Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3622 del 14/02/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 14/02/2018, (ud. 10/01/2018, dep.14/02/2018),  n. 3622

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 18 aprile 2016) respinge l’appello di G.F. avverso la sentenza del Tribunale di Catania in data 24 ottobre 2013, di rigetto del ricorso del G. di impugnazione del licenziamento senza preavviso irrogatogli dall’Agenzia del Territorio (incorporata nell’Agenzia delle Entrate a decorrere dall’1 dicembre 2012, ai sensi dell’art. 23 quater del d.l.6 luglio 2012, n. 95 convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135) con provvedimento del 17 giugno 2008.

La Corte d’appello di Catania, per quel che qui interessa, precisa che:

a) lo svolgimento dei fatti è incontroverso; il G. è stato licenziato perchè, a fronte di ripetute richieste dell’Amministrazione di porre fine alla situazione di incompatibilità riscontrata tra l’attività di dipendente pubblico e quella libero-professionale di geometra, ha ritenuto di non volere porre fine all’attività di geometra, considerando compatibile lo svolgimento di tale attività con il rapporto di lavoro a part-time (entro il 50% dell’orario normale) in corso presso l’Agenzia a partire dal 2001;

b) diversamente da quel che sostiene l’interessato il D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, non pone alcun dubbio interpretativo in merito all’assolutezza del divieto per il G. di svolgere l’attività di geometra in quanto si tratta di una norma finalizzata a garantire l’autonomia e l’indipendenza del personale cui sono assegnati i compiti delicati affidati alle Agenzie fiscali e, nella specie, all’Agenzia del Territorio;

c) si tratta di una disciplina speciale, inserita in un regolamento emanato in base al D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 71, comma 2, per dettare le disposizioni volte a garantire l’indipendenza e l’autonomia tecnica del personale delle Agenzie fiscali, che contiene una elencazione precisa delle attività inibite (tra le quali rientra quella di geometra) e che, quindi, non è confrontabile con la normativa in materia di incompatibilità riguardante altri settori della Pubblica Amministrazione;

d) quanto alla proporzionalità della sanzione, va sottolineato che l’Amministrazione, a partire dal 2005, ha invitato più volte il G. a far cessare la situazione di incompatibilità, ma l’interessato che, in un primo sembrava disponibile, ha poi opposto un netto rifiuto a tale richiesta ritenendo insussistente l’incompatibilità;

e) in questa situazione non è configurabile alcun legittimo affidamento del G. sulla regolarità della propria situazione lavorativa;

f) d’altra parte il recesso era l’unico rimedio utilizzabile da parte dell’Amministrazione per porre fine ad una situazione di incompatibilità dopo il fallimento dei numerosi tentativi – effettuati per circa tre anni – di ottenere dall’interessato la cessazione del cumulo di attività in oggetto.

2. Il ricorso di G.F. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate, quale successore ex lege dell’Agenzia del Territorio, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, che chiarisce che nel provvedimento con il quale è stato disposto il licenziamento senza preavviso in oggetto l’Agenzia ha precisato di considerare assorbita nella sanzione espulsiva la violazione di mancata comunicazione dell’esercizio della libera attività di geometra commessa dal G..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

1.1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 15 preleggi, in riferimento al D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, da ritenere tacitamente abrogato per effetto sia del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, sia del D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 (spec. art. 2,comma 3).

Si contesta il mancato esame, da parte della Corte d’appello, dell’impossibilità di contemporanea applicazione del suddetto D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4,nell’interpretazione datane nella sentenza impugnata (cioè come prevedente l’incompatibilità assoluta tra l’esercizio dell’attività di geometra e l’impiego pubblico part time fino al 50%) e la successiva normativa citata, secondo cui non sono ammesse restrizioni all’esercizio delle libere professioni.

