia del 2 maggio 1987 e in essa erano comprese anche le addizioni per completare la casa (in ragione della metà).

8 – la sentenza della Cassazione non ha affermato che il M. abbia apportato a proprie spese “miglioramenti” o “addizioni” al bene posseduto, rimettendo in sostanza al giudice del rinvio ogni accertamento in relazione a tutti gli aspetti che riguardano la fattispecie regolata dall’art. 1150 c.c..

8 – il M. non aveva diritto alle riparazioni ordinarie – perchè non è stato condannato alla restituzione dei frutti- ma solo a quelle straordinarie, pari ad Euro 8.924,95, somma presidiata dal principio nominalistico e quindi da attualizzare solo con riferimento agli interessi legali.

Avverso quest’ultima determinazione propone ricorso per cassazione il M., allegando due motivi di censura. Resiste con controricorso la C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il M. denunzia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Assume il ricorrente che la Corte territoriale, partendo dall’erroneo presupposto “di un precedente giudicato formatosi su di un credito di altra natura, senza essere entrati nel merito, nè dell’applicazione dell’articolo 1150 codice civile, nè della buona malafede del M.”, aveva “integralmente omesso di accertare l’incremento patrimoniale in favore della C. e la comparazione tra questo e i costi documentati”.

La doglianza non supera il vaglio dell’ammissibilità.

Occorre prendere le mosse dalla sentenza di annullamento emessa da questa Corte. Il ricorso era stato corredato da tre motivi. Il primo (con il quale il M. aveva allegato la sussistenza di un contratto d’appalto, in esecuzione del quale il ricorrente aveva edificato, su incarico della moglie, la casa coniugale) era stato rigettato.

Del pari disatteso era stato il terzo motivo (con il quale aveva contestato la stima del costo di costruzione dell’edificio adottata dalla Corte territoriale).

Il secondo (con il quale era stata denunziata la violazione dell’art. 1150 c.c., per non essere stato riconosciuto il credito derivante dai miglioramenti apportatati all’immobile e per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria) risulta essere stato accolto nei termini sopra riportati, dovendosi riconoscere, si legge nella sentenza di legittimità, “il diritto del coniuge che, in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese a migliorie od ampliamenti dell’immobile di proprietà dell’altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare, ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall’art. 1150 c.c., per il possessore di buona fede (…) Pertanto occorrerà procedere in sede di rinvio ad un nuovo esame di tale aspetto della controversia alla luce del principio di diritto ora richiamato accertando, in relazione alla diversa disciplina giuridica prevista dall’art. 1150 c.c., per il possessore di buona fede e per quelli di mala fede, se il M., quale compossessore dell’immobile di proprietà della C., versasse in stato di buona o di mala fede”.

Ciò premesso e delineata, quindi, l’area ancora non definita, appare evidente che con il motivo al vaglio il M. ha inteso eludere la preclusione derivante dall’aver la sentenza di legittimità sopra ripresa rimesso a nuova valutazione di merito solamente il descritto profilo, discendente dall’enunciato principio di diritto, secondo il quale non è precluso al coniuge non proprietario, quale compossessore rivendicare il credito di cui all’art. 1150, c.c., salvo a definirne la misura in ragione della qualità dell’animus. Con la conseguenza che ogni altra questione è oramai preclusa.

(Ndr: testo mancante).

c.c. e Peraltro, la censura non è riconducibile all’evocato vizio motivazionale, stante che la doglianza disciplinata dal vigente art. 360 c.p.c., ed in particolare, sub n. 5), nella configurazione imposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (che trova applicazione alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del predetto decreto), prevede la ricorribilità per il solo caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 62, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914). Situazione che qui, all’evidenza, non sussiste: la Corte locale ha puntualmente vagliato la questione, concludendo per la intangibilità dell’accertamento, coperto dal giudicato.

Inoltre, manca del tutto lo specifico riferimento ai documenti non compiutamente esaminati e alla loro decisività.

Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione degli artt. 1150 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo il ricorrente la Corte locale aveva errato nell’aver calcolato solo metà delle spese di costruzione della casa coniugale.

Prosegue il M. chiarendo che qualora “si ritenesse superata la censura dedotta con il primo motivo e quindi ritenere sussunta da parte della Corte d’appello, l’entità dell’indennità spettante ex art. 1150 c.c., pari all’importo di Lire 80.105.563 (…), questa somma e non la sua metà, costituirebbe quanto dovuto al M. da parte della C. per le sole spese da questi sostenute non essendo sino ad oggi mai stato valutato il concreto effettivo valore dell’incremento”.

Inoltre il credito per l’indennità ex art. 1150 c.c., secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, costituisce credito di valore, con la conseguenza dell’essere dovuto l’implemento rivalutativo, compensativo della perdita di potere d’acquisto del denaro.

