Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10492 del 03/05/2018


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 10492 Anno 2018
Presidente: MANNA FELICE
Relatore: BELLINI UBALDO

ORDINANZA
sul ricorso 27655-2013 proposto da:
FOCCHESATO GIAMPIETRO COSTANTINO e SANTAGIULIANA
GIULIA, rappresentati e difesi dall’Avvocato ANTONIO BERTOLI
ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in PADOVA,
CORSO DEL POPOLO 8;
– ricorrenti contro

FOCHESATO ANNALISA e FOCHESATO MARIA LETIZIA,
rappresentate e difese dall’Avvocato FRANCESCA GISLON ed
elettivamente domiciliate in VENEZIA, SANTA CROCE 2122,
presso lo studio dell’Avvocato Andrea Piai;
– controricorrenti nonché contro

EQUITALIA NORD s.p.a. (già EQUITALIA POLIS s.p.a.) Padova
– intimata –

Data pubblicazione: 03/05/2018

avverso la sentenza n. 1070/2013 della CORTE D’APPELLO di
VENEZIA, depositata il 07/05/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
18/01/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

FOCHESATO e MARIA LETIZIA FOCHESATO, figlie di ANTONIO
FOCHESATO deceduto il 10.7.1998 senza testamento,
convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Padova la madre
GIULIA SANTAGIULIANA e il fratello GIANPIETRO COSTANTINO
FOCHESATO (o FOCCHESATO), al fine di ottenere lo scioglimento
della comunione ereditaria in essere sui beni del padre.
Con comparsa di costituzione e risposta depositata il
22.10.1999 si costituivano in giudizio Gianpietro Costantino
Fochesato e Giulia Santagiuliana, che si associavano alla
richiesta di divisione dell’eredità, sostenendo però che una
porzione dell’area, individuata in dichiarazione di successione con
parte del fabbricato ivi costruito sarebbe stata di esclusiva
proprietà di Gianpietro. Avanzavano inoltre richieste di
pagamento per pretese ristrutturazioni, per spese sostenute in
vita dal de cuius per sanatoria degli immobili, per spese funerarie
e affermavano che Annalisa aveva ricevuto nel 1976 un prestito
di £ 7.000.000 (che rivalutavano a £ 44.307.000) e Maria Letizia
un prestito di £ 30.000.000 (che rivalutavano a £ 48.177.000);
Gianpietro Costantino Fochesato precisava poi che nel frattempo
la madre gli aveva ceduto la sua quota indivisa e quindi allo stato
egli aveva diritto a una quota pari ai 5/9 dell’asse ereditario e
chiedeva, pertanto, qualora il compendio immobiliare non fosse
stato comodamente divisibile, l’attribuzione per l’intero.

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Con atto di citazione notificato il 22.6.1999, ANNALISA

Nelle memorie venivano ulteriormente precisate le
domande e presentate le rispettive istanze istruttorie. Il G.I., con
ordinanza dell’8.6.2001, non ammetteva la prova per testi
formulata dai convenuti nella prima memoria ex art. 184 c.p.c.,
in quanto mancante dell’indicazione dei testi, segnalati solo nella

disponeva C.T.U., che rilevava che sulla quota indivisa dei beni di
proprietà di Gianpietro Costantino Fochesato, Gerico s.p.a. (ora
Equitalia Polis) aveva iscritto ipoteca legale per un credito
vantato nei confronti dello stesso; veniva quindi integrato il
contraddittorio nei confronti della Gerico s.p.a. che rimaneva
contumace.
Il giudice padovano in data 27.1.2005 depositava la
sentenza non definitiva n. 111/05, con la quale rigettava le
domande proposte dai convenuti, aventi ad oggetto il rimborso
dei prestiti del padre alle figlie, il rimborso delle spese per
ristrutturazione e ampliamento dei fabbricati comuni e per il
condono edilizio; scioglieva la comunione sui beni mobili costituiti
dai libretti e depositi bancari indicati nella dichiarazione di
successione, assegnando a Giulia Santagiuliana C 6.050,82 (pari
ai 3/9), ad Annalisa, Maria Letizia e Gianpietro Costantino
Fochesato C 4.033,00 (pari a 2/9); condannava in solido le parti
attrici alla refusione pro quota delle spese di sepoltura del padre
quantificate in C 1.769.11 ciascuna; rimetteva la causa in
istruttoria con separata ordinanza.
Veniva espletata C.T.U. per l’identificazione catastale dei
beni, per rivedere anche la stima e la divisibilità dei beni
ereditari.