Si sostiene che una simile valutazione avrebbe dovuto portare alla disapplicazione o all’inosservanza del citato art. 4.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 12 preleggi, per il fatto che la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione della sussistenza di una incompatibilità assoluta anche per i dipendenti in regime di part-time al 50% sulla base dell’interpretazione soltanto letterale del D.P.R. n. 18 del 2002 cit., art. 4, effettuata a fronte di un dato testuale tutt’altro che univoco.

Si sostiene che, invece, un’interpretazione logico-sistematica della norma porterebbe a considerare vietate ai suddetti dipendenti solo le attività professionali che si pongono in contrasto con le finalità istituzionali dell’Agenzia.

Si aggiunge che l’evoluzione avutasi nel regime di incompatibilità dei lavoratori pubblici specialmente a tempo parziale non superiore al 50%, a partire dalla L. n. 554 del 1988, e dalla L.n. 662 del 1996, (spec. art. 1, comma 56), porta a ritenere che come regola generale quando l’orario di lavoro non supera la metà di quello ordinario la doppia attività è consentita mentre il diniego ha carattere del tutto residuale, a meno che non sia espressamente stabilito diversamente, come accade per l’esercizio della professione di avvocato (L. n. 339 del 2003).

Ma il D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, non fa alcun riferimento ai dipendenti in regime di part-time sicchè al riguardo non potrebbe che essere inteso conformemente alla suddetta regola generale e quindi come contenente una incompatibilità relativa e presunta juris tantum, superabile con la prova dell’inesistenza in concreto di un conflitto di interessi.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 2727,2729 e 2697 c.c.; dell’art. 115 c.p.c.; della L. n. 604 del 1966, art. 5.

Si ricorda che il ricorrente è stato sottoposto ad accertamenti ispettivi con riferimento alla sua posizione lavorativa a tempo parziale e il relativo procedimento è stato archiviato. L’Agenzia non ha mai contestato in giudizio la relativa dichiarazione del G. – che, quindi, deve considerarsi incontroversa – e, d’altra parte, non ha mai provato la sussistenza di una giusta causa di recesso.

1.4. Il ricorrente prospetta, in subordine rispetto alle suindicate censure, che:

a) venga sollevata davanti alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale relativa alla non compatibilità del D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, se inteso come contenente una incompatibilità assoluta per i dipendenti in regime di part-time, con il principio di diritto comunitario di uguaglianza, con la tutela dell’affidamento e con il principio della concorrenza;

b) venga rimessa alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità riguardante tale norma, nell’anzidetta applicazione, per violazione con i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e diritto al lavoro.

1.5. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 92 c.p.c., sostenendo che, in considerazione dell’assoluta novità della questione trattata, la Corte d’appello avrebbe dovuto disporre la compensazione delle spese di lite.

2 – Esame delle censure.

2. Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

3. Il primo motivo non è fondato.

3.1. In base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) l’incompatibilità tra le nuove disposizioni di legge e quelle precedenti, che costituisce una delle due ipotesi di abrogazione tacita ai sensi dell’art. 15 delle Preleggi, si verifica solo quando tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicchè dall’applicazione ed osservanza della nuova legge non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra. Tale situazione, pertanto, non ricorre nel caso in cui la nuova legge abbia determinato esclusivamente il venir meno della “ratio legis” della legge precedente, senza dettare una nuova disciplina nella materia da quest’ultima regolata (vedi, per tutte: Cass. 1 ottobre 2002, n. 14129; Cass. 10 luglio 2002, n. 10053; Cass. 21 febbraio 2001, n. 2502; Cass. 10 agosto 1998, n. 7840);

b) in particolare, la disciplina prevista L. 25 novembre 2003, n. 339, che sancisce l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense – essendo diretta a tutelare interessi di rango costituzionale quali, da un lato, l’imparzialità e il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.), nonchè, dall’altro, l’indipendenza della professione forense (in quanto strumentale all’effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost.), non risulta abrogata per incompatibilità in forza della sopravvenienza nè del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5, convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148 (norma secondo cui gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio delle attività professionali risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza), nè dal relativo regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, (in forza del quale l’accesso alle professioni regolamentate, come l’esercizio delle stesse, è libero, potendo dipendere soltanto dall’iscrizione in ordini e collegi, subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento di specifiche professionalità), non ricorrendo tra le norme considerate una contraddizione tale da renderne impossibile la loro contemporanea applicazione (Cass. SU 16 maggio 2013, n. 11833; Cass. SU 16 gennaio 2014, n. 775).

