Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24202 del 13/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 13/10/2017, (ud. 18/05/2017, dep.13/10/2017),  n. 24202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29718-2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

nonchè contro

C.V.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 8059/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/12/2010, R. G. N. 9572/2007.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che con sentenza in data 2 dicembre 2010 la Corte di Appello di Roma ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa città ed, esclusa la risoluzione per mutuo consenso del rapporto, ha dichiarato che il termine apposto al contratto di lavoro concluso da C.V. con Poste Italiane s.p.a. nel periodo dal 13 marzo al 30 aprile 2003 era nullo dichiarando la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e condannando la società al risarcimento del danno che quantificava nelle retribuzioni maturate dall’8 aprile 2004 al compimento di tre anni dalla cessazione del rapporto.

che avverso tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi. C.V. è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il primo motivo di ricorso con il quale è denunciata l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza che ha escluso la risoluzione per mutuo consenso del rapporto, nonostante a fronte di un contratto durato poso più di un mese il lavoratore avesse atteso oltre tre anni per chiedere l’accertamento della illegittimità è manifestamente infondato atteso che la Corte di merito si è attenuta alla costante giurisprudenza della Cassazione e, nel ribadire che grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’intervenuta risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro ha poi ripetutamente affermato che (Cass. Sez. 6-L n. 16932 del 04/08/2011 e recentemente Cass. Sez. 6-L 20/04/2016 n. 8450) per potersi configurare una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo e che a tal fine non è significativa nè la mera inerzia del lavoratore nè la mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (cfr. Cass. 8450 del 2016 cit. ed ancora 6307 del 2016 oltre che, recentemente Cass. ord. sez. 4^ 20/04/2017 n. 10027). Ugualmente infondate sono le censure contenute nel secondo e terzo motivo poichè ancora una volta il giudice di appello ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte e, in esito ad un esame argomentato e critico del contenuto degli accordi sindacali richiamati nel contratto individuale pur ritenendo sufficientemente specifica la casuale fondata per relationem sugli accordi richiamati, ha poi accertato, con valutazione sorretta da congrua motivazione aderente al tenore dei capitoli di prova articolati, che la prova fosse generica ed inidonea a dimostrare in concreto l’esistenza delle ragioni organizzative dedotte in contratto. (cfr. oltre alla già citata Cass. n. 8459 del 2017 anche Cass. 27 marzo 2014, n. 7244; Cass. 21 maggio 2008, n. 12985). Del pari è infondato il quarto motivo atteso che è costante l’indirizzo secondo cui il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1,anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, att. 39, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999170/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (cfr. tra le tante Cass. 21/05/ 2008, n. 12985, Cass. 12/07/2012, n. 11785 e recentemente Cass. sez. 6^ 28/04/2016 n. 8457). Quanto alle conseguenze dell’accertata illegittimità del termine la censura va accolta limitatamente alla richiesta di applicazione della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, restando assorbiti gli altri profili di censura. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte è applicabile anche al giudizio di legittimità lo ius superveniens dettato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, con il quale è introdotto “un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente” ed “il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”, mentre a partire da tale sentenza il datore di lavoro è obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva (cfr. Corte Costituzionale n. 303 del 2011). Con la L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1 comma 13 (in G.U. n. 153 del 37-2012), si è poi chiarito che “La disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro” (per una applicazione degli indicati principi ed una completa ricostruzione del quadro normativo cfr. Cass. 17/03/2016 n. 5298).

che pertanto rigettati i primi quattro motivi di ricorso va accolto il quinto nei termini sopra precisati e la sentenza, cassata in relazione al motivo accolto, deve essere rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che quantificherà l’indennità spettante all’odierna parte contro ricorrente ex art. 32 cit. per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (cfr. per tutte Cass. n. 14461 del 2015) con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolarsi a decorrere dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato (cfr. per tutte Cass. 3062 del 2016) e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

La Corte, accoglie l’ultimo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione rigettati gli altri.

Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 18 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2017

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