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successiva memoria di replica, e quindi maturata la decadenza,

Con sentenza n. 3028/08, depositata il 15.12.2008, il G.I.,
rilevato che Giampietro era titolare della quota-parte di 5/9 del
compendio immobiliare, mentre le sorelle unitamente solo dei
4/9, assegnava al primo l’intera proprietà dei beni immobili,
facendo obbligo allo stesso di corrispondere alle sorelle Annalisa

ciascuna, con gli interessi legali dalla pubblicazione della
sentenza al saldo; compensava tra le parti le spese processuali.
Con atto di citazione d’appello, notificato il 1° febbraio
2010, Gianpietro Costantino Fochesato e Giulia Santagiuliana
proponevano appello avverso la sentenza non definitiva n.
111/05, depositata il 27.1.2005, e la sentenza n. 3028/2008 del
5.8.2008, depositata il 15.12.2008, per erroneità dell’ordinanza
dell’8.6.2001 con la quale il Giudice aveva rigettato le istanze di
prove orali formulate dagli appellanti, e per motivazione illogica
nella parte in cui il Tribunale di Padova aveva affermato che da
una lettera inviata dal dott. Salasnich (commercialista delle
controricorrenti) emergerebbe la natura di donazioni delle
elargizioni fatte dal defunto Antonio Fochesato alle figlie Annalisa
e Maria Letizia.
Le parti appellate si costituivano eccependo in via
preliminare nel rito la mancata indicazione nell’atto di appello
degli avvertimenti di cui al settimo comma dell’art. 163 c.p.c., la
inammissibilità dell’appello per mancanza dei requisiti di cui ai
numeri 3 e 4, terzo comma dell’art. 163 c.p.c., nonché la
infondatezza dei motivi di appello.
Respinte le eccezioni di rito, in quanto le appellate si erano
comunque costituite tempestivamente e avevano avuto modo di
dedurre in modo approfondito alle doglianze delle parti

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e Maria Letizia, a titolo di conguaglio, la somma di C 39.705,09

appellanti, la Corte d’Appello di Venezia, con sentenza n.
1070/2013, depositata il 7 maggio 2013, rigettava l’appello
avverso la sentenza non definitiva n. 111/05 del Tribunale di
Padova, depositata il 27.1.2005, e alla sentenza definitiva dello
stesso tribunale n. 3028/08 del 5.8.2008, depositata in data

appellata le spese di lite liquidate in C 7.087,50 come da nota
spese in atti oltre IVA e cpa
Per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di
Venezia Gianpietro Costantino Fochesato e Giulia Santagiuliana,
in data 12.11.2013, hanno proposto ricorso sulla base tre motivi.
Annalisa e Maria Letizia Fochesato hanno resistito ciscuna con
controricorso; la seconda ha altresì depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano la «nullità
della sentenza ex art. 365 n. 4 c.p.c. per violazione dell’art. 161
c.p.c.», là dove la sentenza d’Appello risulta sottoscritta dal
magistrato relatore e da un magistrato, il Presidente, che non
componeva il Collegio giudicante. I ricorrenti citano al riguardo
decisioni di questa Corte che, in tali casi, hanno sancito la nullità
della sentenza (Cass. n. 3161 del 2006 e Cass. n. 4468 del
2003).
1.2. – Il motivo non è fondato.
1.3. – Vero che, in entrambe le richiamate pronunce,
questa Corte ha ritenuto che la sottoscrizione di una sentenza
emessa da un organo collegiale ad opera di un magistrato che
non componeva il collegio giudicante, in luogo del magistrato che
ne faceva parte e che avrebbe dovuto sottoscriverla, integra
l’ipotesi della mancanza della sottoscrizione da parte del giudice