3.2. Nella specie da una lettura complessiva del D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18, si desume che, aldilà degli specifici obblighi previsti in singole disposizioni, tutta la disciplina in materia di indipendenza e “autonomia tecnica” dettata per i dipendenti delle Agenzie fiscali – più rigorosa rispetto a quella ordinaria dei pubblici dipendenti, specialmente con riguardo all’incompatibilità e al cumulo di impieghi – risponde a due principi generali: a) il principio secondo cui “il dipendente salvaguarda l’immagine e la credibilità dell’Agenzia di appartenenza e delle funzioni istituzionali a questa demandate, evitando ogni possibile condizionamento dell’attività di servizio”; b) il principio in base al quale “il dipendente evita le attività che possono condurre a conflitti di interesse con l’Agenzia di appartenenza e che possono interferire con la sua capacità di adottare decisioni imparziali”.

Nell’applicazione della normativa viene dato particolare rilievo anche alle “apparenze”, come del resto stabilisce anche il Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni (all’epoca contenuto nel D.M. 28 novembre 2000), in cui sono indicati gli obblighi di diligenza, lealtà ed imparzialità che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa nei pubblici uffici (art. 1), con le regole deontologiche applicabili indistintamente a ciascun pubblico dipendente, a prescindere dalla qualifica rivestita e dalle mansioni svolte.

In particolare, il Codice stabilisce che la condotta del pubblico dipendente debba essere ispirata a principi di imparzialità, buon andamento e indipendenza, intesa come divieto per il dipendente di svolgere attività in situazioni – anche solo apparenti – di conflitto di interessi, o comunque in contrasto con il corretto funzionamento dei compiti d’ufficio ovvero che possano nuocere all’immagine dell’Amministrazione (art. 2).

E tali norme hanno trovato riscontro anche nel successivo Codice di comportamento del personale delle Agenzia delle Entrate, approvato con provvedimento in data 16 settembre 2015 del direttore dell’Agenzia.

3.3. Pertanto – come correttamente si afferma nella sentenza impugnata – il D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, è una norma speciale che detta per il personale delle Agenzie fiscali una disciplina in tema di incompatibilità e conflitto di interessi più rigorosa di quella generale – prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 e ss., e, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117, art. 6, comma 2, e dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 57 e ss., ivi richiamati – pienamente giustificata dai delicati compiti assegnati a tali Agenzie e dalla necessità particolarmente avvertita dal legislatore di assicurare l’autonomia formale e sostanziale delle Agenzie stesse in tutti i suoi diversi aspetti, onde tutelarne in modo efficace l’efficienza e la trasparenza.

Si tratta di obiettivi che rinvengono la loro base in principi generali di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della PA (art. 97 Cost.) nonchè il principio secondo cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore (art. 54 Cost., comma 2), la cui applicazione nei confronti dei dipendenti delle Agenzie fiscali è particolarmente severa in quanto dette Agenzie rappresentano lo Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative – il prelievo fiscale – e i loro dipendenti devono operare in modo da guadagnare sempre più, nell’esercizio di quella funzione, il rispetto e la fiducia che i cittadini devono alle istituzioni.

3.4. Del resto che la legalità, la trasparenza e l’integrità – valori fondanti per tutte le Pubbliche Amministrazioni – siano al centro della ruolo istituzionale delle Agenzie fiscali e dei loro dipendenti e comportino l’adozione da parte delle Agenzie di linee di intransigenza nell’intraprendere azioni disciplinari volte a sanzionare comportamenti quali quelli addebitati al G. è del tutto ragionevole ove si consideri che l’attività delle Agenzie e i suoi risultati contribuiscono in larga misura ad assicurare le risorse necessarie per il funzionamento degli apparati pubblici e per il soddisfacimento dei bisogni della collettività.