Il motivo è fondato nei termini di cui appresso.

Il primo profilo della doglianza non coglie nel segno per le ragioni già esposte.

Il secondo profilo è fondato laddove rivendica il diritto all’attualizzazione del credito. Credito che nominalmente riguarda somma di Euro 8.924,95, nonchè di Euro 20.685,03, corrispondente alla metà della somma di Euro 41.370,07, frutto della conversione in euro del primigenio importo di Lire 80.105.563, importi quantificati in sede di merito nella predetta misura. Sul punto è opportuno evidenziare che la riduzione alla metà della seconda cifra discende dalla intangibile determinazione del Tribunale, secondo la quale le spese di completamento dell’edificio dovevano essere rimborsate nella predetta misura.

Pur vero che secondo un primo orientamento di legittimità si è inteso distinguere il rimborso per le riparazioni (credito di valuta) dalla indennità (credito di valore) per i miglioramenti e le addizioni (cfr. Sez. 2, n. 5337, 9/8/1983, Rv. 430251), tuttavia, una tale opinione nei termini di così descritta distinzione non risulta essere stata consapevolmente seguita negli arresti successivi, i quali hanno rimarcato, in genere, la natura di credito di valore del rimborso previsto dall’art. 1150 c.c., senza impegnarsi nella distinzione di cui detto (cfr., Sez. 2, n. 1784; 12/2/1993, Rv. 48873; Sez. 2, n. 11051, 8/11/1993, Rv. 484226; Sez. 2, n. 3792, 30/3/1995, Rv. 491542).

Non è dubbio che la legge, nel disciplinare il caso dei miglioramenti e delle addizioni ha evocato criteri estimatori peculiari e, peraltro, non isolati (si veda il regolamento di cui alla sezione 2 del titolo 2 del libro 3 c.c.), attraverso i quali contemperare le opposte posizioni. Criteri che, in ogni caso, importano attualizzazioni e stime.

Ciò, peraltro, non implica che il rimborso per le riparazioni straordinarie, ma anche dirette al completamento dell’immobile e alla sua manutenzione, senza un concludente ragionamento giustificativo, escluda, sempre e comunque, il recupero effettivo, quindi attualizzato, dello speso.

La regola nominalistica (art. 1277 c.c.) si attaglia alle sole obbligazioni originariamente pecuniarie. Ove il “coniuge (…), in costanza di matrimonio, abbia provveduto a proprie spese a migliorie od ampliamenti dell’immobile di proprietà dell’altro coniuge ed in godimento del nucleo familiare” si è al di fuori di una relazione obbligatoria attuale.

L’attività si spiega con il vincolo solidaristico nascente dal matrimonio e non è di certo messa in atto nella prospettiva di costituire una obbligazione pecuniaria per l’altro coniuge.

Solo venuto meno il matrimonio sorge il diritto ad ottenere il rimborso. Rimborso che, in assenza dei presupposti (come in questo caso ha constatato il Giudice del rinvio) perchè possa affermarsi la sussistenza di addizioni o migliorie, non potrà rivestire le vesti della specifica indennità disciplinata dall’art. 1150 c.c., commi da 3 a 5.

Tuttavia, non sussistono convincenti ragioni per negare al richiedente il diritto a recuperare il valore attuale dello speso, o, se si vuole, a reintegrare il proprio attuale patrimonio, non versandosi in presenza di una obbligazione originariamente pecuniaria, bensì di una obbligazione sorta a seguito della rottura del vincolo matrimoniale.

Da ciò consegue che, annullata sul punto la sentenza impugnata, decidendo nel merito, il rimborso in parola devesi liquidare, (S.U. n. 1712, 17/2/1995, Rv., 490480 e successive statuizioni, fino a giungere alla recente, Sez. 1, n. 18243, 17/9/2015, Rv. 636751) rivalutando annualmente gli importi anzidetti di Euro 8.924,95 e di Euro 20.685,03, secondo i coefficienti ISTAT (parametro civile FOI), oltre agli interessi al tasso legale sulle somme via via rivalutate sino ad oggi.

Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle svolte attività, siccome in dispositivo.

PQM

 

accoglie il secondo motivo, per quanto di ragione, e dichiara inammissibile il primo; cassa, in relazione al motivo accolto, e decidendo nel merito, dispone che il rimborso include la rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT fino ad oggi e gli interessi legali sulla somma via via rivalutata sul già riconosciuto credito di Euro 8.924,95, nonchè sul già riconosciuto credito di Euro 20.685,03.

Condanna la resistente al pagamento delle spese legali del giudizio di legittimità e di quello di rinvio, che liquida in Euro 5.000,00 per ciascun giudizio, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2017

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