Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5523 del 08/03/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 08/03/2018, (ud. 05/12/2017, dep.08/03/2018),  n. 5523

Fatto

Il Tribunale di Roma, con sentenza nr. 721 del 2013, pronunciando sul ricorso proposto il 27.6.2011 da S.D. nei confronti di TELECOM ITALIA spa, annullava la sanzione disciplinare della sospensione per giorni tre del novembre 2008 e rigettava la domanda di impugnativa del licenziamento per giusta causa irrogato il 10.3.2009; in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da TELECOM ITALIA spa, condannava il lavoratore al pagamento di Euro 194.608,50.

Con sentenza del 15.6.2015-14.10.2015 (nr. 5143/2015), la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame principale proposto dal lavoratore, rigettato quello in via incidentale interposto da TELECOM ITALIA spa ed in conseguente riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e condannava la società al pagamento di Euro 311.361,00 a titolo di indennità supplementare e di Euro 138.382,66 a titolo di indennità di preavviso; respingeva, per l’effetto, la domanda riconvenzionale proposta dalla società.

La vicenda – che solo rileva in questa sede – ha riguardato la contestazione al lavoratore – dirigente e responsabile, all’epoca dei fatti, dell’Area Territoriale Sales Consumer Nord Est – di una condotta irregolare in merito all’applicazione della procedura cd. “rivalutazioni di magazzino” che, secondo le indagini aziendali, aveva portato all’accredito di somme non dovute in favore di alcune società commerciali partner, in quanto relative a giacenze di prodotti di telefonia mobile, in realtà non esistenti.

La Corte di appello osservava che la prospettazione della parte datoriale era fondata su messaggi di posta elettronica di “dubbia valenza probatoria” nonchè su dichiarazioni provenienti da soggetti direttamente coinvolti nella vicenda e quindi inattendibili perchè interessati ad un certo esito della lite.

La Corte distrettuale concludeva per l’accertamento di illegittimità del recesso, in quanto, in difetto di riscontri certi che dimostrassero il diretto coinvolgimento del lavoratore nella procedura irregolare di rivalutazione, la responsabilità che andava a configurarsi era di natura oggettiva, connessa cioè esclusivamente alla posizione dirigenziale ricoperta.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società TELECOM ITALIA spa, affidato a sei motivi; ha resistito con controricorso S.D..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Sintesi dei motivi.

1. Con il primo motivo si denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 violazione dell’art. 132 c.p.c.; motivazione inesistente – ai sensi dell’art. 360, n. 5 -; violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 ai sensi dell’art. 360, n. 3 -.

Si contesta alla Corte di appello di Roma di aver accolto uno dei motivi dell’appello principale (illegittimità del licenziamento per violazione del diritto di difesa) senza nulla motivare al riguardo.

2. Con il secondo motivo, si censura – ai sensi dell’art. 360, n. 3 e n. 4 – la violazione dell’art. 112 c.p.c. e – ai sensi dell’art. 360, n. 3 – la violazione e falsa applicazione degli artt. 2702 e 2712 c.c..

Osserva TELECOM che la sentenza impugnata fonda la illegittimità del licenziamento su due ordini di argomentazioni: la “dubbia valenza probatoria” delle e-mail aziendali e la inattendibilità dei testimoni che, in quanto coinvolti nella vicenda concreta, avrebbero avuto interesse ad attribuire ad altri le responsabilità dell’accaduto. Con particolare riferimento ai messaggi di posta elettronica, la corte territoriale esclude la valenza probatoria dei documenti sul presupposto di una possibilità astratta di alterazione, non trattandosi di corrispondenza elettronica certificata o sottoscritta con firma digitale che garantisce l’identificabilità dell’autore e la sua integrità ed immodificabilità.