Nè va omesso di considerare che il riconoscimento e il rafforzamento dell’autonomia formale e sostanziale delle Agenzie fiscali e dei loro dipendenti, in tutti i suoi diversi aspetti, trova riscontro oltre che nella direttiva 2011/16/UE (cui è stata data attuazione con D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 29) anche nelle recenti raccomandazioni per migliorare l’efficienza dell’amministrazione fiscale fornite nel 2016 al nostro Governo, su sua richiesta, dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI).

3.5. Le suddette osservazioni portano a ritenere che – facendo le debite differenze – così come per l’esercizio della professione di avvocato da parte dei pubblici dipendenti con rapporto part-time è del tutto giustificato che vi sia una normativa speciale e più severa di quella generale, dettata dalla L. n. 339 del 2003, e ricordata dallo stesso ricorrente (nel secondo motivo) – disciplina positivamente scrutinata, nei rispettivi ambiti di competenza, sia dalla Corte costituzionale (sentenze n. 390 del 2006 e n. 166 del 2012) sia dalla Corte di Giustizia UE (sentenza 2 dicembre 2010, causa C-225/09), sia dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (sentenze n. 11833 del 2013 e n. 775 del 2014 cit.) – analogamente è del tutto ragionevole che le incompatibilità dei dipendenti delle Agenzie fiscali siano sottoposte ad un regime più severo di quello previsto in generale per i pubblici dipendenti.

I primari interessi che rispettivamente giustificano tali due regimi speciali non coincidono del tutto, ma il meccanismo è il medesimo.

3.6. Ne deriva che tra il D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, e il D.L. n. 138 del 2011, cit. o il D.P.R. n. 137 del 2012, (indicati dal ricorrente) – il cui art. 2 al comma 3 considera inammissibili “limitazioni, in qualsiasi forma, anche attraverso previsioni deontologiche, del numero di persone titolate a esercitare la professione, con attività anche abituale e prevalente, su tutto o parte del territorio dello Stato, salve deroghe espresse fondate su ragioni di pubblico interesse, quale la tutela della salute” – non è ravvisabile alcuna contraddizione o incompatibilità tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione e da determinare l’abrogazione implicita della prima norma, con riguardo alla situazione dei dipendenti part-time al 50% che svolgano attività professionale.

4. Considerazioni analoghe a quelle fin qui svolte portano alla non fondatezza anche del secondo motivo, con il quale si sostiene che un’interpretazione non semplicemente letterale – quale adottata dalla Corte territoriale – ma logico-sistematica del D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, ove non è contenuto alcun riferimento al rapporto part-time, porterebbe a considerare vietate solo le attività professionali che si pongono in contrasto con le finalità istituzionali dell’Agenzia, situazione che non potrebbe di regola riguardare i dipendenti pubblici a tempo parziale non superiore al 50%, perchè per essi la regola generale è la compatibilità della doppia attività, a meno che non sia espressamente stabilito diversamente, come accade per l’esercizio della professione di avvocato (L. n. 339 del 2003).

4.1. A ciò che si è detto a proposito del primo motivo, può aggiungersi che l’applicazione della regola generale – richiamata dal ricorrente – secondo la quale dipendenti con rapporto part-time entro il 50% dell’orario ordinario possono svolgere un’altra attività lavorativa sia come dipendenti (mai con una Amministrazione pubblica) sia come lavoratori autonomi o professionisti (salvo il particolare regime vigente per gli avvocati), presuppone che:

a) tali attività non comportino un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio del dipendente, pregiudicando l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente;

b) l’interessato comunichi tempestivamente all’Amministrazione di appartenenza il tipo di attività privata che intende svolgere (il che agevola il controllo in merito al conflitto di interessi).