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15.12.2008. Condannava parte appellante a rifondere alla parte

disciplinata dall’art. 161, secondo comma, c.p.c. E che il difetto
di detta sottoscrizione, se rilevato nel giudizio di cassazione,
determina la dichiarazione di nullità della sentenza e il rinvio
della causa, ai sensi dell’art. 3«, primo comma, 360 n. 4 e 383,
ultimo comma, c.p.c. al medesimo giudice che ha emesso la

riesame del merito della causa, che non può limitarsi alla mera
rinnovazione della sentenza (Cass. 7 luglio 1999 n. 7055). E che
quindi deve essere dichiarata la nullità della sentenza ex artt.
132 e 161 cpv., c.p.c., per mancata sottoscrizione del
presidente, sostituita da quella di un giudice estraneo al collegio
(cfr. sul tema Cass. n. 15249 del 2002; n. 7275 del 2001; n.
7059 del 2001; n. 16045 del 2000).
Vero, però, è anche che la Corte ha di recente precisato
(Cass. n. 24951 del 2016) che la non corrispondenza del
collegio, così come riportato nell’epigrafe della sentenza, con
quello innanzi al quale sono state precisate le conclusioni può dar
vita, secondo la giurisprudenza di questa stessa Corte, a due
diverse situazioni, secondo che tale mancata corrispondenza
debba ritenersi o non, secondo le circostanze, effettiva. Nel
primo caso, si afferma costantemente che in tema di
deliberazione collegiale della decisione nel regime successivo alla
riforma recata dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, l’art. 276,
primo comma, c.p.c. – rimasto invariato nella sua formulazione,
la quale prevede che alla deliberazione della decisione “possono
partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione”
– va interpretato nel senso che i giudici che deliberano la
sentenza devono essere gli stessi dinanzi ai quali sono state
precisate le conclusioni. Pertanto, in grado di appello, in base alla

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sentenza priva di sottoscrizione, da investire del potere-dovere di

disciplina di cui al novellato art. 352 c.p.c., il collegio che
delibera la decisione deve essere composto dagli stessi giudici
dinanzi ai quali è stata compiuta l’ultima attività processuale
(cioè la discussione o la precisazione delle conclusioni),
conseguendone la nullità della sentenza nel caso di mutamento

18268/09, 13998/04 e 10458/01). Nel secondo caso, si osserva,
invece, che in materia di provvedimenti collegiali del giudice
civile, la sentenza, nella cui intestazione risulti il nominativo di
un magistrato, sia pur non tenuto alla sottoscrizione, diverso da
quello indicato nel verbale dell’udienza collegiale di discussione,
deve presumersi affetta da errore materiale; ed è, pertanto,
emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e
288 c.p.c., atteso che detta intestazione è priva di autonoma
efficacia probatoria e che i magistrati i quali hanno partecipato
alla deliberazione della sentenza, in difetto di elementi contrari,
che è onere del ricorrente indicare, si devono ritenere coincidenti
con quelli indicati nel verbale dell’udienza (Cass. n. 15879 del
2010, n. 12352 del 2009 e Cass. sez. un. n. 11853 del 1991).
Se ne desume il seguente principio: “la non corrispondenza
del collegio, così come riportato nell’epigrafe della sentenza, con
quello innanzi al quale sono state precisate le conclusioni è causa
di nullità della decisione solo in caso di effettivo mutamento del
collegio medesimo; l’onere della prova di tale divergenza grava
sulla parte che se ne dolga, dovendosi altrimenti presumere, in
mancanza di elementi contrari ed in difetto di autonoma efficacia
probatoria dell’intestazione della sentenza, che i magistrati che
hanno partecipato alla deliberazione coincidano con quelli indicati

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t -)

della composizione del collegio medesimo (Cass. nn. 4925/15,

nel verbale d’udienza, e che, pertanto, la pronunzia sia affetta da
mero errore materiale” (Cass. n. 24951 del 2016).
1.4. – Tale principio va ritenuto applicabile alla fattispecie,
in cui il ricorrente non ha in alcun modo provato che nella specie,
anziché di un mero errore materiale, si sia trattato di un vero e