La società critica, in parte qua, la statuizione del giudice di merito che, nella sostanza, ha messo in dubbio l’autenticità dei contenuti delle e-mail, laddove una tale deduzione non era stata introdotta dal lavoratore in primo grado; il D. si era, infatti, limitato ad affermare che i contenuti delle stesse non potevano “essere conoscibili” e, solo in replica alla riconvenzionale, aveva precisato di non aver ricevuto le e-mail in oggetto; infine, in sede di gravame – quindi tardivamente -, aveva dedotto la manomissione dei documenti.

3. Con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c. – si deduce la violazione dell’art. 414 c.p.c., per aver il giudice di merito dato rilevanza, sia pure in maniera indiretta, a circostanze non ritualmente allegate.

4. Con il quarto motivo si censura – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2730 e 2735 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. nonchè – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – l’omesso esame di un fatto decisivo.

Si assume che la Corte di appello ha errato nel ritenere che le dichiarazioni dei testi erano sorrette da un interesse personale; le deposizioni erano state rese al collega responsabile del procedimento di audit, mentre un eventuale interesse poteva sopraggiungere solo in seguito alla richiesta di corresponsabilità avanzata dalla difesa del lavoratore; le dichiarazioni assumevano, dunque, il valore di una confessione.

5. Con il quinto motivo si censura – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. per non aver la Corte di merito esattamente individuato la responsabilità attribuita al lavoratore.

6. Con il sesto motivo si denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – la violazione dell’art. 246 c.p.c.; si contesta che la sentenza non si è pronunciata sul motivo di gravame avente ad oggetto la statuizione di primo grado di ritenuta incapacità a testimoniare dei testi intimati da TELECOM.

Esame dei motivi.

Possono essere preliminarmente esaminati i motivi successivi al primo.

7. I motivi secondo e terzo vanno trattati congiuntamente, involgendo entrambi la valutazione di inefficacia probatoria delle e-mail aziendali.

La questione posta all’attenzione della corte non configura una violazione dell’art. 112 c.p.c..

Il vizio di “ultra” o “extra” petizione, in relazione al quale viene in rilievo l’art. 112 c.p.c., risulta configurabile se il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato; non in relazione al giudizio di valutazione del materiale probatorio – seppure erroneo espresso dal giudice di merito.

La critica, in relazione agli artt. 2702 e 2712 c.c., si arresta, invece, già sul piano dell’inammissibilità.

Come è noto, la parte che denunci, con il ricorso per cassazione, il pregresso e implicito riconoscimento o disconoscimento di documenti – e di detta circostanza lamenti la mancata od inadeguata valutazione ad opera del giudice di merito – ha l’onere di riprodurre nel ricorso stesso il tenore esatto dell’atto e di indicare da quali altri elementi sia possibile trarre la conclusione che tali documenti non siano stati disconosciuti (cfr. Cass. 17.05.2007 nr. 11460 e, in motivazione, Cass. 13.6.2017 nr 14654).

Ciò in quanto l’interesse ad impugnare, con ricorso per Cassazione, discende dalla possibilità di conseguire, attraverso l’annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole; a tal fine, è però necessario che sia indicata in maniera adeguata la situazione di fatto della quale si chiede una determinata valutazione giuridica, diversa da quella compiuta dal giudice del merito ed asseritamene sbagliata.

Nel caso concreto, parte ricorrente non riporta il contenuto delle e-mail e neppure trascrive compiutamente gli atti difensivi del lavoratore, limitandosi a riportare alcuni passaggi del ricorso introduttivo e di una memoria depositata in primo grado.

La censura è, in ogni caso, infondata.

Il messaggio di posta elettronica è riconducibile alla categoria dei documenti informatici, secondo la definizione che di questi ultimi reca il D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 1, comma 1, lett. p), (“documento informatico: il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”), riproducendo, nella sostanza, quella già contenuta nel D.P.R. n. 445 del 2000, art. 1, comma 1, lett. b).

Quanto all’efficacia probatoria dei documenti informatici, l’art. 21 del medesimo D.Lgs., nelle diverse formulazioni, ratione temporis vigenti, attribuisce l’efficacia prevista dall’art. 2702 c.c. solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, mentre è liberamente valutabile dal giudice, ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 20, l’idoneità di ogni diverso documento informatico (come l’e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.