4.2. Nella specie, tale comunicazione non risulta essere stata fatta come afferma – non contestata – l’Agenzia nel controricorso.

Tale mancanza (che di per sè costituisce violazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 58, e del D.P.C.M. n. 117 del 1989, art. 6) non è stata autonomamente sanzionata perchè considerata assorbita nel licenziamento.

Tale sanzione peraltro è stata irrogata in quanto la PA, esercitando in modo del tutto legittimo le sue prerogative sempre in contraddittorio con l’interessato, ha ritenuto sussistere “in concreto” una situazione di conflitto di interessi alla quale il dipendente non ha posto rimedio.

Fin dal D.P.C.M. n. 117 del 1989, art. 6, è stato stabilito che al personale interessato al part time è consentito l’esercizio di altre prestazioni di lavoro che non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e non siano incompatibili con le attività di istituto della stessa Amministrazione o Ente di appartenenza, ma sempre previa motivata autorizzazione dell’Amministrazione o dell’Ente medesimi.

E la L. n. 662 del 1996, comma 58 bis, specifica che la valutazione dei singoli casi di conflitto di interesse va fatta “in concreto” dalle Amministrazioni datrici di lavoro, essendo, peraltro, evidente che tale tipo di valutazione può riguardare anche un conflitto “apparente” che comunque possa nuocere all’immagine dell’Amministrazione.

4.3. Entrambe le suddette norme sono richiamate dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi) con riferimento ai rapporti di lavoro a tempo parziale.

Pertanto la soluzione adottata dalla Corte d’appello trova conferma anche nell’interpretazione logico-sistematica dell’art. 4 cit., e anche tale tipo di interpretazione porta alla conseguente incompatibilità, nella specie, della doppia attività, per molteplici ragioni, a partire dalla mancata tempestiva comunicazione all’Agenzia del tipo di attività professionale esercitata seguita da un persistente rifiuto di porre rimedio ad una situazione considerata dall’Agenzia stessa tale da pregiudicare l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente e quindi da configurare “in concreto” un conflitto di interessi, sanzionabile anche se in ipotesi solo apparente, come si è detto.

5. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della mancata considerazione dell’avvenuta archiviazione del procedimento con il quale era stato sottoposto ad accertamenti ispettivi con riferimento alla sua posizione lavorativa a tempo parziale, aggiungendo che l’Agenzia non ha mai contestato in giudizio la relativa dichiarazione del G.. Inoltre sostiene che l’Agenzia stessa non avrebbe mai provato la sussistenza di una giusta causa di recesso.

Il motivo è inammissibile per diverse ragioni:

a) il profilo di censura relativo alla mancata valutazione della citata archiviazione risulta prospettato senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, non essendo stato assolto il duplice oner,e,di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, e all’art. 369 c.p.c., n. 4, relativo all’allegazione dei documenti richiamati e alla riproduzione nel ricorso delle parti salienti ai fini dell’esame da parte di questa Corte della sussistenza dei vizi denunciati senza necessità del compimento di generali verifiche degli atti (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569);

b) anche il profilo di censura relativo alla prospettata assenza di prova sulla giusta causa, nella sua formulazione, è affetto dal medesimo vizio e, nella sostanza, è comunque inammissibile perchè volto ad ottenere una rivisitazione del giudizio (di merito) sulla ritenuta sussistenza dei presupposti per il licenziamento, senza peraltro considerare che in base alla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 61:

“La violazione del divieto di cui al comma 60, la mancata comunicazione di cui al comma 58, nonchè le comunicazioni risultate non veritiere anche a seguito di accertamenti ispettivi dell’amministrazione costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e costituiscono causa di decadenza dall’impiego per il restante personale, semprechè le prestazioni per le attività di lavoro subordinato o autonomo svolte al di fuori del rapporto di impiego con l’amministrazione di appartenenza non siano rese a titolo gratuito, presso associazioni di volontariato o cooperative a carattere socio-assistenziale senza scopo di lucro”.

