Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4944 del 02/03/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 02/03/2018, (ud. 01/03/2017, dep.02/03/2018),  n. 4944

Fatto

L.G. propone ricorso per cassazione con quattro motivi, illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ha confermato la legittimità della pretesa avanzata con l’avviso di accertamento ai fini dell’IRPEF per l’anno 2004 con il quale veniva accertata, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, una plusvalenza di Euro 125.979 non dichiarata determinatasi con il trasferimento a terzi della licenza per l’esercizio del servizio di taxi.

Il giudice d’appello, premesso che il contribuente aveva esplicitamente rifiutato di rispondere al questionario sottopostogli ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32dichiarando di non essere in possesso della documentazione inerente il trasferimento della licenza -, e che, avendo l’esercizio dell’attività natura imprenditoriale, il trasferimento della licenza configurava una cessione di azienda, ha affermato che l’ufficio aveva, sulla base di presunzioni, rispetto alle quali non era stata offerta prova contraria, legittimamente proceduto a determinare il reddito d’impresa ai sensi della L. n. 28 del 1999, art. 25 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo, il contribuente denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 7 dello statuto del contribuente ed omessa motivazione, lamenta che il giudice d’appello non abbia considerato affatto la doglianza, prospettata sia in primo grado che nell’appello, relativa alla mancata allegazione all’avviso di “studi e dati” cui questo aveva fatto riferimento; col secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 2, della L. n. 28 del 1999, art. 32 nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 sostiene l’inapplicabilità dell’accertamento induttivo a seguito del mancato riscontro al questionario inviatogli, e la sopravvivenza, in ogni caso, dell’onere della prova in capo all’ufficio. Assume poi che l’atto inviatogli non sarebbe un questionario, riconducibile al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, n. 4, ma piuttosto al n. 2, che non autorizzerebbe l’accertamento induttivo; col terzo motivo denuncia omessa e insufficiente motivazione; col quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., censurando la sentenza per aver ignorato la doglianza di esso contribuente che lamentava di essere stato inciso da un accertamento carente di prova, il cui onere gravava sull’amministrazione.

Il primo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto non viene riprodotto o trascritto per intero nel ricorso la motivazione, in relazione alla quale sarebbe stato possibile verificare gli atti richiamati ed i termini del rinvio, nonchè, alla stregua del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, come modificato dal D.Lgs. n. 32 del 2001, art. 1 se, degli atti cui la motivazione dell’atto impositivo fa riferimento, “quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”.

Il secondo motivo è infondato.

La L. 15 gennaio 1992, n. 21 (“Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea”), per quanto qui interessa, qualifica i titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi come “titolari di impresa artigiana di trasporto” (art. 7) e prevede che la licenza è rilasciata dalle amministrazioni comunali (art. 8) e che la stessa, in presenza di determinate condizioni, può essere trasferita, su richiesta del titolare, a persona dallo stesso designata, iscritta nel ruolo di cui all’art. 6 e in possesso dei requisiti prescritti (art. 9). In primo luogo, pertanto, il trasferimento della licenza è effettuato dall’autorità comunale, munita del potere di rilascio, su domanda del titolare e alla persona da lui indicata, previa verifica dei presupposti di legge; in secondo luogo, trattandosi, come detto, di attività d’impresa, alla “cessione” della licenza, effettuata con le indicate modalità, è applicabile la disciplina dettata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86 (nel nuovo testo, vigente ratione temporis, già art. 54), secondo il quale concorrono alla formazione del reddito d’impresa le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso dei beni relativi all’impresa, costituendo la licenza un bene immateriale strumentale all’esercizio di tale attività.

Ne consegue che, qualora il reddito che si contesta non sia stato indicato in dichiarazione, si rende applicabile il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. a), che, in tale ipotesi, abilita l’Ufficio ad utilizzare, ai fini dell’accertamento, dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (cfr. Cass. n. 21762 del 2017, in motivazione); analoga abilitazione è contenuta nella successiva lett. d bis), introdotta nel detto art. 39, comma 2, dalla L. n. 28 del 1999, art. 25 per l’ipotesi – pacificamente ricorrente nella specie -, in cui il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’art. 32, comma 1, nn. 3 e 4, come nel caso in esame, riconducibile, appunto al numero 4: invio al contribuente di questionari relativi a dati o notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti nonchè nei confronti di altri contribuenti con i quali abbiano intrattenuto rapporti, con invito a restituirli compilati e firmati.

Il terzo motivo, con il quale si denuncia vizio di motivazione, è infondato perchè generico, non potendosi individuare il fatto controverso e decisivo per il giudizio.

L’esame del quarto motivo, con il quale si lamenta la violazione del principio dell’onere della prova, è assorbito dal rigetto dei primi due motivi, dovendosi tuttavia rilevare che il giudice di merito non solleva l’amministrazione dall’onere della prova, dando conto della legittimazione dell’ufficio a procedere all’accertamento sulla base di dati e notizie comunque raccolti e pervenuti alla sua conoscenza, avvalendosi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 3.800 per compensi di avvocato, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 1 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2018

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