2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano la
«Violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ovvero
dell’art. 184 c.p.c. nella formulazione vigente fino al 1.3. 2006»,
giacché la Corte d’Appello ha ritenuto che le prove dedotte in
primo grado dai ricorrenti nella memoria istruttoria ex art. 184
c.p.c., sui capitoli riportati alle pagg. 11-13 del ricorso, fossero
inammissibili in quanto nella prima memoria istruttoria non
erano stati indicati i testi da escutere, indicati solo nella seconda
memoria istruttoria. I ricorrenti sottolineano che, viceversa, l’art
184, 2° comma, c.p.c. prevede la perentorietà del termine per
indicare nuovi mezzi di prova e non per indicare i nome dei testi
(come affermato da Cass. n. 2935 del 1998 e n. 7682 del 1999).
2.1. – Il motivo è infondato.
2.1. – Va innanzitutto rilevato che, con riferimento ai due
precedenti giurisprudenziali richiamati dai ricorrenti, il primo
(Cass. n. 2935 del 1998) – lungi dall’affermare l’assunto secondo
cui l’art 184, 2° comma, c.p.c. prevederebbe la perentorietà del
termine per indicare nuovi mezzi di prova e non per indicare i
nome dei testi – ritiene infondato il motivo attraverso il quale,
nella specie, si lamentava che erroneamente la Corte d’appello
avesse rilevato d’ufficio l’inammissibilità della prova testimoniale
richiesta, per omessa indicazione delle persone da escutere,
giacché il giudice del merito ha il potere-dovere di rilevare i casi

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proprio mutamento del collegio giudicante.

di inammissibilità della prova, indipendentemente dall’istanza
della parte interessata, fin quando la prova non abbia avuto
concreto inizio. In altri termini, questa Corte ha affermato che
non è riscontrabile, nella dichiarazione di inammissibilità della
dedotta prova per testi effettuata dai giudici di merito, alcuna

necessaria un’apposita eccezione di parte per consentire al
giudice di ritenere inammissibile la dedotta prova per testi priva
dell’indicazione delle persone che la parte intende escutere sui
formulati capitoli. Ed invero, l’art. 184 c.p.c., nello stabilire che il
giudice ammette i mezzi di prova, se ritiene che siano
ammissibili e rilevanti, gli attribuisce un potere officioso di
sindacare l’ammissibilità delle stesse.
Resta, pertanto, il solo precedente (Cass. n. 7682 del
1999) in cui si afferma che l’art. 184 comma 2 cod. civ. prevede
il carattere perentorio del termine per indicare nuovi mezzi di
prova e non per indicare il nome dei testimoni relativamente ad
una prova testimoniale ammessa.
A fronte di ciò la giurisprudenza pressoché unanime ritiene
viceversa che, nel processo civile disciplinato dalla L. n. 353 del
1990, che ha abrogato gli ultimi due commi dell’art. 244 c.p.c.,
al giudice istruttore è riconosciuto il potere di assegnare un
termine, ai sensi dell’art. 184 c.p.c., comma 1, per deduzioni
istruttorie concernenti la prova testimoniale, e ciò riguarda non
solo la formulazione dei capitoli, ma anche l’indicazione dei testi.
Solo una volta che il giudice abbia provveduto sulle richieste
avanzate dalle parti non è più possibile effettuare tale
indicazione od integrare la lista testi, in quanto l’unica attività
processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse

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violazione degli invocati artt. 157 e 244 c.p.c., non essendo

consiste nell’assunzione delle medesime (Cass. n. 5082 del
2007; conf. Cass. n. 11790 del 2016).
2.2. – Va detto tuttavia che, in ripetute occasioni questa
Corte ha specificamente sottolineato che la concessione del
predetto termine ai sensi dell’art. 184 c.p.c. è possibile solo