Tale disposizione trova riscontro anche nell’art. 67, del CCNL di Comparto del 28 maggio 2004 e nella successiva contrattazione collettiva del settore.

6. Il quarto motivo è infondato.

Con esso si sostiene che, in considerazione dell’assoluta novità della questione trattata, la Corte d’appello avrebbe dovuto disporre la compensazione delle spese di lite.

In base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) la valutazione in proposito di spese processuali operata dal giudice del merito risulta censurabile in cassazione solo ove sia violato il principio per il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa oppure allorchè la motivazione posta a fondamento della statuizione di compensazione risulti palesemente illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per la sua inconsistenza o evidente erroneità, il processo decisionale del giudice (Cass. SU 30 luglio 2008, n. 20598);

b) peraltro, l’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui permette la compensazione delle spese di lite allorchè concorrano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituisce una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili “a priori”, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche;

c) in particolare, anche la “novità delle questioni” affrontate integra la suddetta nozione, se ed in quanto sia sintomo di un atteggiamento soggettivo del soccombente, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che lo hanno indotto ad agire o resistere in giudizio e, quindi, da valutare con riferimento al momento in cui la lite è stata introdotta o è stata posta in essere l’attività che ha dato origine alle spese, sempre che si tratti di questioni sulle quali si sia determinata effettivamente la soccombenza, ossia di questioni decise (Cass. SU 22 febbraio 2012, n. 2572; Cass. 16 marzo 2016, n. 5267).

Ne deriva che, nella specie, la contestata statuizione sulle spese non è censurabile in questa sede.

3 – Richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE.

7. Il ricorrente, in subordine rispetto all’accoglimento delle censure proposte con i primi tre motivi, chiede che:

a) venga sollevata davanti alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale relativa alla non compatibilità del D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, se inteso come contenente una incompatibilità assoluta, con il principio di diritto comunitario di uguaglianza, con la tutela dell’affidamento e con il principio della concorrenza;

b) venga rimessa alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità riguardante tale norma per violazione con i principi di uguaglianza, ragionevolezza e diritto al lavoro.

8. Entrambe queste richieste sono da respingere per le ragioni di seguito esposte.

9. Quanto al – genericamente ipotizzato – rinvio pregiudiziale alla CGUE va osservato quanto segue:

1) sulla base della sentenza della Corte di Giustizia UE 2 dicembre 2010, causa C-225/09, nella specie appare in modo manifesto che la presente fattispecie non ha alcun rapporto con l’interpretazione del diritto dell’Unione sicchè non risulta formulabile alcun quesito alla CGUE che sia utile per la soluzione delle questioni controverse nel presente giudizio (vedi, al riguardo: la citata sentenza 2 dicembre 2010, causa C-225/09, punto 28 e giurisprudenza ivi citata nonchè la sentenza 28 luglio 2011, causa C-106/10);

2) infatti, in primo luogo, nel presente giudizio non si fa questione della possibilità per un dipendente pubblico part-time di esercitare la libera professione di geometra – possibilità prevista, in linea generale, dalla legislazione italiana – ma si discute del mancato rispetto da parte di un dipendente pubblico part-time di una Agenzia fiscale della disciplina nazionale – che tale deve essere, come si dirà in seguito – in materia di compatibilità dell’esercizio della libera professione con il mantenimento dell’impiego pubblico part-time in una fattispecie in cui la PA datrice di lavoro ha ravvisato la sussistenza “in concreto” di un conflitto di interessi;

3) inoltre la normativa italiana – D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, – con riferimento alla quale si ipotizza una domanda di interpretazione di principi generali del diritto dell’Unione da parte della CGUE non solo non prevede il divieto di esercizio della libera professione da parte del dipendente part-time come “assoluto” in linea teorica – ma come applicabile in caso di sussistenza “in concreto” di una situazione di conflitto di interessi – ma neppure risulta essere stata adottata al fine di dare esecuzione ad obblighi imposti alla Repubblica italiana da tale diritto;