La decisione impugnata non mette in discussione la sussistenza di una corrispondenza relativa all’indirizzo di posta elettronica del dipendente, sicchè è da escludere una violazione dell’art. 2712 c.c..

La sentenza della corte territoriale esclude, piuttosto, che i messaggi siano riferibili al suo autore apparente; trattandosi di e-mail prive di firma elettronica, la statuizione non è censurabile in relazione all’art. 2702 c.c. per non avere i documenti natura di scrittura privata, ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 1 cit..

Infine, non vi è alcuna specifica argomentazione in ordine alla asserita violazione dell’art. 414 c.p.c., indicata nella rubrica ma non sviluppata nel motivo.

8. Il quarto motivo è infondato.

La violazione degli artt. 2730 e 2735 c.c. – norme che disciplinano la confessione – è inconferente rispetto al decisum.

La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità dei fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte.

Nel caso di specie, si discute di dichiarazioni provenienti da terze persone – testimoni nel processo – che la Corte di appello ha giudicato inattendibili, per un coinvolgimento nella vicenda concreta; la valutazione di attendibilità e credibilità dei testi involge apprezzamenti di fatto ed è censurabile come vizio di motivazione.

Neppure vengono in rilievo profili di violazione dell’art. 115 c.p.c.; una questione di malgoverno dell’art. 115 c.p.c. può porsi solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: – abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; – abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici.

Nessuna di tali situazioni è rappresentata nel motivo scrutinato.

Il vizio di motivazione – pure prospettato con il motivo in esame – non configura l’ipotesi introdotta dal novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, limitata alla devoluzione di un “fatto storico”, non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo ((Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).

9. Inammissibile è il quinto motivo.

Parte ricorrente, pur formalmente denunciando la violazione dell’art. 2119 c.c., nella sostanza, deduce l’omesso esame di un fatto storico, consistente in uno dei due titoli di responsabilità attribuiti al dipendente e posto, in via alternativa, a fondamento del licenziamento.

E’ la stessa TELECOM che nell’illustrazione del motivo (pag. 16 del ricorso) afferma che a fondamento del recesso sono posti due fatti (storici): il recesso sarebbe stato giustificato sia in ragione di un diretto coinvolgimento del lavoratore nel procedimento di rivalutazione, in relazione al quale si riscontravano le irregolarità sia, comunque, a cagione del ruolo ricoperto nell’ambito dell’organizzazione della società e, dunque, per culpa in vigilando.

Tale secondo “fatto” non sarebbe stato adeguatamente valutato dalla Corte di appello.

Il vizio andava, allora, veicolato attraverso l’art. 360 c.p.c., n. 5; tuttavia, la censura, a prescindere dalla esatta qualificazione, difetta di specificità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 2, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4; parte ricorrente ha omesso di allegare e depositare la contestazione disciplinare.

10. Le censure di cui al sesto motivo – per come genericamente sviluppate (non è infatti dedotto di quali testi si tratta, se diversi ed ulteriori rispetto a coloro per i quali la corte di appello ha espresso il giudizio di inattendibilità) – restano assorbite dalle considerazioni espresse in relazione al quarto motivo.

11. Da quanto precede consegue l’inammissibilità del primo motivo, per difetto di interesse della parte ricorrente.

La sentenza impugnata ha accolto la domanda del lavoratore sulla base di due rationes decidenti:

– violazione del diritto di difesa;

– mancanza di giusta causa.

La statuizione divenuta definitiva è autonomamente idonea a sorreggere il decisum; dall’eventuale accoglimento delle ulteriori ragioni di ricorso non potrebbe dunque derivare la cassazione della sentenza con conseguente difetto di interesse alla società ricorrente al relativo esame.

Conclusivamente il ricorso va respinto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2018

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