non dopo. Da tale disposizione e dalla ulteriore normativa in
materia si evince infatti che il legislatore ha inteso stabilire per le
deduzioni istruttorie, una precisa e rapida procedura, di cui il
provvedimento di ammissione costituisce tratto finale; la chiara,
sintetica e rigorosa scansione dei tempi processuali emergente
da tale normativa non lascia dubbi sul fatto che anche
l’indicazione dei testi deve precedere detto provvedimento di
ammissione e che dopo quest’ultimo l’unica attività processuale
giuridicamente possibile consiste nell’assunzione delle prove
ammesse. Occorre aggiungere che rispetto a tale impostazione
generale il legislatore ha previsto solo rare eccezioni come quella
stabilita dal terzo comma dell’art. 184 c.p.c. (possibilità per le
parti, nell’ipotesi che vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, di
dedurre i mezzi i prova che si rendano necessari in relazione ai
primi) o quella stabilita dall’art. 184 bis c.p.c. (rimessione in
termini). Questa Corte osserva dunque che non può dunque
essere confermato quanto già affermato con la citata sentenza n.
7682 del 1999 (secondo la quale “la parte che deposita la lista
testimoniale dopo la scadenza del termine assegnatole dal
giudice non incorre in alcuna decadenza perché l’art. 184
secondo comma cod. proc. civ. prevede la perentorietà del
termine per indicare nuovi mezzi di prova, non per indicare i
nomi dei testi di una prova già ammessa”) (Cass. n. 12959 del

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prima del provvedimento con cui vengono ammesse le prove e

2005). Sicché, sulla base di quanto esposto va enunciato il
seguente principio di diritto: “in tema di deduzioni istruttorie
concernenti la prova testimoniale, il termine assegnato dal
Giudice Istruttore ai sensi del primo comma dell’art. 184 c.p.c.
riguarda non solo la formulazione dei capitoli, ma anche

possibile provvedere a detta indicazione od integrare la lista testi
eventualmente indicata tempestivamente; e l’unica attività
processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse
consiste nell’assunzione delle medesime”.
3. – Con il terzo motivo, i ricorrenti deducono la
«violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in particolare
violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2967
c.c. in tema di onere della prova; omesso esame di un fatto
decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti».
I ricorrenti rilevano che Maria Letizia Fochesato ha
ammesso il mutuo concesso dal padre, tanto da averlo (a suo
dire) rimborsato. Dal momento che entrambe le sorelle
dell’attuale ricorrente non hanno mai dedotto un’eventuale
differente natura delle elargizioni in denaro ricevute, non si può
che dedurre come entrambe le somme fossero state corrisposte
dal padre a titolo di mutuo. Osservano quindi che per la
prevalente giurisprudenza, in base al principio di non
contestazione, l’attore sarebbe liberato dall’onere di provare le
circostanze costituenti la causa petendi della sua domanda. Né,
del resto, sussisterebbe la prova dell’asserita restituzione delle
somme da parte di Maria Letizia: l’assegno, infatti, era stato
firmato da suo marito. Tra l’altro, essendo l’assegno un titolo di
credito astratto quanto alla causa relativa al rapporto negoziale

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l’indicazione dei testi; una volta ammessa la prova non è più

sottostante, spetta a colui che intende valersene la prova in
ordine al suddetto rapporto eziologico con il negozio dedotto in
giudizio.
Pertanto, per i ricorrenti, l’errore della sentenza starebbe
nel non aver fatto corretto governo delle norme in tema di

che non vi è la prova della dazione a mutuo di una somma da
parte del mutuante al mutuatario e contemporaneamente che vi
è la prova della restituzione della somma asseritamente
consegnata a tale titolo. Quando la parte onerata afferma di aver
restituito l’importo mutuato, essa è onerata della relativa prova e
contemporaneamente il mutuante è dispensato dal provare il
rapporto di mutuo. In sostanza, l’onere della prova sarebbe
gravato sui ricorrenti solo se il debitore avesse provato il fatto
estintivo. Infine, per i ricorrenti, la Corte d’Appello avrebbe
commesso un ulteriore errore nel ritenere che competeva agli
attuali ricorrenti di indicare “a quale diverso rapporto di debito
dovrebbe essere ascritto l’assegno se non a quello in esame”.
3.1. – Il terzo motivo è, in parte, infondato e, in perte,
inammissibile.
3.2. – In rimo luogo nel dedurre la violazione e falsa
applicazione dell’art. 115, primo comma, c.p.c., in tema di onere
della prova – là dove il giudice di appello non avrebbe applicato il
principio di non contestazione – i ricorrenti non tengono conto
del fatto che l’art. 115 c.p.c. è stato sostituito dall’art. 45,
comma 14, della legge 18.6.2009, n. 69, in vigore dal 4 luglio
2009 ed applicabile ai giudizi instaurati successivamente a tale
data (ex art. 58, comma 1, della citata legge n. 69 del 2009).
Alla originaria previsione secondo cui “Salvi i casi previsti dalla