4) riguardo alla necessaria “nazionalità” della suddetta disciplina nella citata sentenza della CGUE (punto 34) si afferma: “l’inapplicabilità del diritto dell’Unione ai dipendenti pubblici vale unicamente per gli impieghi che comportino una partecipazione all’esercizio di pubblici poteri e che presuppongano, pertanto, l’esistenza di un particolare rapporto con lo Stato. Per contro, le norme del diritto dell’Unione in materia di libera circolazione restano applicabili ad impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla Pubblica amministrazione propriamente detta” (si citano in tal senso, in particolare, sentenze 30 settembre 2003, causa C 405/01, punti 39 e 40, nonchè 10 dicembre 2009, causa C 345/08, punto 31);

5) come si è detto le Agenzie fiscali rappresentano lo Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative – il prelievo fiscale – e pertanto i loro dipendenti, pure se con un rapporto di lavoro contrattualizzato, partecipano di tale fondamentale funzione di carattere pubblicistico di derivazione statale, come tale riconosciuta anche nella citata direttiva 2011/16/UE (cui è stata data attuazione con D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 29) nonchè nelle menzionate raccomandazioni dell’OCSE e del FMI;

6) pertanto è sicuramente da escludere che tali Agenzie possano essere incluse nella nozione UE di “impresa pubblica” che figura all’art. 8 della direttiva 98/5 in base alla quale, secondo giurisprudenza consolidata CGUE, allorchè un ente integrato nell’Amministrazione pubblica esercita attività che presentano un carattere economico e non rientrano nell’esercizio di prerogative dei pubblici poteri, esso deve essere considerato come una siffatta impresa (vedi, in tal senso, sentenze 27 ottobre 1993, causa C 69/91, punto 15; 14 settembre 2000, causa C 343/98, punto 33, nonchè 26 marzo 2009, causa C 113/07, punto 82);

7) di conseguenza con riguardo alle Agenzie fiscali non possono venire in considerazione nè l’art. 3, n. 1, lett. g), CE, che prevede l’azione dell’Unione Europea per quanto concerne un regime che assicuri che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, nè gli artt. 4 CE e 98 CE, che mirano all’instaurazione di una politica economica nel rispetto del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza;

8) peraltro – anche in un’ottica UE, che qui non viene in rilievo, per quel che si è detto – varrebbero anche con riguardo all’art. 4 cit. mutatis mutandis le affermazioni contenute nella citata sentenza della CGUE a proposito dell’esercizio della professione forense. Per i dipendenti delle Agenzie fiscali, dati i delicati compiti che svolgono, la mancanza di conflitto d’interessi – anche solo apparente – è indispensabile per il loro lavoro pubblico, in quanto devono operare in modo da non dare neppure l’impressione di subire l’influenza altrui (vedi in tal senso, sentenza 19 febbraio 2002, causa C 309/99, punti 100102). Tanto più che le regole stabilite al riguardo nella nostra legislazione nazionale non vanno certamente al di là di quello che è necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse, come nella specie è dimostrato dai plurimi tentativi dell’Amministrazione di consentire al G., nell’arco di un triennio, di porre rimedio al rilevato conflitto di interessi, benchè il dipendente avesse omesso di dare la prescritta comunicazione dell’inizio dell’attività professionale;

9) resterebbe in ogni caso esclusa anche l’ipotizzabilità di una lesione del principio di uguaglianza comunitario, visto che la normativa relativa ai dipendenti delle Agenzie fiscali e alle relative sanzioni è nazionale, per quanto si è detto;

10) d’altra parte, anche in una ipotetica ottica UE, non si vede sotto quale profilo o per quale ragione l’art. 4 in oggetto – che ha un contenuto chiaro e conseguenze prevedibili, trovando ampi riscontri nella legislazione e nella contrattazione collettiva in materia – potrebbe contrastare con il principio della certezza del diritto, il quale per giurisprudenza consolidata della CGUE si configura quando una normativa che comporta conseguenze svantaggiose per i singoli non sia chiara e precisa sicchè la sua applicazione non sia prevedibile per gli amministrati (sentenza 14 settembre 2010, causa C 550/07 punto 100 e giurisprudenza ivi citata). Ciò specialmente ove si consideri che nella specie non vi è stata alcuna comunicazione dell’attività professionale e, viceversa, l’Amministrazione si è dimostrata disponibile a venire incontro alle esigenze del dipendente;

11) infine, appare in ogni caso ultronea l’invocazione del principio della tutela del legittimo affidamento, visto che per giurisprudenza costante della CGUE gli amministrati non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali, sempre che tale potere sia correttamente esercitato (sentenza 10 settembre 2009, causa C 201/08, punto 53 e giurisprudenza ivi citata).

4 – Prospettazione di questione di legittimità costituzionale.

10. Manifestamente inammissibile appare l’ipotizzata questione di costituzionalità del citato D.P.R. n. 18 del 2002, art. 4, per asserita violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e del diritto al lavoro.

Infatti, la suddetta norma per il suo carattere meramente regolamentare è inidonea a formare oggetto di giudizio incidentale di costituzionalità (vedi, per tutte: Corte cost., sentenze n. 258 del 2017; n. 251 del 2001; n. 427 del 2000 e ordinanze n. 254 e n. 81 del 2016; n. 156 del 2013; n. 328 del 2000; n. 430 del 1999).

5 – Conclusioni.

11. In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,comma 17.

12. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si ritiene opportuno enunciare i seguenti principi di diritto:

a) “la disciplina prevista dal D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18, art. 4, che, per i dipendenti delle Agenzie fiscali, prevede un regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi più rigoroso di quello generale dei dipendenti pubblici contrattualizzati – è una disciplina di carattere speciale, diretta a tutelare interessi di rango costituzionale quali, da un lato, l’imparzialità e il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e, dall’altro, il principio secondo cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore (art. 54 Cost., comma 2), la cui applicazione nei confronti dei dipendenti delle Agenzie fiscali è particolarmente severa in quanto dette Agenzie rappresentano Io Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative – il prelievo fiscale sicchè i loro dipendenti devono operare in modo da essere ed apparire impermeabili rispetto ad ogni possibile condizionamento dell’attività di servizio (come implicitamente si desume anche dalla direttiva 2011/16/UE, cui è stata data attuazione con D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 29)”;

b) “il D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18, art. 4, in materia di incompatibilità e cumulo di impieghi dei dipendenti delle Agenzie fiscali, è una norma di carattere speciale che trova applicazione anche nei confronti dei dipendenti delle suddette Agenzie con rapporto di lavoro part-time (pure al 50%). Infatti, l’interpretazione logico-sistematica della norma – fondata sugli artt. 54 e 97 Cost., oltre che sul D.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117, art. 6, comma 2, e sulla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1,comma 57 e ss., richiamati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, e per i rapporti di lavoro a tempo parziale – porta a ritenere che anche per i suindicati dipendenti, pur non espressamente contemplati nel testo normativo, il cumulo di impieghi non deve comportare “in concreto” un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio del dipendente, pregiudicandone l’esercizio imparziale e che comunque l’interessato deve comunicare all’Amministrazione di appartenenza il tipo di attività privata che intende svolgere. Ne consegue tra il suddetto art. 4 e i sopravvenuti art. 3, comma 5, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, (norma secondo cui gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio delle attività professionali risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza) e il relativo regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 (in forza del quale l’accesso alle professioni regolamentate, come l’esercizio delle stesse, è libero, potendo dipendere soltanto dall’iscrizione in ordini e collegi, subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento di specifiche professionalità), non è ravvisabile alcuna contraddizione o incompatibilità tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione e da determinare l’abrogazione implicita della prima norma, con riguardo alla situazione dei dipendenti delle Agenzie fiscali part-time al 50% che svolgano attività professionale”.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, Euro 5000,00 (cinquemila/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2018

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