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specifica contestazione da parte dell’onerato, non potendosi dire

legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le
prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero”, il nuovo
testo del comma 1 dell’art. 115 c.p.c. ha aggiunto le parole
“nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte
costituita”.

di citazione notificato il 22.6.1999, non risulta ad esso applicabile
il principio di non contestazione quale normativamente ridefinito
dal nuovo testo dell’art. 115 c.p.c., e pertanto cadono tutte le
argomentazioni svolte relativamente a detta norma (in uno con
l’art. 2967 c.c.), in riferimento implicito ai vizi di cui all’art. 360,
primo comma, n. 3, c.p.c.
D’altronde – nei termini in cui sono state sollevate le
censure racchiuse nel terzo motivo di ricorso – appare evidente
come il profilo di violazione e falsa applicazione del principio di
non contestazione sia stato dal ricorrente esplicitamente riferito
proprio alla specifica regola dettata dal nuovo testo dell’art. 115
c.p.c., non essendo spesa alcuna argomentazione che faccia
intendere un possibile richiamo all’onere di specifica
contestazione (diverso quanto ad ambito applicativo e
conseguenze di ordine probatorio: Cass. n. 23638 del 2007; n.
13958 del 2006; n. 13830 del 2004), introdotto, per i giudizi
instaurati dopo l’entrata in vigore della legge n. 353 del 1990,
dall’art. 167, primo comma, c.p.c.
3.3. – Inoltre, va rilevato che il presente ricorso è, ratione
temporis, soggetto all’applicazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c.,

come riformulato dall’art. 54, comma 1, lett.

b) , del d.l. 22

giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7
agosto 2012, n. 134 (applicabile, ex art. 54, comma 3, alle

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Trattandosi, nel nostro caso, di giudizio instaurato con atto

sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge), a
norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso
per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le

E’ noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054
del 2014), la nuova norma consenta di denunciare in cassazione
– oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di
legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando
tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice
difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio
dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la
cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le
parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato,
avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n.
14014 e n. 9253 del 2017). Ne consegue che, nel rispetto delle
previsioni degli artt. 366, comma 1°, n. 6, e 369, comma 2°, n.
4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il
cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale,
da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua
“decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

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parti”.

3.4. – Orbene, le censure mosse dalla ricorrente principale
in riferimento al parametro di cui al nuovo n. 5 dell’art. 360
c.p.c. si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generica di
un inammissibile riesame del merito (da ultimo, Cass. n. 1855
del 2018), attraverso una generale (ri)valutazione alternativa

completa condivisione della decisione del giudice di primo grado)
a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista
rispetto a quella compiuta dalla medesima Corte d’appello (Cass.
n. 1885 del 2018).
3.5. – In particolare, poi, i ricorrenti si dolgono del valore
attribuito, ai fini di provare la dazione di somme, alla lettera
inviata dal commercialista delle controricorrenti, Sergio
Salasnich, della quale tuttavia non viene in alcun modo riportato,
dai ricorrenti, l’esatto contenuto.
Questa Corte ha ripetutamente affermato il principio
secondo cui, qualora il ricorrente per cassazione faccia
riferimento alla valutazione di un documento da parte del giudice
del merito, ha l’onere di indicare nel ricorso il contenuto rilevante
dello stesso, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il
reperimento negli atti processuali (cfr. altresì Cass. n. 22576 del
2015; n. 16254 del 2012), giacché per il principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione, il controllo deve
essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni
contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative (Cass.
n. 192 del 2018; n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n.
14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220
del 2012).

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delle ragioni motivate e logiche poste dalla Corte territoriale (in

4. – Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese seguono la
soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa
altresì la dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.

delle spese di lite alla parte controricorrente FOCHESATO MARIA
LETIZIA, che liquida in complessivi C 7.000,00 di cui C 200,00
per rimborso spese vive, ed alla parte controricorrente
FOCHESATO ANNALISA che liquida in complessivi C 6.000,00 di
cui C 200,00 per rimborso spese vive; oltre al rimborso
forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di
legge per ciascuna di dette parti. Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei

presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art.
13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla refusione

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